Il ‘’native advertising’’ (contenuti a pagamento identici ai contenuti redazionali), oltre a problemi di carattere etico pone una questione tecnica di grosso rilievo: anche in un giornale attento alla trasparenza come il Wall Street Journal (che avverte quando un contenuto è sponsorizzato) la distinzione sparisce quando si va ad usare il motore di ricerca interno.  Quest’ ultimo infatti legge il contenuto ‘’native ad’’  come contenuto editoriale e nei risultati delle ricerche quindi il primo compare mischiato col secondo. Â
Lo segnala Lou Hoffman in un articolo sul blog  Ishmaelscorner , che ci sembra interessante riportare qui.
The Wall Street Journal Further Blends Native Advertising with Journalism
di Lou Hoffman
Amata. Odiata. La pubblicità ‘’nativa’’ (quella che sembra prodotto redazionale, il ‘’native ad’’) domina il quadro. E’ un nuovo modo per fare cassa e gli editori stanno intensificando quanto più possibile il suo utilizzo per mettersi in tasca quanti più soldi è possibile. Non si può davvero biasimarli. Una erosione dei ricavi così costante da tanto tempo può evidentemente indurre una certa ‘’avidità ’’.
Il New York Times, l’ ultima testata fra i grandi media ad abbracciare la religione del native advertising , ha spiegato che la decisione nasce dalla necessità di “ripristinare gli introiti pubblicitari digitali per sostenere la crescita” del giornale. Parole dell’ editore del NYT, Arthur Sulzberger Jr. Vedremo.
Una delle migliori definizioni del native advertising viene da Dan Greenberg di Pando Daily:
A nostro avviso, il ‘’native advertising’’ potrebbe essere definito in generale come una strategia pubblicitaria che permette ai brand di promuovere e presentare il proprio contenuto all’ interno del processo di fruizione di un sito web o di un’ applicazione. La fruizione di questi ‘’native ad’’ differisce dai tradizionali formati degli annunci digitali, come i display e i pre-roll, per la scelta del loro posizionamento (non intrusivo) che li rende ben integrati nella progettazione visuale e contenutistica di un sito di informazione.
Perfetto .
Ma è qui che la trama si infittisce .
Quando una pubblicità è ‘’ben integrata nella progettazione visuale e contenutistica di un sito’’  significa che inganna i lettori convinti di leggere qualcosa di giornalistico? E’ il classico paradosso del Comma 22. Meglio si riesce a integrare il ‘’native ad’’ nella ‘’narrazione’’ giornalistica (non intrusiva) più sfuma la linea di demarcazione fra le due cose e più si inganna il lettore. E non ho mai letto uno studio secondo cui ingannare il target a cui ci si rivolge pubblico coltivi fedeltà e induca a “comprare”.
Ed eccoci al Wall Street Journal
Ho sempre sostenuto che il Journal è una delle pubblicazioni che procedono con maggior cautela sul terreno del ‘’native ad’’ ( anche se il loro tentativo di racconto alla BuzzFeed era terribile).
Nella schermata qui sotto viene visualizzata una pagina con l’ interpretazione del Journal di una inserzione di ‘’native ad’’ sulla Deloitte.
Se si confronta il carattere tipografico, la lunghezza della riga, ecc , con i contenuti editoriali del giornale, si capisce bene come un lettore potrebbe pensare che si tratti di un articolo. Ma il giornale chiarisce ancora che si tratta di un contenuto sponsorizzato e include l’ avviso: ‘’Nota: la redazione del Wall Street Journal non è stata coinvolta nella creazione del contenuto qui sotto’’.
Insomma, tutto trasparente… finora .
Fino a quando, siccome quell’ inserzione della Deloitte riguardava la cybersicurezza, sono andato a fare una ricerca con il termine cybersecurity col motore di ricerca del Journal, ed ecco che cosa è venuto fuori:
Ma stiamo scherzando? ( Ho ripetuto la ricerca, è una domanda retorica).
Il ‘’pezzo’’ della Deloitte si presenta quarto nei risultati di ricerca e un altro ‘’articolo’’ dell’ azienda guadagna il sesto posto.
Il motore di ricerca del Journal non sembra distinguere tra contenuti sponsorizzati e contenuti editoriali, pescando in un database che contiene entrambi. Nessuno fra un milione di anni riuscirebbe a capire che quella scrittina ‘’Deloitte Risk & Compliance ” significa che si tratta di un contenuto pagato. Anche perché quella segnalazione avviene in un contesto di segnalazioni di articoli veri e propri, che sembrano del tutto identici.
La Federal Trade Commission ha organizzato qualche giorno fa un  workshop sul native advertising e il direttore della sezione pubblicità , Mary Engle, ha ammesso che l’ incontro ‘’ha sollevato più domande che risposte’’.
A quelle la signora Engle dovrebbe aggiungerne un’ altra.