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Page One: Inside the New York Times

Il video documentario girato da Andrew Rossi, regista e produttore della pellicola, che per oltre 12 mesi ha vissuto all’interno della redazione del NYT fianco a fianco con  giornalisti e  redattori, descrivendone le difficoltà, gli sforzi e le aspettative, nel momento di grave difficoltà causato dalla crisi economica globale da un lato e la transizione verso il digitale dall’altro.

 

 

di Antonio Rossano

 

Ho finalmente visto il dvd documentario che titola questo articolo, reperibile in libreria dal 10 ottobre scorso. Scrivo questo post nella consapevolezza di essere arrivato tardi, anche se di poco (qui e qui altri luoghi dove leggerne). Tra i due indicati (ma ce ne sono altri), senza logica del campanile, il primo resoconto è quello a mio avviso più tecnico ed approfondito, del mio collega in European Journalism Observatory, Philip Di Salvo, che suggerisco agli amici di LSDI.

 

Volevo però aggiungere alcune considerazioni in proposito, personali, ma fino ad un certo punto.

 

Innanzitutto il DVD è accompagnato da un libricino a cura di Emilia Bandel, che è una collezione di chicche, a cominciare dalla prefazione di Giorgio Bocca, importata dal suo saggio “È la stampa bellezza!”, per continuare con “il reboot del giornalismo”, capitolo scritto a quattro mani da Vittorio Zambardino e Massimo Russo che ci portano indietro nel tempo a quel particolare momento che fu il 2008, quando sembrava che le sorti del NYT fossero segnate e la bancarotta imminente.

 

Il documentario (video) è una “americanata”, per quanto affondato nella realtà della più grave ed irrisolvibile crisi che l’editoria americana (e mondiale) abbiano mai vissuto, e descritto dall’interno del più prestigioso giornale del mondo, costruito con la classica logica del bene e del male, o dei buoni e cattivi se vogliamo, ma soprattutto del mito americano.

 

Uso il termine “americanata” anche se l’amico e docente di Sociologia del’Industria Culturale all’Università Federico II di Napoli, Sergio Brancato, ha scritto, e tristemente condivido in pieno, che dopo l’11 settembre, parlando di un film, non si sarebbe più potuto dire “è un americanata”, perché quella volta e per sempre, la realtà ha superato ogni possibile immaginazione o cataclisma spettacolare hollywoodiano.

 

Beh insomma sembra di seguire  le vicende della balena bianca, Moby Dick, accompagnati da un capitano Achab che, pur essendo già attaccato con un arpione alla pancia del cetaceo che sta per sprofondare negli abissi, continua ad ammirarlo ed a tentare di istillare fiducia nel pubblico…

 

Solo che la guida nel caso specifico è David Carr, e la balena bianca il New York Times.

 

David Carr, giornalista che apprezzo e seguo da tempo sulle colonne del NYT che, forse per la sua vita alquanto travagliata (20 anni di tossicodipendenza da cocaina e crack), pur avendo solo 56 anni sembra nel video averne almeno 75. Carr, che nella vita ce l’ha fatta, come di ce lui stesso: “se ho superato 20 anni di tossicodipendenza ed ho cresciuto due figlie, non posso aver paura di questo”, riferendosi alla grave crisi del giornale (c’è anche una parte centrale del documentario in cui si vedono delle storiche collaboratrici del giornale rotte in lacrime, essendo state licenziate per la crisi). Insomma Carr,  forse anche in maniera grottesca in questa metaforica rappresentazione, rappresenta la speranza, la possibilità che anche il giornale-istituzione possa farcela.

 

E tutto nel film sembra parlare questo linguaggio della speranza e del bene-male: il NYT che ha superato tutti quando ha deciso di pubblicare i documenti riservati di Wikileaks, mettendosi evidentemente in contrasto con l’amministrazione americana, o perfino se stesso, ammettendo tanti errori come ad esempio quando, all’epoca della guerra del Golfo, aveva sostanzialmente appoggiato l’invasione dell’IRAQ, pubblicando una serie di rivelazioni e documenti (poi rivelatisi del tutto falsi) sul fatto che Saddam Hussein avesse o stesse predisponendo armi di distruzione di massa.

 

Quello che purtroppo è mancato, e non poteva essere diversamente, è il lieto fine. Evidentemente il finale è ancora da scrivere, ma sicuramente non ci sarà un “settimo cavalleggeri” che arriverà in soccorso del NYT !!

 

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