Uno studio della Commissione europea piazza l’Italia tra i paesi più avanzati in termini di utilizzo dei dati aperti nell’Unione europea, pochissimo dietro alla Gran Bretagna di Tim Berners Lee.
L’Italia risulterebbe un paese avanzato anche in termini di “right to knowâ€, ovvero quel diritto di sapere e di accedere alle informazioni pubbliche sancito nel resto del mondo democratico dal Freedom of Information Act. Â
I fatti recenti, tuttavia, ci dicono che non è esattamente così.
di Andrea Fama
“Ci sono tre specie di bugie: le bugie, le bugie sfacciate, e le statisticheâ€.  Alcuni recenti studi in materia di open data e diritto di accesso alle informazioni pubbliche sembrano confermare la celebre teoria di Benjamin Disraeli, scrittore e politico inglese.
Uno studio della Commissione europea piazza l’Italia tra i paesi più avanzati in termini di utilizzo dei dati aperti nell’Unione europea, pochissimo dietro alla Gran Bretagna di Tim Berners Lee.
In base allo Psi Scoardboard (uno strumento di analisi finanziato dalla CE che permette di analizzare lo stato degli open data e il loro utilizzo nel Vecchio Continente), il punteggio più alto va alla Francia, seguita da Paesi Bassi e Gran Bretagna. Quarta l’Italia che, “oltre ad aver recepito la direttiva ‘ombrello’ del settoreâ€, si distinguerebbe anche “per la capacità di organizzare eventi e iniziative sul territorio che coinvolgano le pubbliche amministrazioni localiâ€.
Un dato che sorprende, soprattutto se letto alla luce della mappatura che Agorà Digitale ha fatto delle PA italiane, invitando – al grido di “Salviamo gli Open Data” – i cittadini a partecipare ad un monitoraggio di massa della durata di una settimana (partito lunedì 21 gennaio), per verificare in prima persona la risposta delle amministrazioni ai nuovi obblighi di trasparenza in vigore dal 1° gennaio 2013 ai sensi dell’art. 18 del cosiddetto “Decreto Sviluppo†(DL 83/2012). Ebbene, la mappa censisce oltre 1.000 amministrazioni, ed è quasi tutta rossa.
Nondimeno, la sorpresa cresce se si pensa che proprio il sudatissimo art. 18 sembrerebbe saltare in virtù del recente riordino (?!?) della normativa in materia di trasparenza e accessibilità .
Quest’ultimo provvedimento dell’esecutivo, in realtà , basterebbe a stralciare l’Italia da qualunque graduatoria di sorta in termini di openness pubblica, per le ragioni imbarazzanti che già abbiamo esposto qui e qui, prima fra tutte la bufala dell’introduzione di un Freedom of Information Act (FOIA) anche in Italia.
Eppure, l’Italia risulterebbe un paese avanzato anche in termini di “right to knowâ€, ovvero quel diritto di sapere e di accedere alle informazioni pubbliche sancito nel resto del mondo democratico proprio dal FOIA.
Secondo uno studio della Associated Press sono oltre 5,3 miliardi i cittadini di oltre 100 paesi a vedersi riconosciuto the right to know. Tra questi anche i cittadini italiani che, in vero, questo diritto proprio non ce l’hanno (vedi qui).
Ma secondo l’AP, l’Italia (in compagnia di tradizionali campioni della trasparenza come Messico, Turchia, Ucraina o Azerbaijan) è un paese reattivo e sensibile alla materia. Paesi come USA e Inghilterra, invece, lo sarebbero solo parzialmente. Se non ci credete, guardate anche voi l’infografica.
Tuttavia, non è, questo della AP, il primo studio che vede l’Italia emergere in quanto a trasparenza e accessibilità , talvolta calcolate in base a criteri e indicatori quantomeno dubbi: non basta verificare l’esistenza di una normativa in materia, ma bisognerebbe, ad esempio, anche prendere in esame termini e limiti di tali norme.
Abbiamo chiesto un parere in merito a Ernesto Belisario, avvocato, blogger, esperto di Open Government e “mandante morale†della campagna di Agorà Digitale. Anche Ernesto tende a diffidare di certa statistica e, con riferimento allo studio della CE sugli open data, specifica: “trattandosi di un indice composito, è molto importante capire cosa c’è dietro; nel caso dello Psi Scoardboard, ad esempio,  l’elevato punteggio complessivo dell’Italia è per lo più il prodotto di due fattori: il recepimento della direttiva UE e l’organizzazione di numerosi eventi sugli open data. Al contrario, i punteggi sono molto bassi quando si parla di “effettivo riuso” dei dati, formati e prezzi. In questo senso, credo che l’indagine ci restituisca un quadro più realistico; basti pensare che secondo Formez solo l’1% degli open data italiani sono riutilizzati. C’è ancora molta strada da fareâ€.
È anche in virtù di queste considerazioni di partenza che, per chiudere con un’altra citazione, “le sole statistiche di cui ci possiamo fidare sono quelle che abbiamo falsificato noi†(Winston Churchill).