Molti temevano che i social media avrebbero potuto mettere a rischio il giornalismo professionale. E molti giornalisti ironizzavano. “Mi fiderei del citizen journalism quanto mi fiderei di una cittadino-chirurgo”, scherzava ad esempio Morley Safer, un corrispondente della CBS.
Come si è visto invece – racconta l’ Economist -, fotografie, video e tweet prodotti da persone qualsiasi stanno migliorando e ampliando la copertura delle notizie.
E in più questo nuovo processo crea lavoro giornalistico, perché crescono i giornalisti che devono controllare, autenticare ed analizzare quel materiale.
Invece di respingere quelle ‘’riprese mosse’’ dei video amatoriali o occasionali, tra l’ altro, il pubblico pensa che le immagini dei cittadini siano più autentiche e ‘’intime’’ di quelle ‘’lucide’’ delle emittenti, dice Claire Wardle, di Storyful, una azienda che pubblica e verifica i contenuti generati dagli utenti (UGC).  “Se le emittenti non le mostrano la gente andrà su YouTube per vederle”. I giornalisti che seguono grandi fatti di cronaca – aggiunge il magazine – stanno affinando molto il lavoro di utilizzo delle reti sociali come fonti di informazione. E nuovi servizi stanno tentando di superare la concorrenza realizzando dei sistemi che incoraggiano i lettori a fornire i loro materiali direttamente.
L’ iReport della CNN è uno tra i sistemi più antichi in questo campo, ma ora ha 1,3 milioni di collaboratori, sei volte di più che al momento del lancio. Aftonbladet, il principale quotidiano svedese, chiede ai lettori di fornire il loro indirzzo e li avvisa quando si verirfica qualche grosso avvenimento nella loro zona e offre la pubblicazione di immagini o notizie in cambio di un piccolo compenso. Ad aprile il Guardian ha lanciato Guardian-testimone, un minisito sostenuto da EE, una società di telecomunicazioni, che consente agli utenti mobili di condividere video degni di essere pubblicati. Alan Rusbridger, direttore del Guardian, si aspetta la nascita di più aziende specializzate proprio nel “creare meccanismi che accrescano la facilità con cui le persone possono scaricare i propri materiali”.
Ma i cittadini-testimoni sono sempre più difficili da sedurre e cresce la tendenza a ‘’postare’’ i propri contenuti direttamente sui social network. Nel 2005 quasi tutti i contenuti prodotti dagli utenti della BBC erano stati sottoposti alla testata. Ora invece l’ emittente deve dare la caccia ad almeno la metà di quei contenuti che vanno sui social network. E quindi significa spulciare un sacco di materiali inutili. Ogni giorno 7.000 ore di video-notizie vengono caricate su YouTube e varie testate giornalistiche stanno assumendo sempre più addetti alla ‘’pulizia’’ e al filtraggio delle reti sociali. BBC News ha uno dei più grandi staff in questo campo, con circa 20 dipendenti a tempo pieno. I quotidiani maggiori hanno gruppi formati da 5-7 persone, che utilizzano degli strumenti particolari per alleggerire il lavoro di filtro. Utilizzando ad esempio servizi di geolocalizzazione sempre più accurati, come Geofeedia e banjo, per esempio, che consentono ai redattori di cercare attraverso il parametro della zona da provengono i vari post.
I giornalisti devono poi confermare la veridicità di quello che trovano, come farebbero con materiali delle fonti tradizionali. Rischiando di incappare in grossi problemi, come è accaduto recentemente con CNN,  New York Post ed altre testate in occasione della vicenda della Maratona di Boston, rilanciando informazioni che poi si erano rivelate false, probabilmente perché si era allentato il controllo su Twitter e Reddit.
Giornalisti coscienziosi devono esaminare i precedenti post dei singoli utenti per vedere se hanno dei pregiudizi politici evidenti e verificare se sono davvero dove dicono di essere. Devono usare delle mappe satellitari per certificare la posizione di una fotografia o un video, e scavare nelle banche dati per garantire che una immagine non sia stata ritoccata.
E la conoscenza della situazione locale da parte di un corrispondente pagato può facilitare il compito. Due anni fa,  alcuni redattori dell’ Associated Press avevano scartato un video accreditato come relativo agli scontri a Daraa, in Siria, ma che Eric Carvin, addetto ai social-media dell’ agenzia, aveva datato come risalente a due settimane prima.
I giornalisti incaricati di seguire questo settore dovranno quindi cbiedere il permesso di utilizzare il materiale che hanno trovato. E questo può essere parecchio rognoso, spiega Liz Heron, direttore del settore social media ed engagement al Wall Street Journal. Di solito l’ autore chiederà di essere citato, senza pretendere soldi.   A volte gli autori sono difficili da rintracciare, e i redattori perdono un sacco di tempo nell’ attesa di una risposta. Molti giornalisti quindi vorrebbero una semplificazione delle norme sui diritti. Ad esempio che YouTube e Twitter rendessero più semplice la procedura per la cessione dei diritti alle testate, per esempio barrando una casella specifica prima di caricare i propri contenuti.
Nel frattempo – prosegue l’ Economist -, un gruppo di nuove aziende del settore stanno cercando di rendere le cose più efficienti. Storyful, ad esempio, offre un servizio di individuazione e contrattazione dei diritti sui contenuti prodotti dagli utenti a cui una testata può accedere pagando un canone di abbonamento mensile tra i 750 e i 15.000 dollari. Citizenside, un’ azienda francese, è uno dei numerosi siti che aiutano i cittadini-giornalisti a vendere storie esclusive ai grandi network televisivi. Nel 2011, ad esempio, aveva venduto un filmato che ritraeva John Galliano, noto stilista inglese, insultare i proprietari di un ristorante a Parigi.
Attualmente, immagini e video rappresentano la maggior parte del giornalismo amatoriale che finisce sui media mainstream. Registrare un video con un telefono cellulare o tweittare quello che uno ha appena visto richiede meno sforzo e competenza rispetto al formulare un commento di media lunghezza. Jay Rosen, professore di giornalismo alla New York University, chiama questo uso di materiale amatoriale da parte degli organi di informazione “networked reporting”, giornalismo prodotto dalle reti. In futuro, immagina, i giornalisti investigativi faranno un uso maggiore di investigatori dilettanti in grado di fornire documenti, testimonianze e dare una mano in più.
Insomma, ogni giornalista – conclude l’ Economist – avrà bisogno di aiuto per spazzare l’ immondizia.