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Anche social media e crowdsourcing a volte possono sbagliare

 L’era del giornalismo condiviso avanza, ma con esso anche gli errori commessi nel fare informazione: la Rete di per sé non è solo rose e fiori, come ogni altro giornalismo.

 
Lo confermano le vicende delle bombe di Boston e la caccia all’uomo scatenatasi online.

 

Una riflessione di Bernardo Parrella da Lindro 

 

(Ripreso da Lindro.it)

 

È ancora viva l’eco della vicenda legata alle bombe alla maratona di Boston, con l’ annessa caccia all’uomo di venerdì scorso.  E mentre si cercano risposte ai tanti interrogativi in sospeso, non mancano certo analisi e riflessioni su una copertura mediatica senza precedenti (soprattutto qui in USA, com’ è ovvio). Dove vanno però rimarcate confusione, disinformazione e grossolanità, sia nelle grandi testate sia nei social media. Aspetto emerso con forza seguendo la diretta su network TV e negli spazi online riguardo la caccia al fuggiasco, e particolarmente nel flusso ininterrotto su Twitter, dove l’hashtag #manhunt tira ancora parecchio.

 

Simili errori, anche nel giornalismo doc, non sono certo una novità, anzi qualche osservatore li definisce il new normal: non potranno che aumentare nell’era del giornalismo condiviso.  Come nel caso di calamità naturali, guerre lontane e altri fatti contemporanei, occorre stare al passo della velocità con cui si susseguono gli eventi e far fronte all’impossibilità di verifiche immediate sul campo. Oltre che setacciare al meglio il magma del social aperto a tutti. Senza dimenticare che, purtroppo, sia testate web che tanti cittadini-reporter sembrano spesso puntare soltanto o soprattutto, per motivi diversi, allo scoop e ad arrivare primi sulla notizia, aggiungendo danno a danno grazie all’enorme amplificazione del digitale.

 

È vero che la forza del crowdsourcing ha portato e porta a investigare meglio certi fatti, svelare magagne o errori fattuali: stavolta la parte del leone l’hanno fatta le comunità di Reddit e 4chan, subito partite alla caccia dei possibili responsabili scandagliando foto e materiali online. Pur se, primo passo falso madornale, ascoltando le comunicazioni interne della polizia di Boston (altro canale disponibile online, con ovvie potenzialità pericolose), a un certo punto svariati utenti di Reddit e Twitter hanno suggerito si trattasse di uno studente della Brown University scomparso da marzo. Con conseguenze poco carine per tutti, incluso l’autore dello ‘scoop’. Oltre all’  ovvio flop di un emittente locale texana di Fox News, non sono poi mancati i siti che hanno prontamente distinto la realtà dalla fiction o smontato le immancabili teorie complottiste. Mentre la condivisione diffusa ha man mano ridotto la propagazione delle inesattezze e portato a creare appositi team editoriali e un pool di fonti affidabili e comuni (sul territorio) per verificare al volo le breaking news. Pratica abbracciata dal mainstream di ogni dove, o almeno così dovrebbe essere, visto che ormai siamo rassegnati alle loro imprecisioni, e ciò non è affatto un bene.

 

Trattandosi però di new media e trovandoci quindi ancora in una fase sperimentale sul loro uso e abuso, siamo ancora in tempo a correggere il tiro. E in simili circostanze il consiglio migliore  rimane quello di mettere il piede sul freno e trattenersi nei rilanci ‘di pancia’ o peggio. Non a caso, la nota rivista Usa The Atlantic mette in guardia sul ‘vigilantismo online‘: «Investigare questi attentati non è un lavoro per la “folla”, pur se la tecnologia rende possibile simili collaborazioni. Pur ammettendo che Reddit è stato “più efficiente” nell’elaborare il flusso di notizie sulle bombe, cosa che sarebbe una speculazione/difesa/esagerazione priva di basi fondate, non avrebbe comunque senso creare uno spazio senza legge dove cittadini auto-nominatisi vigilantes decidono quali altri cittadini abbiano commesso un certo reato».

 

Secondo Hanson R. Hosein, direttore del Master di comunicazione in Digital Media presso l’Università di Washington, è successo un po’ come all’epoca dei cacciatori di taglie, il ‘Wanted: vivo o morto’ nei volantini del Far West, con l’aggravante del super-megafono online: «…stimolati dalle foto diffuse dallFBI, gli investigatori dilettanti … possono rivelarsi o davvero utili o innescare il linciaggio indiscriminato». Concludendo comunque con un impeto di fiducia: «…stiamo imparando collettivamente e rapidamente come meglio muoverci in simili frangenti… non credo ciò si ripeterà in futuro».

 

Se è dunque vero che siamo nell’era del giornalismo liquido, a maggior ragione occorre darsi da fare con l’alfabetizzazione digitale in senso lato e, per dirne una, fare proprio l’esempio di Andy Carvin nella sua copertura della Primavera Araba. Mentre a ruota degli eventi di Boston, Craig Silverman del Poynter Institute offre semplici ma efficaci consigli, buoni sia per le grandi testate che per i netizen. Tenere bene a mente che c’è confusione sul campo e non tutto quello che passa è accurato o verificato; ed evitare di tenere il dito sul mouse per l’incessante ‘retweet’, preferendo ponderare e aspettare prima di rilanciare qualsiasi notizia. Amplificare i rumours e la disinformazione può provocare molti più danni che limitarsi a curiosare in giro o ricercare/proporre contesti più articolati. Né è pratica utile per i cittadini-repoter o presunti tali per guadagnare visibilità o tantomeno credibilità tra vecchi o nuovi follower. Anzi. Soprattutto per quanti se ne stanno comodamente seduti sul divano di casa propria dall’altra parte del mondo…

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