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Un copyright sulla notizia? Paradossi e rischi della Lex Google

In una riflessione pubblicata qualche giorno fa su Owni.fr  (prima delle notizie sullo snaturamento del sito francese), Lionel Maurel, un giovane esperto di diritto d’ autore, denuncia la volontà di trasformare l’ informazione in se stessa, e la sua espressione sotto forma di articoli e servizi, da bene comune a bene protetto da un regime proprietario.  

Lo scenario che fa da sfondo al conflitto in atto fra Google e gli editori di vari paesi – dal recente accordo con gli editori belgi alle tensioni in corso in altri paesi (vedi qui e qui) – ha al centro proprio questa preoccupante tendenza. Che in “Le monde, tous droits réservés”, un racconto di fantascienza, Claude Ecken aveva già in qualche modo prefigurato.

Ora, la pulsione all’ appropriazione è talmente potente che sta per diventare realtà una distopia immaginata dalla fantascienza invece che l’ utopia di una informazione libera e fluida. Quell’  “Information wants to be free” che quasi 30 anni fa accolse i primi passi di Internet.

 

 

 Le prix de l’information

 

di Lionel Maurel

(Owni.fr)

 

 

 

“Information wants to be free”, vi ricordate?

 

E’ senza dubbio una delle frasi più celebri pronunciate a proposito di Internet. Era il 1984 e lo scrittore americano Stewart Brand la lanciò nel corso della prima Hacker’s Conference organizzata in California:

 

Information wants to be free.

 

Parole che diventeranno uno degli slogan più diffusi del movimento per la Cultura libera e che hanno ancora oggi una certa eco, con la vicenda  WikiLeaks per esempio,  le rivoluzioni arabe o il movimento dell’ Open Data. L’ idea di base di questa formula sta nella sottolineatura del fatto che l’ informazione sotto forma digitale tende necessariamente a circolare liberamente e che è la natura stessa di una rete come internet che favorisce questa liberazione1.

 

Ma le cose sono in realtà un po’ più complesse e  Stewart Brand sin dall’ inizio era perfettamente cosciente che la libera circolazione dell’ informazione era una cosa che avrebbe generato dei conflitti:

 

Da un lato l’ informazione vorrebbe avere un prezzo, perché ha un valore. Avere la buona informazione al momento e al posto giusto potrebbe cambiarvi la vita. Dall’ altro lato però l’ informazione tende ad essere gratuita, perché il costo per produrla tende sempre più verso lo zero. E c’ è un conflitto fra queste due tendenze.

 

Questo conflitto latente attraverso tutta la storia di internet e raggiunge oggi una forma di parossismo che esplode in una vicenda come quella della Lex Google.

 

Incapsulare l’ informazione

 

Per obbligare il motore di ricerca a partecipare al loro finanziamento, gli editori della carta stampata stanno chiedendo ai governi di creare un nuovo sistema di diritti ‘’contigui’’ (al diritto d’ autore vero e proprio; ‘’droit voisin’’, ndr) a loro vantaggio, che coprano i contenuti che loro producono e sottomettano la loro indicizzazione, cioè i semplici link, ad autorizzazione e a tassazione.

 

E’ chiaro che se tali proposte si trasformassero in articoli di legge in questi termini, la prima tendenza espressa da Stewart Brand avrà riportato una vittoria decisiva sull’ altra e una gran parte delle informazioni che circolano su interrnet non potrà essere gratuita. La Lex Google sconvolgerebbe in profondità l’ equilibrio giuridico del diritto all’ informazione.

 

In effetti, fino ad ora il principio di base della sfera del diritto d’ autore è che esso protegge soltanto  le opere dello spirito, cioè le creazioni originali che hanno ricevuto un minimo di elaborazione formale. Questa nozione è certamente più ampia dal momento che essa ingloba tutti i tipi di creazione, “qualunque siano il genere, la forma di espressione, il merito o la loro destinazione”, ma non si applica alle idee, ai dati grezzi e all’ informazione, che non possono essere oggetto di una appropriazione e restano un campo aperto.

 

Si tratta, come afferma il professor Michel Vivant, di una sorta di “bene comune” (common, ndr), a cui ciascuno può attingere liberamente senza ostacoli per alimentare le proprie riflessioni e creazioni. Questo fondo comune gioca un ruolo fondamentale nell’ equilibrio del sistema, facendo in modo che il diritto d’ autore non prevarichi altri valori fondamentali, come il diritto all’ informazione o la libertà di espressione.

 

Creare un ‘’droit voisin’’ sui contenuti della stampa finirebbe per ‘’incapsulare’’ l’ informazione in una sorta di carapace giuridico annullando gran parte di questo dominio informativo pubblico e comune. L’ informazione in se stessa, e la sua espressione sotto forma di articoli e servizi, passerebbe immediatamente sotto un regime proprietario, mettendo a rischio lo stesso semplice diritto alla citazione.

 

In effetti, questa tendenza all’ appropriazione esiste da parecchio tempo. Si era manifestata già con la creazione di un diritto alla protezione delle banche dati negli anni Novanta, la cui applicazione solleva numerose difficoltà. Dei segnali recenti mostrano che sta per verificarsi un mutamento ancora più profondo nella concezione della protezione dell’ informazione.

 

Le notizie dell’ AFP hanno da tempo beneficiato di una sorta di statuto derogatorio, come se l’ informazione grezza che esse contenevano e che erano destinate a veicolare prevalesse sul diritto alla protezione. I giudici solitamente hanno espresso la convinzione che quei dispacci non fossero sufficientemente originali perché fosse possibile applicare nei loro confronti un diritto d’ autore, cosa che ne garantiva una libera ripresa. Ma la France Presse ha cercato di rovesciare il principio, portando in giudizio Google News sin dal 2005, e prefigurando quindi ampiamente il dibattito che si è sviluppato attorno alla Lex Google.

 

Nel febbraio 2010, il Tribunale civile di Parigi ha riconosciuto che quelle notizie potevano presentare una qualche forma di originalità, suscettibile quindi di protezione (…).

 

La  vicenda è stata portata in appello, ma, in attesa, l’ informazione di base si trova coperta dal diritto d’ autore.

 

Siamo tutti parassiti?

 

Un caso recente, che ha fatto parlare parecchio di sé, va ancora più lontano e potrebbe avere delle conseguenze importanti perché tende a fare di ciascuno di noi un potenziale parassita dell’ informazione, attaccabile davanti ai tribunali.

 

Jean-Marc Morandini è stato condannato a versare 50.000 euro al giornale Le Point, che lo aveva accusato di ‘’rubare’’ regolarmente dalla sezione Médias 2.0 del suo sito per alimentare i propri servizi. Il giudizio della Corte d’ appello di Parigi che lo ha condannato è estremamente interessante da analizzare perché ci conduce al cuore della tensione attorno al principio dell’ informazione libera formulato da Stewart Brand.

 

Il giudice, secondo logica, comincia col valutare se gli articoli ripresi da Le Point possano beneficiare del diritto d’ autore. E qui, sorprendentemente, la risposta è negativa, in virtù di un ragionamento che richiama la posizione tradizionale sulle notizie dell’ AFP. La Corte ritiene infatti che che le ‘brevi’ pubblicate nella rubrica ‘Medias 2.0’ costituiscano degli articoli ‘’senza alcune pretesa letteraria’’ e non permettono ‘’ai loro autori, che rimangono formalmente sconosciuti, di manifestare un vero sforzo creativo che permetta loro di esprimere la propria personalità’’. Cioè, quindi, non sono sufficientemente originali da poter entrare nel campo d’ azione del diritto d’ autore, visto che il giornalista che le redige (Emmanuel Berretta) si contenta di diffondere delle informazioni grezze’’.

 

Siamo dunque al di fuori della sfera del plagio e della contraffazione. La corte però ha ritenuto che Morandini meritasse una condanna per concorrenza sleale e parassitismo. I giudici riconoscono che il giornalista ha ripreso Le Point “con delle variazioni sufficienti ad evitargli l’ accusa di plagio, in particolare modificando i titoli delle brevi e degli articoli ripresi’’, ma – aggiungono – egli tende ‘’ad appropriarsi illegittimamente una notorietà preesistente senza sviluppare nessuno sforzo intellettuale di ricerca e di analisi, e senza gli impegni finanziari che generalmente sono legati a una attività del genere’’. Più oltre, la Corte spiega che ‘’non basta aprire una ‘breve’ con la frase ‘’Secondo il giornale Le Point” per essere autorizzato a un saccheggio quasi sistematico delle informazioni di quell’ organo di stampa, che sono naturalmente frutto di un investimento umano e finanziario considerevole’’.

 

Siamo dunque pienamente all’ interno della prima parte della citazione di Stewart Brand : “information wants to be expensive, because it’s so valuable”. L’ avvocato del Point ha commentato da parte sua la decisione in questi termini :

 

Che ci sia una circolazione di iformazioni su internet, di buzz, di riprese…, è normale, è la vita del web. Lo abbiamo perfettamente riconosciuto ai giudici d’ appello, che lo sanno bene. Ma la Corte ha voluto ricordare che c’ è una linea gialla: riprendere le informazioni degli altri, in una forma lievemente diversa, con qualche ritocco cosmetico per far credere a una produzione originale, non è un modello economico accettabile. E potremmo aggiungere: soprattutto quando quella informazione è esclusiva.

 

Quest’ ultima frase è molto importante. Soprattutto per quello che sottintende: e cioè che chi ha prodotto una notizia esclusiva dovrebbe poter beneficiare di un diritto esclusivo su di essa per poterne controllare la diffusione e monetizzarla. La logica del diritto in vigore fino ad ora era invece esattamente il contrario: nessun diritto esclusivo sulla notizia stessa…

 

Pur senza avere nessuna simpatia particolare per Morandini, bisogna osservare che un tale ragionamento potrebbe portare a considerarci tutti dei parassiti dell’ informazione, perché noi passiamo il nostro tempo a riprendere informazioni pescate online su Internet. Alcuni commenti hanno giustamente segnalato che questa giurisprudenza sarebbe seccamente ostile allo sviluppo delle pratiche di curation dei contenuti online.

 

Rivendicare un diritto esclusivo sulla stessa informazione grezza, diverso dal diritto d’ autore nella sua tradizionale espressione, potrebbe consentire addirittura una sorta di appropriazione della realtà stessa. Che cosa diventerebbe un mondo in cui l’ informazione venisse protetta in questo modo? Un mondo in cui la notizia stessa fosse coperta da copyright?

 

Fantascienza

 

La fantascienza ha già esplorato questa possibilità e la visione che ci ha consegnato è abbastanza preoccupante e offre molti spunti di riflessione su questa increspatura che si può constatare a proposito del diritto all’ informazione.

 

Nel suo racconto “Le monde, tous droits réservés”, pubblicata nella omonima raccolta, l’ autore, Claude Ecken immagina proprio un mondo in cui l’ informazione sarebbe stata coperta da copyright e le conseguenze che questa modifica potrebbe avere sui media e la società nel suo insieme.

 

L’ autore immagina che in un futuro abbastanza vicino sia stata approvata una legge che consacra la possibilità di depositare un copyright sugli avvenimenti, di durata fra le 24 ore e una settimana, che conferisce un diritto esclusivo di parlare di un fatto, impedendo ai concorrenti di farlo a meno di non compiere un plagio. Al contrario di quanto accade oggi con la ripresa delle notizie di agenzia, Afp o Reuters, gli organi di stampa si lanciano in una guerra senza esclusione di colpi per essere i primi a realizzare qualche scoop su cui depositare il copyright.

 

L’ interesse del racconto sta soprattutto nell’ analisi delle implicazioni giuridiche ed economiche di un tale meccanismo. I testimoni diretti di un fatto (la vittima di un’ aggressione, ad esempio) dispongono di un copyright che possono monetizzare con i giornalisti. In caso di una catastrofe naturale, come un terremoto, è invece il paese in cui si è verificato a detenere i diritti sull’ avvenimento, che potrà rivendere alla stampa per finanziare i soccorsi e la ricostruzione.

 

E immancabilmente questa forma di appropriazione genera delle forme di pirateria dell’ informazione da parte di piccoli gruppi che la mettono liberamente a disposizione di tutti sotto forma di attentai mediatici, ferocemente repressi dal regime al potere, cosa che ricorda stranamente l’ affare WikiLeaks, ma portata al livello dell’ informazione in generale.

 

Se Claude Ecken si sforza di mostrare i pericoli di un tale sistema, lascia però  che il suo protagonista ne prenda in qualche modo la difesa:

 

Prima della legge del 2018, I giornali di informazione erano tutti uguali. La loro specificità era il filtraggio politico, l’ interpretazione delle notizie secondo la tendenza dei partiti di riferimento. Esistevano tante interpretazioni quanti supporti. Molto spesso, nessuno dei redattori aveva vissuto l’ avvenimento: tutti si accontentavano delle notizie di agenzia. Si sovrapponevano giornalisti e commentatori. Le tantissime prese di posizione favorivano la pluralità delle fonti ma questo argomento perdeva peso a sua volta: non si trattava di pluralismo e di diversità, ma di ripetizione e di appiattimento. L’ informazione era talmente banalizzata da venire del tutto svalorizzata, ripetuta all’ infinito come un martellamento pubblicitario, fino a diluire gli avvenimenti in una sorta di poltiglia informativa che accompagnava le persone per tutta la giornata. Dove era finita la nobiltà del mestiere di giornalista? Le notizie erano una tela di fondo per i media, uno spazio di animazione di cui non si riusciva più a percepire bene il rapporto con la realtà. Era venuto il momento di rivalorizzare l’ informazione e quelli che la facevano. Era tempo di pagare dei diritti d’ autore a quelli che si immergevano davvero nel mondo per raccontare quello che accadeva lungo tutto il pianeta.

 

In un commento alla sentenza sul caso Morandini, si poteva leggere: “Anche su Internet, il giornalista deve andare di persona a cercare l’ informazione!”. Ecco che non siamo tanto lontani dalla storia immaginata da Claude Ecken.

 

Information wants to be free… era il sogno della generazione che ha assistito alla nascita di internet e poi del web, e questo sogno era bello. Ma la potenza della pulsione all’ appropriazione è talmente forte che sta per diventare realtà una distopia immaginata dalla fantascienza invece che l’ utopia di una informazione libera e fluida. Attraverso l’ informazione di base è la realtà stessa che si fa diventare  appropriabile: cosa che ricorda anche le derive drammatiche constatate in occasione delle Olimpiadi di Londra, quando le autorità olimpiche avevano difeso i loro diritti di esclusività sull’ avvenimento con una ferocia allarmante.

 

Esiste però un altro modo di vedere le cose, a patto di abbandonare il prisma deformante dei diritto di esclusiva. All’ inizio delle polemiche sulla Lex Google, avevo cercarto di mostrare* che sarebbe possibile applicare il riconoscimento legale della condivisione non mercantile ai contenuti della stampa e che, se si accoppiasse questo principio alla istituzione di una sorta di contributo all’ attività creativa,  questo sistema potrebbe assicurare agli editori e ai giornalisti dei redditi sostanziosi, garantendo la circolazione delle informazioni e la libertà di riutilizzarle.

 

Information wants to be free… Ma spetta anche a noi volerlo.

 

—-

 

* Col sistema della ‘’contribution créative’’, gli internauti si vedrebbero riconoscere un diritto alla condivisione non commerciale delle opere che sarebbe pienamente applicabile agli articoli giornalistici. In cambio, gli editori otterrebbero il diritto ad una remunerazione, prelevata dall’ insieme  delle imposte versate dagli internauti, sotto forma di un ritocco nel costo del loro abbonamento a internet. L’ ammontare di questa remunerazione potrebbe essere calcolato sulla base di una valutazione dell’  uso dei contenuti.  

 

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