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Fotogiornalismo / Se i Premi diventano ‘’concorsi di bellezza’’.
‘’Ma è tempo di amettere l’ espressività della foto’’

Il WPP non può essere altro che un concorso di bellezza’’, sostiene Thierry Dehesdin, su Culture Visuelle, polemizzando contro la decisione della giuria di assegnare il primo premio a una foto del giornalista svedese Pasul Hansen, del Dagens Nyheter.

La decisione ha scatenato in questi giorni, nel campo del fotogiornalismo, una miriade di polemiche, tutte comunque riconducibili all’ idea che una massiccia prevalenza del carattere estetico su quello documentario – peraltro favorita dalle possibilità tecniche offerte dal digitale – rischia di snaturare il senso della professione del giornalista fotografo. Dando più peso al post che alla fase di produzione vera e propria dell’ immagine e quindi più al ritocco che allo scatto.

Ma parlare di ‘’ritocco’’ o ‘’Photoshop’’, termini che rinviano ai primi passi dell’ immagine digitale, diventa ‘’francamente ridicolo nell’ era dei filtri e di Instagram’’, ribatte André Gunthert. Aggiungendo : E’ tempo di ammettere l’ espressività della foto, così come è urgente imparare di nuovo a discutere veramente di estetica, e non soltanto di pseudo-veti tecnici : imparare nuovamente a identificare intenzioni, motivi, stili e generi, come ci ha insegnato la storia dell’ arte, a cui la fotografia d’ altronde non ha mai smesso di appartenere

 

 

Sospendere i Concorsi ?

 

Qualcuno è arrivato al punto di ipotizzare l’ abolizione – o al limite la sospensione per qualche anno – dei premi. Il critico fotografico Maurizio G. De Bonis, ad esempio, nel suo sito Punto di Svista, si chiede:

 

Ha senso un fotogiornalismo concentrato sulla spettacolarizzazione della violenza e sull’effetto splatter?

 

E aggiunge:

 

Forse bisognerebbe ritornare a una sorta di grado zero del fotogiornalismo. Un tentativo di ripristino della connotazione umana del fare fotografia e dell’informazione visuale sembra non più rimandabile. Per far ciò, sarebbe opportuna una scelta radicale e coraggiosa: abolire i premi internazionali di fotogiornalismo, almeno per qualche anno, per dar tempo agli sguardi di chi produce immagini di tornare a guardare il mondo senza limitarsi all’uso sterile dello shock visivo, elemento quest’ultimo che non ha mai alleviato le afflizioni delle persone e delle collettività sofferenti e violentate.

 

Quello che colpisce di più Alessia Glaviano – photo editor e responsabile dei canali News, Stars e PhotoVogue del sito vogue.it – è il fatto che, dice,‘’i fotografi lavorino sempre più concentrati sulla post che sul ‘qui e ora’ e questo rischia di produrre un’ estetica omologante”. Anche se, sottolinea, “onestamente credo che fra 10–20 anni la foto di Paul Hansen me la ricorderò, a me è piaciuta moltissimo, è forte, immediata, iconica, curata e narrativamente pregnante”. 

 

Anche Serena Vasta, su Clickblog, segnala “l’ eccessivo uso della post produzione, le luci pittoriche e ben orchestrate per rendere etereo ciò che di etereo non ha proprio niente”, ricordando però che secondo Hansen, quell’ effetto era dovuto al fatto che, come aveva spiegato a James Estrin del blogLens sul New York Times,

 

“Per un attimo la luce è rimbalzata sui muri della stradina”.

 

 

“Non bisogna essere dei tecnici per sospettare che questa immagine non sia uscita così come la vediamo dalla fotocamera”, replica Michele Smargiassi che alla vicenda ha dedicato un ampio articolo in prima pagina di Repubblica.

 

Del resto, “non c’è fotografia mediatizzata, oggi, che non sia più o meno post-prodotta”, conferma Renata Ferri, photo-editor di grande esperienza, due volte nella giuria del WPP, “e le regole del premio, lo garantisco, sono molto severe, proprio per impedire che gli eccessi dilaghino”.

E questa foto, perché è passata? “Questa non è una foto disonesta, che mostra un fatto tragicamente reale. A me comunque non piace, io sono per il ritorno al documento, anche spoglio, brutale. Purtroppo la tendenza all’epicità, alla ‘licenza poetica’, sta dilagando. Non c’è fotografo che non ci provi, ma non tutti i fotografi possono essere dei Goya, come non tutti i giornalisti scrivono come Montale, e se lo fossero sarebbe un guaio per l’informazione”

 

E viene naturale chiedersi se, come sospetta Smargiassi,  “un eccesso di stilizzazione’’ non  “nuoccia alla onestà del lavoro del fotogiornalista”.

 

 

Una ‘’corsa sfrenata all’ estetizzazione’’

 

Ne è convinto Thierry Dehesdin, che in un suo articolo su CultureVisuelle, esordisce citando Alain Mingam, vincitore del WPP nel 1981: la foto di Hansen è ‘’à côté de la ‘plaque’ (sballata) come si dice in gergo’’.

 

‘’Volendo farci vedere troppo la morte dei due bambini palestinesi, Paul Hansen ci impedisce di guardare in faccia la permanenza del conflitto israelo-palestinese, vittima di questa corsa sfrenata all’ estetizzazione della sofferenza attraverso l’ immagine’’

 

E ancora citando Mingam :

 

‘’Se si vuol fare della fotografia-documento il teatro, attraverso Photoshop, di una rappresentazione del mondo che non è più conforme alla realtà, non si è più nel campo del fotogiornalismo, ma in quella della fotografia artistica”.

 

 

Dehesdin – che l’ anno scorso aveva fatto un’ analisi approfondita dell’ evoluzione del premio – ritiene comunque che sia ambigua la natura stessa degli attuali Premi di fotogiornalismo. E spiega che una competizione come il WPP

 

‘’presuppone che la fotografia premiata sia estetizzante, globalizzante ed eriga le vittime in stereotipi’’. (…)

 

Il primo premio, aggiunge,

 

 viene in generale assegnato a “quella fotografia che non è solo il distillato fotogiornalistico dell’ anno (“the photojournalistic encapsulation of the year”), ma che rappresenta un problema, una situazione o un evento di grande importanza giornalistica, e lo fa in un modo che dimostra un eccezionale livello di percezione visuale e di creatività“.

Il principio stesso del concorso presuppone che l’ immagine sia decontestualizzata.

La sua prosécogénie* (la sua capacità di attirare l’ attenzione, ndr) deve essere sufficientemente forte per consentire di apprezzare l’ immagine senza conoscere la storia che essa illustra. 

Nel momento in cui viene scelta per il premio,  essa smette di documentare un avvenimento particolare e diventa l’ immagine simbolica di un anno di fotogiornalismo. Una icona. (vedi Lsdi).

Se i gesti, gli sguardi, i movimenti, la sofferenza delle persone fotografate non vengono trasformate in stereotipi dalla rappresentazione fotografica, ci si troverà di fronte a un episodio che non potrà pretendere di essere “the photojournalistic encapsulation of the year”.

E poiché è difficile che un ‘’eccezionale livello di percezione visuale e di creatività’’ rientri nei normali exploit tecnici, si finisce per forza nel quadro del Concorso di bellezza.

 

E’ quello che ha immediatamente sottolineato Télérama, secondo cui Hansen, che avrebbe avuto ‘’la mano davvero pesante nei suoi ritocchi’’, ‘’saturando i colori cerca di uscire dal cliché dell’ istantanea per rendere l’ immagine simile a un dipinto’’.

 

 

Ma è ridicolo parlare ancora di ‘’ritocchi’’ o Photoshop

 

Ma parlare di ‘’ritocco’’ o ‘’Photoshop’’, termini che rinviano ai primi passi dell’ immagine digitale, diventa ‘’francamente ridicolo nell’ era dei filtri e di Instagram’’, ribatte André Gunthert , che sempre su CultureVisuelle fa un’ ampia panoramica sulle polemiche suscitate dal Premio.

 

Quello del ricorso eccessivo al ritocco (che ricorre nell’ insieme delle accuse rivolte alla scelta della giuria del premio) viene visto da Gunthert come un argomento ‘’ideologico’’, come cioè uno

 

‘’strumento di dequalificazione estetica nel contesto di una rivendicazione della verginità fotografica. Rifiutando di ammettere che l’ immagine di informazione possa essere costruita, i critici della foto di Hansen ‘’rimandano sistematicamente i valori espressivi dell’ immagine alla pittura o al cinema. Il ritocco viene utilizzato come un criterio pseudo-tecnico che permette di giustificare e di imporre una estetica implicita’’.

 

Questa ‘’naturalizzazione dell’ estetica, camuffata dietro l’ argomento del ritocco, nasconde un improverimento del dibattito critico’’, continua Gunthert.

 

”L’ interpretazione magniloquente di una scena presa dalla realtà, ma trasformata dalla fotografia (Hansen ha anche alzato il suo apparecchio in alto con le braccia per produrre una prospettiva dall’ alto, in immersione), è pienamente rivendicata dall’ autore, ed è stata anche chiaramente scelta dalla giuria. Il fotografo non ha cercato di fare una immagine realista, ma, al contrario, di manifestare la sua volontà di estetizzazione. La giuria non si è ingannata premiando una foto di cui non aveva percepito il carattere artificiale, ma ha scelto quella immagine proprio in ragione di quella ‘firma’.

In altre parole, non c’ è da una parte una concezione fedele alla tradizione fotoghrafica e dall’ altra parte il suo tradimento a fini spettacolari. Ci sono più semplicemente due gusti che si confrontano : uno, che è stato per molto tempo dominante (e che non è meno ipocrita, cercando di nascondere che la fotografia è stata sempre una interpretazione) ; e un altro, che rivendica la scelta dell’ espressività e della soggettività, anche all’ interno della roccaforte del fotogiornalismo, cosa che corrisponde in pieno all’ evoluzione delle sensibilità”.

 

Da questo dibattito, secondo Gunthert, si possono trarre alcune lezioni.

 

La prima è che è venuto il momento per i giornalisti di aggiornare le loro rubriche telefoniche se vogliono rendere conto di queste evoluzioni. E di parlare della fotografia che si fa, in questo momento, piuttosto che di un ricordo che sfuma.

La seconda è che bisogna ormai bandire i termini ‘’ritocco’’ o ‘’Photoshop’’ dal dibattito fotografico. Termini che rinviano ai primi passi dell’ immagine digitale, e che diventano francamente ridicoli nell’ era dei filtri e di Instagram.

E’ tempo di ammettere l’ espressività della foto, così come è urgente imparare di nuovo a discutere veramente di estetica, e non soltanto di pseudo-veti tecnici : imparare nuovamente a identificare intenzioni, motivi, stili e generi, come ci ha insegnato la storia dell’ arte, a cui la fotografia d’ altronde non ha mai smesso di appartenere.   

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* Prosécogénie, viene definita su Culture Visuelle come  la ‘’qualità di ciò che attira l’ attenzione’’.  

 

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