Giornalisti: il darwinismo digitale e l’ evoluzione della specie
I pochi uccelli rari delle élite giornalistiche, i giornalisti blogger, i giornalisti comunicatori, i giornalisti poveri e infine i giornalisti ‘’altri’’, che vengono da altre professioni.
Ecco: potrebbe essere più o meno questa la nuova stratificazione della professione giornalistica dopo la tempesta perfetta dell’ era digitale,  come la delinea una divertente analisi che Le Nouvel Economiste ha pubblicato in questi giorni col titolo ‘’Darwinisme numérique : le futur du journalisme’’, che riteniamo utile proporre su Lsdi.
Ecco, nei particolari, il quadro che ne emerge.
– Le rare élite giornalistiche nascoste nei santuari delle poche grandi testate rimaste. Professionisti altamente qualificati, ben pagati e in grado di esercitare una autonomia sufficiente per indagare, analizzare, mettere in prospettiva l’ informazione stando al riparo dalle pressioni esterne.
– I giornalisti blogger, imprenditori di se stessi e del loro brand personale, che dovranno fare grandi sforzi di immaginazione per finanziare la propria attività .
– I giornalisti comunicatori, costretti a muoversi sempre di più sul filo del rasoio, al confine fra informazione e comunicazione, e per cui i principi etici del giornalismo avranno sempre meno spazio.
– La massa dei giornalisti poveri, impegnati in piccola aziende fragili e incapaci di finanziare la loro formazione e la loro carriera, che dovranno piegarsi a qualsiasi compromesso e combattere la concorrenza dei robot, di quelle testate che fra la ricezione di un comunicato stampa e la sua diffusione faranno tranquillamente a meno del giornalista.
- E infine i giornalisti ‘’altri’’, che vengono da professioni diverse e che trattano l’ informazione in un modo nuovo – sviluppatori, grafici, militanti dell’ open data e della libera programmazione – che si avvicinano alla sfera del giornalismo analitico con dei nuovi modi di leggere l’ informazione come la visualizzazione dei dati.
 E intanto? Intanto i giornalisti di oggi non possono stare a guardare, bisogna che si diano da fare. E dare il benvenuto agli entusiasti della tecnologia e ai ‘’minatori di dati’’, capaci di utilizzare gli strumenti di analisi delle masse di dati provenienti dal pianeta digitale. E’ un paesaggio interamente nuovo per quelli che, alcuni anni fa, si scocciavano anche di scrivere a macchina.  Ma non c’ è altro da fare.
 Anche se, alla fine, ancora adesso, ’’ il 90% della navigazione in rete avviene sullo 0,006% dei contenuti e il top su internet continuano a restare la stampa e i giornalisti, la cui funzione di filtro e di gerarchizzazione dell’ informazione restano ancora in parte riconosciuta’’
—
Se i grandi quotidiani – che rappresentano ancora oggi il santuario del giornalismo protetto dalla legge in quanto specifico contro-potere nei paesi che hanno fatto della libertà di stampa uno dei pilastri della democrazia – non riescono più a pagare i loro giornalisti, che cosa diventa il mestiere di raccogliere, verificare, analizzare, gerarchizzare le informazioni?
Si è sempre ritenuto che il giornalista debba poter beneficiare di una autonomia finanziaria sufficiente per svolgere il suo compito nel modo più indipendente possibile da interessi economici e politici, rispettando i principi delle carte professionali (esistenti in vari paesi, ndr).
Ma che cosa succede – si chiede Le Nouvel Economiste in un articolo dal titolo ‘’ Darwinisme numérique : le futur du journalisme. La fonction journalistique ne disparaît pas, elle se morcelle. Espérons pour le meilleur’’ -  se le aziende che fondano la loro legittimità su queste pratiche non hanno più i mezzi per osservarle?
Ecco che cosa dovrebbe accadere.
Â
Cambio di modello
E’ proprio quello che sta per accadere dopo 15 anni di rivoluzione internet. All’ improvviso la crisi della stampa su carta si confonde con la messa in questione della funzione giornalistica. Una volta digitalizzata e messa online, una notizia vede il suo valore tendere verso le zero. Questo meccanismo irreversibile spiega quanto si sia sbriciolata la terra sotto i piedi dei giganti della ‘’grande stampa’’ che fondavano il loro modello economico sulla vendita diretta dell’ informazione, dal produttore al consumatore, come si vende un prodotto su un mercato. L’ impatto è stato tanto più violento in quanto è arrivato in un momento di forte messa in discussione da parte dell’ opinione pubblica dei giornalisti, oggetto di una sfiducia crescente e inseriti senza distinzione nel paniere infamante delle élites politico-mediatiche stigmatizzate all’ epoca da François Mitterrand.
Il seguito è noto: hanno vinto i campioni del digitale, dando al tutto un’ altra forma, in termini di pubblicità e di conoscenza marketing ultra raffinata dei milioni di internauti che ormai in grandissima parte per leggere la stampa passano da piattaforme internet, motori di ricerca o reti sociali.
Un terzo degli internauti accedono ormai ai contenuti digitali dei giornali attraverso i motori di ricerca, un altro terzo via reti sociali e solo l’ ultimo terzo direttamente dai siti.
Nel film di Andrew Rossi (il documentario “Page One: Inside The New York Times,â€), David Carr (foto accanto), uno dei grandi personaggi del New York Times immagina questo processo spinto alle estreme conseguenze: ‘’la vostra homepage è molto bella’’, dice al fondatore di Newser.com, un aggregatore di contenuti che rimprovera al Times di appartenere a un mondo che sta per sparire nell’ ombra, e lo si vede fare dei tagli su un foglio di carta. ‘’Ma ecco a che cosa somiglierà quando noi saremo spariti’’, continua, mettendo sotto il naso del suo interlocutore un foglio di carta con l’ immagine della home page di Newser, da cui ha tagliato accuratamente una serie di moduli occupati da contenuti aggregati, pieno di buchi.
Anche dopo il passaggio di questa ondata, non ci possiamo aspettare di ritrovare un paesaggio in cui delle nuove aziende, alleggerite dal peso della carta e in grado ormai di mettere a profitto tutti gli aumenti di produttività offerti dalle nuove tecnologie, avranno la capacità e soprattutto il bisogno di finanziare dei posti di lavoro giornalistici sulla stampa scritta come esistevano fino ad oggi, ad eccezione di qualche confratello come l’ Economist, il Financial Times, etc.
Prima di tutto perché dall’ universo della carta a quello digitale c’ è un fossato in termini di ricavi. Abbonamenti certamente meno costosi da raccogliere e da servire, e una pubblicità più efficace ma molto meno rimuneratrice. “Une campagna da 50.000 euro su mobile o tablet, sarebbe l’ avvenimento dell’ annoâ€, spiega il responsabile di una grande azienda digitale. “I maggiori successi della stampa su Internet in Francia, come Lemonde.fr o Figaro.fr, arrivano a stento al pareggio’’, aggiunge un altro osservatore del settore.
La capacità investigativa diminuisce, il bisogno di gerarchizzazione aumenta
E poi, soprattutto, perché la maggior parte dei nuovi modelli di aziende mediatiche appena nate non hanno bisogno delle quattro funzioni attribuite finora al giornalismo, come ricorda Eric Scherer, direttore della strategia digitale di France Télévisions : “da un lato la raccolta, all’ altra estremità la gerarchizzazione, e in mezzo: l’ inchiesta investigativa e il commento’’. Gli aggregatori di contenuti non hanno alcun bisogno di un giornalista d’ inchiesta. Non più dei nuovi media basati sugli scambi fra internauti, come Buzzfeed o Minutebuzz, in cui i giornalisti assumono altre definizioni: “social media editor†quando cominciano o “social media manager†quando diventano responsabili di qualche rubrica o redattori capo.
“L’ investigazione diventa la parente povera in un ambiente in cui i mezzi erano già stati calcolati per finanziare una attività che richiede quei tempi e quei mezzi e che andranno senza dubbio rarefacendosi sempre di più’’, ritiene Eric Scherer.
Le altre funzioni si modificano in maniera differente. Il passaggio dal mass media al media di massa, in cui il primo cittadino che passa diventa produttore di informazioni grazie alla nuova accessibilità della tecnologia provoca concorrenza nella raccolta delle notizie. Anche la funzione di analisi viene accaparrata da nuovi attori, di nuovo il pubblico sulle reti sociali e sui blog e gli esperti, ben contenti di poter pubblicare liberamente le loro analisi su dei siti che offrono visibilità e notorietà a mo’ di remunerazione, modello Huffington Post.
Anche se bisogna stare attenti a non generalizzare, come indica il sociologo Dominique Cardon :
“Avere un blog non significa avere un media con una certa visibilità . Il 90% della navigazione avviene sullo 0,006% dei contenuti – segnala -. Il top su internet resta la stampa e i giornalisti, la cui funzione di filtro e di gerarchizzazione dell’ informazione restano ancora pienamente riconosciuta’’.
E’ soprattutto da qui che si attende il valore del giornalista di domani. Essendo la stampa una industria determinata dall’ offerta, la qualità editoriale e la creatività dei professionisti sono la chiave di questa trasformazione. L’ utilità della funzione che consiste nel filtrare, gerarchizzare e soprattutto dare un senso e quindi una maggiore o minore importanza a un flusso di informazioni non viene messa in discussione. Anzi.
“Forse è cambiata la scala di riferimento, tutto va più veloce e le quantità di informazioni in circolazione si sono fortemente moltiplicate’’, ammette Emmanuel Hoog, presidente dell’ AFP (partecipando a un dibattito al Forum des images, il 26/09 scorso, nel quadro del Festival “Qui fait l’infoâ€), ma per il resto non è cambiato niente. ‘’A un certo momento si pone il problema della scelta e della messa in prospettiva’’. In parole povere: come trasformare una voce in una notizia, come distinguere il grano dal loglio? ‘’Ci vogliono delle competenze specifiche e del tempo per conquistarle, la tecnologia fondamentalmente non cambia questo dato’’. Bisogna tuttavia tener conto dell’ intensità crescente dell’ automatismo dei motori di ricerca rispetto all’ intervento umano diretto sul filtraggio delle informazioni. Si può immaginare che gli algoritmi di Google o dei suoi concorrenti vengano utilizzati sempre di più come delle strutture a cui si affida il compito di fare la selezione al posto del giornalista. Senza prevedere la conclusione della battaglia, si vede che c’ è già una interazione fra i due livelli.
“La ricerca continua di un migliore posizionamento su Google, che spinge a utilizzare determinate parole chiave, cambia tutti i comandamenti del giornalista e la concezione stessa dell’ analisi giornalistica, che tende a conformarsi a quello che si aspetta l’ algoritmo’’, osserva Jean-Marie Colombani, ex direttore del Monde, oggi a Slate.fr, anch’ egli presente a quel dibattito.  “E’ per questo che Lemonde.fr va meglio di Liberation.fr†sottolinea un osservatore, che indica come esempio il giorno della morte di Georges Simenon : “Le Monde aveva titolato “Simenon est mortâ€, Libération “Maigret a cassé sa pipeâ€, e ovviamente il primo titolo ha stracciato la classifica del posizionamento, malgrado la bellezza del titolo del suo concorrenteâ€.
Una nuova stratificazione della funzione
Il processo in corso: concentrazione, ristrutturazioni, chiusure. ‘’Possiamo immaginare che qualche grande testata resisterà e che dopo la tempesta ricompariranno una moltitudine di piccoli attori specializzati’’, osserva Jérôme Lacombe, presidente dell’ Agenzia di comunicazione Hopscotch.
Dunque, un grande movimento darwiniano in prospettiva, con una nuova stratificazione dei giornalisti.
Â
L’ élite giornalistica
Nel nuovo universo non ci sarà lo stesso numero di professionisti pagati per realizzare le quattro missioni (raccolta, investigazione, analisi, gerarchizzazione) che spettavano fino ad ora alla funzione giornalistica. Si troveranno questi uccelli rari nei santuari di grandi testate rafforzate dalla scomparsa di concorrenti più deboli. Saranno soggetti come l’ Economist, il Financial Times, il New York Times, forse, aziende mondializzate, in possesso di marchi estremamente potenti e capaci nello stesso tempo di costruire una rete di corrispondenti attraverso il mondo, con una diffusione mondiale visto che beneficiano di una lingua pressoché universale, e in grado di vendere inoltre i loro contenuti in più lingue in dozzine di paesi.
Si può immaginare che in questi grandi poli concentrati e centripeti continui a restare una elite di professionisti altamente qualificati, ben pagati e beneficiari di una autonomia sufficiente per indagare, analizzare, mettere in prospettiva l’ informazione al riparo dalle pressioni esterne.
Â
Il giornalista blogger
Quanti vorranno conservare questa integrità al di fuori di quei santuari dovranno fare grandi sforzi di immaginazione per finanziare la loro attività . Il modello della musica? I musicisti i cui diritti sono stati piallati per effetto della digitalizzazione e della possibilità di scaricare le loro opere rimontano in scena per trovare un finanziamento diretto da parte del loro pubblico. Bisogna pensare che potrebbe essere lo stesso per i giornalisti. I grandi giornalisti-blogger, che finiscono per diventare il loro proprio brand, possono dare questo esempio.
Â
Il giornalista comunicatore
Fra i due, fra l’ élite che lavora ancora per le grandi testate sopravvissute e questi nuovi artigiani, si può immaginare tutto un mondo di situazione intermedie in cui i principi di base del giornalismo avranno però sempre meno spazio. E’ il caso di quei professionisti che, sempre più numerosi, lavoreranno ai confini fra informazione e comunicazione. ‘’Si parte dal principio che I brand hanno una credibilità in quanto fonti di informazione’’, spiega  Jérôme Lacombe, che impiega dei giornalisti incaricati di creare dei contenuti, validati dai client, che saranno successivamente diffusi gratuitamente. Nelle grandi agenzie di Relazioni pubbliche, i media creati dai brand sono delle assi prioritarie di sviluppo. Per i guardiani delle Carte deontologiche (ad esempio  questa), non siamo più nel campo del giornalismo ma in quello della comunicazione, perché, anche se in maniera discreta, la linea editoriale è sottesa all’ obbiettivo di valorizzare un marchio commerciale.
Â
Il giornalista povero
Altra categoria in forte crescita, purtroppo, è quella dei giornalisti poveri, che lavorano per dei media che si reggono sul filo del rasoio, fra vecchie aziende del settore carta che lottano per la sopravvivenza e nuove creature digitali che faticano a trovare il loro modello economico. Questo battaglione che viene regolarmente ingrossato dai giovani professionisti impiegati con contratti a tempo determinato, o come collaboratori esterni o sempre più spesso compensati con onorari in diritti d’ autore, dovranno piegarsi a qualsiasi compromesso: pressioni esercitate dagli inserzionisti, autocensura e compensi deboli e irregolari: insomma l’ ombra di quello che dovrebbe essere il professionista autonomo e libero nel suo giudizio.
In queste aziende così fragili, incapaci di finanziare formazione ed evoluzione della carriera, questo strato più basso della classe dei giornalisti dovrebbe entrare in concorrenza con … i giornalisti robot. I primi giorni senza giornalisti vengono dagli Stati Uniti, come upworthy e altri che, fra il comunicato stampa e la sua diffusione, hanno deciso di fregarsene del giornalista. La robotizzazione è destinata ad allargarsi.
“E’ una soluzione che stanno studiando soprattutto i giornali sportive e quelli economici. Un robot può scrivere un resoconto di una partita o le variazioni dell’ andamento di un’ azione, quando non si tratta di riportare dei fatti. Il numero delle reti nel corso di un incontro, o l’ ampiezza del calo di un’ azione’’, commenta il responsabile della strategia digitale in un quotidiano francese.
Nuove competenze
Â
In un’ altra direzione bisogna anticipare l’ arrivo sul campo del giornalismo fatto da professioni diverse, che trattano l’ informazione in un modo nuovo – sviluppatori, grafici, militanti dell’ open data e della libera programmazione – che si avvicinano alla sfera del giornalismo analitico, con dei nuovi modi di leggere l’ informazione come visualizzazione dei dati.
E ora? I giornalisti di ora sono pregati di passare a una velocità superiore del processo di adattamento. Per lo meno quelli che hanno cominciato la loro carriera nell’ altro mondo. Gli altri, nati circondati da schermi, le dita giovanissime fisse sulla tastiera di un computer o di un cellulare, faranno meno sforzi a produrre. Il fossato da colmare è tecnologico. Quelli che ora hanno 40 anni, e che allora ne avevano 20, se ne ricordano con un sorriso: fino alla metà degli anni ’90, quando hanno cominciato ad esercitare il loro mestiere, alcuni ‘’vecchi’’giornalisti dell’ epoca continuavano a consegnare i lro articoli scritti a mano, cioè a penna. Uno dei grandi obbiettivi per questi professionisti che sono a metà o all’ ultimo terzo della loro carriera è di avvicinarsi alla tecnologia. In questo maelstrom di atomizzazione incredibile dei contenuti, consumati à la carte e a pacchetti i giornalisti hanno bisogno di nuove competenze vitali per assicurare la loro missione.
‘’Vogliamo giornalisti hacker’’
“Non abbiamo abbastanza giornalisti hacker’’, ammette sorridendo un responsabile delle Echos. Un benvenuto agli entusiasti della tecnologia e ai ‘’minatori di dati’’, capaci di utilizzare gli strumenti di analisi delle masse di dati provenienti dal pianeta digitale. E’ un paesaggio interamente nuovo per quelli che, alcuni anni fa, si scocciavano anche di scrivere a macchina.