In un saggio dal titolo Big Data: A Revolution That Will Transform How We Live, Work and Think, Viktor Mayer-Schönberger, docente ad Oxford, e Kenneth Cukier, responsabile dati per l’ Economist, raccontano l’ impatto che la possibilità di accedere a grandi quantità di dati avrà sul nostro modo di vivere e di pensare e le trasformazioni che indurrà in vari settori industriali, fra cui anche il giornalismo.
Ne parla Caroline O’Donovan su NiemanLab, ricostruendo anche gli interventi che i due autori hanno fatto questa settimana ad Harvard
Viktor Mayer-Schönberger e Kenneth Cukier hanno appena pubblicato un saggio dal titolo Big Data: A Revolution That Will Transform How We Live, Work and Think.
Mayer-Schönberger, esperto di governance di Internet e docente ad Oxford, e Cukier, responsabile dati per l’  Economist, ritengono che la possibilità di accedere a grandi quantità di dati travolgerà presto la naturale tendenza degli uomini a cercare correlazioni e nessi di causa, dove non ce ne sono. Nel prossimo futuro, saremo in grado di contare su giacimenti molto più grandi di dati “disordinati” piuttosto che su piccoli pozzi di dati “puliti†per ottenere risposte più precise alle nostre domande.
Ne parla Caroline O’Donovan su Niemanlab, ricordando che i due autori nei giorni scorsi hanno partecipato a un incontro sul loro saggio al Berkman Center for Internet & Society di Harvard.
E’  uno dei maggiori aggregatori di notizie che filtra contenuti per gli utenti analizzando i dati sulla frequenza di condivisioni sui social network e sulle loro preferenze.
Scrivono Mayer-Schönberger e Cukier:
E’ umiliante ricordare ai sommi sacerdoti dei media mainstream che è più facile conoscere il pubblico aggregandolo e che i giornalisti dalle camicie con i gemelli devono competere con i blogger in accappatoio. Il punto chiave è che è difficile immaginare che Prismatic sarebbe emersa all’ interno del settore dei media, anche se raccoglie un sacco di informazioni. I frequentatori abituali del Press Club non avevano mai pensato di riutilizzare i dati online sul consumo dei media. Né gli specialisti di analisi a Armonk, New York, o Bangalore, in India, hanno sfruttato le informazioni in questo modo. C’ è voluto Cross, un bizzarro outsider con i capelli arruffati e la voce strascicata da fannullone, per capire che utilizzando i dati avrebbe potuto predire al mondo le cose su cui si sarebbe accentrata l’ attenzione meglio dei redattori del  New York Times.
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Caroline O’Donovan ha chiesto a Cukier come vede i dati che sono al centro del suo lavoro all’ Economist:
Una cosa interessante è che ho preso dalla sezione libri e arte un sacco di dati relativi al confronto fra quello che è popolare online – contenuti solo online – e quello che è popolare su carta, in cerca di interessanti anomalie. Fra le correlazioni e le scoperte più interessanti c’ è ad esempio il fatto che le nostre interviste con gli autori sono molto popolari su Internet, e sono uno dei format utilizzati invece molto raramente sul giornale stampato. E questo ci potrebbe suggerire di utilizzare anche su carta questo format che tanto piace online.
Cukier è consapevole del fatto che, per molti giornalisti, l’ idea che un algoritmo possa sapere qualcosa su ciò che i lettori vogliono può essere una pillola difficile da ingoiare. In un’ intervista a Wired ha raccontato che, quando parla del libro in Gran Bretagna, i docenti di lettere spesso lo rimproverava di propagare l’ idea che la qualità del loro lavoro potrebbe essere quantificabile.
“E invece ritengo che in realtà sia molto ragionevole, se uno sta lavorando nel campo dell’ arte, cercare di migliorare quello che fa, capendo ad esempio quante persone sono state raggiunte e quante volte quella cosa è stata condivisa su Internet”, ha aggiunto.
Un ragionamento che Cukier al Berkman ha allargato al lavoro del giornalista nell’ era digitale:
Un redattore delle pagine libri e arte, per esempio, dovrebbe passare dal dire “Credo di poter sapere su base settimanale cosa sia meglio per il mio pubblico†a “Riconosco di avere un buon istinto, ma in qualche modo ho gli occhi bendati. Non ho intenzione di accettare ciecamente i dati, ma non ho neanche intenzione di essere cieco di fronte ad essiâ€. Si tratta di tecniche che secondo me un sacco di aziende editoriali usano. L’ Economist sta camminando un po’ in questo senso, ma con i piedi di piombo, facendo attenzione, ma penso che sia necessario.
Ma ha aggiunto una nota di cautela – il discorso al Berkman è stato infatti intitolato  â€Big Data — and its Dark Side† (“Big Data – e il suo lato oscuro”) dopo tutto – sottolineando che il lettore che paga per un abbonamento all’ edizione stampata dell’ Economist è molto diverso da quello che vede su Facebook un link a un articolo della rivista e ci clicca sopra. Ma alla fine – dice -, usare il “moneyballing” (un termine intraducibile usato in Usa per indicare un nuovo sistema per misurare talento e risultati nel baseball) anche per la stampa è la nuova realtà che sostituisce i cocktail o i brunch domenicali come metodo migliore per capire il tuo lettore.
Cukier, continua O’Donovan,  è un giornalista, non solo un uomo di numeri, ed è stato corrispondente per la sezione affari dell’ Economist dal Giappone ed esperto di tecnologia a livello mondiale. Quindi, quando guarda a come i dati stanno cambiando il nostro modo di ragionare, pensa anche a ciò che i giornalisti possono fare con essi:
Quando insegniamo il giornalismo del futuro, non spieghiamo solo i fondamentali di come si fa un’ intervista o che cos’ è un attacco di un pezzo. Insegniamo come intervistare un database. E per formare i futuri giornalisti dobbiamo spiegare loro che le persone che intervistiamo a volte mentono, e dobbiamo insegnare di essere sospettosi anche con i dati, perché a volte anche i dati mentono. E che con i dati quindi devono esercitare gli stessi controlli del mondo analogico – parlare con le persone e osservare.
Mayer-Schönberger e Cukier delineano comunque anche diversi scenari bui in cui i Big data potrebbero condurci: in un mondo in cui uno potrebbe essere arrestato non per i crimini che ha commesso ma per quelli che potrebbe commettere; o in un mondo in cui i proprietari dei dati potrebbero cominciare ad agire come i baroni delle ferrovie del 19 ° secolo.
Ma, nonostante queste previsioni, conclude O’Donovan, Mayer-Schönberger e Cukier in definitiva sembrano più una coppia di cheerleaders che di oppositori. “La colpa non è dei Big data in loro stessi, ma di come li si usa”, dice Mayer-Schönberger.