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Rilanciare l’ impegno per una riforma radicale dell’ Ordine, contro la sua deriva burocratica, per un giornalismo pulito e corretto

Il segretario del Consiglio nazionale dell’ Ordine dei giornalisti, Giancarlo Ghirra, attacca la gestione del presidente Enzo Iacopino e della maggioranza che lo sostiene, accusandolo di aver volutamente assecondato l’ inerzia del Parlamento, frenando la spinta riformista a favore del mantenimento dello status quo – E di aver aumentato così la distanza con il giornalismo reale, con le redazioni e le migliaia di giornalisti freelance per scelta o per necessità, contribuendo a demolire l’ autorevolezza e il prestigio di quello che dovrebbe essere il massimo organo di autogoverno del giornalismo italiano -  La battaglia per un Ordine riformato secondo il principio che è giornalista chi lo fa, per l’ accesso universitario alla professione, per il superamento delle divisioni ottocentesche fra professionisti e pubblicisti*

 

 

 

di Giancarlo Ghirra

(da Nuova Informazione)

 

 

Il sonno della politica genera mostri, e l’inerzia del Parlamento spinge l’ Ordine dei giornalisti verso una deriva burocratica. Da anni Camere e Governi di turno vengono sollecitati a dare risposte a una professione attraversata da una crisi drammatica. Da anni si chiede che giornalista sia chi lo fa, superando le divisioni ottocentesche fra professionisti e pubblicisti. Ma l’ inerzia dei parlamentari, accompagnata dalla complicità di chi ha guidato e guida l’Ordine, contribuisce a demolire l’ autorevolezza e il prestigio di quello che dovrebbe essere il massimo organo di autogoverno del giornalismo italiano.

 

 

Un Consiglio nazionale sempre più autoreferenziale, sempre più lontano dalle redazioni, per non parlare dei free lance e dei colleghi impegnati nei new media, riesce addirittura a eleggere  un pubblicista novantenne presidente del Consiglio di disciplina, una sorta  di Consiglio superiore al quale potranno rivolgersi i giornalisti  sanzionati in primo grado dagli Ordini regionali per la violazione delle regole deontologiche e dell’ etica della professione. Direttori di giornali e televisioni al centro delle cronache per episodi gravi e delicati  saranno accolti e giudicati da un signore per suo conto magari validissimo ma  privo di significative esperienze professionali (e persino del superamento dell’ esame di Stato) che lo mettano in grado di valutare con  indispensabile competenza comportamenti e scelte assai delicati.

 

 

Per fortuna nel Consiglio di disciplina, in tutto dodici “giudici”, saranno presenti, soprattutto per il voto della minoranza di “Liberiamo l’ informazione “, colleghi e colleghe di grande spessore professionale e anche giuridico. Al solito la combattiva presenza della minoranza  (meno di 50 consiglieri su 150, una pattuglia indebolita da alcune assenze ormai croniche) ha limitato il danno. Ma sarebbe stolido ignorare il sempre maggiore appannamento del ruolo dell’ Ordine, la sua crescente perdita di credibilità agli occhi dei colleghi impegnati sul campo, meno di 50mila con un minimo di contributi versati all’Inpgi rispetto ai ben 112mila iscritti,  la maggior parte dei quali non esercita alcun ruolo della professione, ma invade con i suoi manipoli le stanze dell’ Ordine nazionale contrattando incarichi e poltrone con la complicità di chi guida l’ Ordine in questo momento.

 

 

Quella dei Consigli di disciplina è decisamente una pagina nera di una storia controversa, con bei momenti quando si è trattato di sanzionare giornalisti protagonisti della pubblicazione di notizie false (è il caso di Vittorio Feltri e della inventata velina contro Dino Boffo) o di violazione di regole elementari (Claudio Brachino contro il giudice Misiano). Ma anche con momenti pessimi quando, sempre a voto segreto, il Consiglio ha assolto giornalisti protagonisti di scandalose vicende di commistione fra pubblicità e informazione o concesso la sospensiva a direttori protagonisti di sfruttamento del lavoro di  giovani colleghi, difesi a parole ma abbandonati al loro destino dall’Ordine.

 

 

Un Ordine nel quale la maggioranza impedisce di varare la norma che consentirebbe a migliaia di giovani precari sfruttati, finti pubblicisti, di diventare professionisti con il riconoscimento del loro lavoro nelle redazioni.

 

 

Che fare, dunque?  Prendere la via dell’ Aventino, dissociarsi pubblicamente e totalmente anche con l’ abbandono degli incarichi sin qui ricoperti,  da una maggioranza del Consiglio nazionale che mostra attenzione e addirittura subalternità alle scelte del ministero della Giustizia e dei suoi uffici, ma ignora le richieste dei colleghi e non si batte per una riforma seria della professione?

 

 

La nostra cultura di base è quella dell’ impegno anche da posizioni minoritarie, ma va intanto denunciata l’ ostinata e deliberata volontà del presidente dell’ Ordine di bloccare ogni ipotesi di riforma, in nome soprattutto del mantenimento del potere dei “capo clan” dei pubblicisti, veri grandi elettori dell’ attuale rappresentante legale di un organismo collegiale ridotto a centro di potere personale e personalistico.

 

 

L’ inerzia di chi avrebbe dovuto promuovere una svolta si è saldamente intrecciata con quelle di un Parlamento e un Governo sordi alle richieste di chi chiede da anni di consentire l’ingresso nell’Ordine soltanto a chi fa  per mestiere il giornalista.

 

 

A pochi giorni dal suo cinquantesimo compleanno un organismo invecchiato male si  ritrova improvvisamente, in un’epoca nella quale va di moda la rottamazione, addirittura vetusto:  grazie a una norma miope e superficiale del regolamento firmato dalla ministra della Giustizia Paola Severino, la presidenza del Consiglio di  disciplina è affidata al più anziano per data di iscrizione: in questo caso un quasi novantenne, peraltro l’ultimo dei votati fra i dodici, con appena 27 voti contro gli 81 del primo degli eletti.

 

 

La situazione è insomma assai seria e grave. Tanti degli attuali consiglieri nazionali impegnati sul campo dei giornali su carta e on line, delle tivù, del lavoro autonomo meditano di abbandonare il campo, scoraggiati, convinti che non ci sia niente da fare davanti all’ inerzia della politica e al crescente svuotamento dei poteri e del ruolo di un organismo nel quale – è bene ricordarlo – anche i giornalisti hanno difficoltà a riconoscersi.

 

 

Eppure si tratta di un organismo fondamentale, perché è nella sua legge istitutiva che si sancisce il diritto-dovere di chi esercita la professione al rispetto della verità sostanziale dei fatti, un vero argine alle prevaricazioni degli editori e dei potenti nell’ Italia dei conflitti di interesse. Quell’ articolo 2 della legge del 1963 tutela chi vuol essere libero da condizionamenti esterni, la sua conservazione merita grandi battaglie, nonostante tutto: nonostante un Consiglio nazionale diventato un carrozzone,  con ben 150 iscritti, destinati a crescere con una sostanziale parità fra giornalisti professionisti e pubblicisti.

 

C’ è da dire che si è aperto recentemente un nuovo fronte, una nuova possibilità di alleanze, grazie alla scelta della grande maggioranza degli Ordini regionali di scendere in campo sul terreno della riforma e in difesa delle prerogative del l’ organismo di autogoverno dei giornalisti. I presidenti hanno appena iniziato un confronto-scontro, ancora in atto, con il presidente nazionale. Hanno anche chiesto alla minoranza di sposare le loro posizioni. E in effetti i consiglieri di  “Liberiamo l’informazione” hanno chiesto un rinvio delle scelte nazionali sul Consiglio di disciplina. Per la cronaca va detto che dalle file della maggioranza si è scatenato un attacco molto violento: lo stesso  Iacopino ha paventato il commissariamento dell’ Ordine, mentre altri hanno ipotizzato la richiesta di danni anche patrimoniali.

 

 

L’accusa di non voler rispettare le leggi (per quanto sbagliate), la percezione che anche un rinvio non sarebbe stato risolutivo, dati i rapporti di forza in Consiglio nazionale, ha spinto la minoranza ad abbandonare la trincea del rinvio, ottenendo peraltro che  Iacopino si recasse al ministero per sollecitare risposte  alle domande degli Ordini regionali e della stessa maggioranza.

 

 

Da qui una missione, incredibilmente solitaria, del presidente nelle stanze dell’ Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, con risposte per ora verbali  ma che si attendono scritte e che saranno al centro di una Consulta dei presidenti già convocata per il 10 gennaio del 2013.

 

 

Di fatto  il non riformato Ordine dei giornalisti si va trasformando sempre più in un organismo burocratico, incaricato della tenuta dell’ Albo e di una formazione professionale ancora tutta da inventare. Un terreno sul quale sarà importante  mettere al centro deontologia e regole etiche, accentuando – ora che i giudici sono altro dal Consiglio nazionale – i compiti di vigilanza, segnalazione e denuncia di comportamenti scorretti.

 

 

Occorre tuttavia un incrollabile ottimismo per sperare in una svolta, una riforma varata dal Parlamento,  mentre crolla di giorno in giorno il prestigio di un Ordine sempre meno espressione della specificità della professione giornalistica,  sempre più governato da logiche burocratiche da ufficio pubblico.

 

 

Un Ordine che rischia di diventare sempre meno utile non soltanto ai suoi iscritti, ma soprattutto ai cittadini, ai quale dovrebbe garantire un’ informazione corretta e trasparente.

 

 

Non bisogna tuttavia arrendersi, ma puntare a una svolta immediata, realizzando subito quanto è possibile a legislazione immutata e lavorando per un cambiamento  radicale. Un obiettivo ravvicinato non può non essere il ricongiungimento all’ elenco dei professionisti di quei  colleghi, non sempre giovanissimi, costretti dalla mancata assunzione quali praticanti a un precariato durissimo: finti  pubblicisti, migliaia di colleghe e colleghi tengono in piedi per pochi euro a pezzo  giornali, tivù, siti web e testate on line senza neppure il riconoscimento della loro attività di professionisti dell’ informazione.

 

 

Vincendo le resistenze di tanti, dobbiamo ottenere subito per loro la possibilità di accedere all’ esame di Stato dopo un corso di formazione centrato soprattutto sulle regole deontologiche.

 

 

Insieme al sindacato e alle associazioni che si battono per la libertà dell’ informazione dobbiamo poi ottenere dal nuovo Parlamento l’ allineamento dell’Italia all’ Europa nel contrasto dei confitti d’ interesse e dei monopoli che ostacolano un reale pluralismo dei mass media.  I recenti comportamenti di Silvio Berlusconi , campione europeo e forse mondiale dei conflitti di interesse, dimostrano quanto sia necessaria all’ Italia una legge che la strappi all’ arretratezza che ci fa  classificare dopo il sessantesimo posto nella classifica della libertà di stampa nell’ intero pianeta.

 

 

Tante sono le cose da fare, insieme alla vigilanza contro i ricorrenti tentativi  di imporre leggi bavaglio ai giornalisti, sventati grazie alla mobilitazione di  tutti ma sempre possibili in un Paese che consente intimidazioni e ricatti ai cronisti, ad esempio con quelle querele temerarie non sanzionate dalle nostre leggi.

 

 

Proprio per difendere la peculiarità di una professione non tutelata neppure dal  Governo Monti, il nuovo Ordine deve entrare in sintonia con i mutamenti epocali  del mondo dell’ informazione. Nato quando nelle redazioni si ritrovavano meno di  diecimila professionisti, in Italia uscivano una settantina di quotidiani e poche centinaia di periodici, e si contava una sola azienda radiotelevisiva, la Rai – l’ Ordine si trova oggi immerso in un magma incandescente. Gli iscritti sono oltre 112 mila, sono migliaia tivù, radio, e, soprattutto, siti e testate on line. Solo il numero dei quotidiani è rimasto invariato, ma, per il resto, il giornalismo è esploso nei new media con l’ irruzione di tecnologie avveniristiche e l’ allargamento dei confini della professione,  privo però delle tutele giuridiche e sindacali del recente passato.

 

 

Ordine e Federazione della stampa hanno ottenuto la legge sull’ equo compenso,  ma, per evitarne un uso soltanto demagogico e propagandistico, ora occorre trasformarla in conquista concreta cambiando radicalmente l’ accesso alla professione e garantire retribuzioni contrattuali. Nel 2013 giornalista deve essere chi lo fa, chi viene retribuito per scrivere e paga i contributi all’Inpgi, l’ istituto di previdenza dei giornalisti.

 

 

Non si  può continuare con l’ antistorica divisione fra professionisti e pubblicisti che  penalizza tanti giovani sfruttati e ridotti a precari e consente a iscritti ad altri albi professionali non soltanto di essere iscritti all’ Ordine ma anche di rappresentare i giornalisti nei vari Consigli. Giornalista è e deve essere chi ha la necessaria preparazione, figlia di una laurea e di un tirocinio serio e rigoroso. Giornalista è chi rispetta le regole deontologiche, non viola il rapporto di fiducia con i lettori praticando la commistione fra informazione e pubblicità, non scrive il falso, verifica rigorosamente le notizie. Laurea, dunque (basta con la favola del praticantato sul campo, che nessuno fa più nelle forme dei decenni scorsi), elenco unico nel quale si entra soltanto se si supera l’ esame di Stato e si versano contributi all’Inpgi, e grande rigore etico: se ne sente il bisogno davanti a un giornalismo fazioso e impreciso che va perdendo di credibilità giorno dopo giorno.

 

 

E anche il Consiglio nazionale dell’Ordine, con i suoi 150 membri, deve riacquistare prestigio e autorevolezza, dimezzando i suoi componenti, assegnando obbligatoriamente metà dei seggi alle donne (oggi 22 appena)  e spalancando le sue stanze ai più giovani, a quanti vivono sul campo successi e drammatiche sconfitte di una professione sotto attacco.

 

 

Mai come oggi l’alternativa al cambiamento è la fine, dell’ Ordine ma anche dell’ autorevolezza di una professione sotto attacco.

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*Precisazione: Pino Rea, coordinatore di questo sito, fa parte del Consiglio nazionale dell’ Ordine dei giornalisti.  

 

 

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