E quindi, anziché promuoversi in punti dello schermo dove ormai nessuno guarda più, lo fanno all’interno dello stream dei contenuti, dove inevitabilmente lo sguardo si deve posare.
E’ la spiegazione, chiarissima ed efficace,  con cui Davide ‘’Tagliaerbe’’ Pozzi, un noto esperto di marketing digitale, annuncia  sul suo blog  l’ avvento della ‘’native Advertising’’, ‘’pubblicità integrata a contenuti di alta qualità , che – spiega – NON risulta (o meglio, non dovrebbe risultare) interruttiva agli occhi dell’utente’’. E che dovrebbe dominare lo scenario pubblicitario nel 2013.
Come però segnala Tagliaerbe, le cose sono più complesse.
Se infatti è vero che una ricerca di Solve Media delinea un quadro roseo delle potenzialità di questa nuova forma di promozione, da un’ altra ricerca, questa volta di MediaBrix, emerge infatti che in moltissimi casi i consumatori percepiscono la Native Advertising come qualcosa di ingannevole, fuorviante. Come mostra la tabella qui sotto.
Dal 45% dei tweet promozionali all’86% dei video sponsorizzati, passando dalle storie sponsorizzate di Facebook (57%) agli advertorial (66%), la percentuale di utenti che sente una gran puzza di bruciato quando si mischia contenuto a pubblicità è enorme,
commenta Pozzi e conclude:
La maggior parte degli intervistati definisce infatti come “misleading†queste forme di pubblicità , e questo può avere un impatto negativo sulla percezione che si ha del brand.
Per non parlare della percezione nei confronti dell’editore: se, per esempio, iniziassi a pubblicare marchette su questo blog, cosa accadrebbe del mio brand? O saresti disposto ad accettare qualche contenuto “sponsored byâ€, se togliessi i banner di mezzo?