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Perché i giornali muoiono

‘’Ci saranno ancora dei giornali fra dieci anni? Non lo so. Penso che ci saranno ancora delle imprese editoriali che ne avranno conservato i nomi e che forse avranno anche una declinazione su carta, come per esempio un magazine di qualità che esce nel fine settimana, ma produrranno l’ essenziale, e cioè tutto il loro contenuto, per il web. Non so se ci saranno ancora dei quotidiani come li conosciamo oggi’’.

 

E’ la previsione di Joshua Benton, giornalista e direttore del Nieman Journalism Lab di Harvard, uno dei principali centri mondiali di analisi dell’ innovazione nel campo dei media.
 

In una intervista pubblicata sull’ ultimo numero di Next.libération, che traduciamo per i lettori di Lsdi, Benton racconta ‘’Perché i giornali muoiono’’. Analizzando con severità i metodi scelti dagli organi di stampa per reagire alla crisi e denunciando le incertezze e le illusioni che ancora dominano il mondo dei quotidiani Usa e dei loro giornalisti, che, nonostante tutto, continuano a pensare che un articolo che va sulla’’prima’’ dell’ edizione su carta sarà visto sempre in maniera più positiva rispetto a un articolo web, pur se più letto e più condiviso.
 

 Benton denuncia fra l’ altro anche una forte miopia nella gestione del ‘mobile’:  ”non c’ è una reale innovazione in termini di applicazioni, di design dei siti, di segnalazione delle notizie – dice -, non ci sono dei buoni mezzi per gerarchizzare gli articoli, non è emersa nessuna grammatica nuova. E’ il settore principale in cui i giornali dovrebbero innovare, ma nessuno se ne interessa, o almeno non in maniera convicente. Si potrebbe paragonare tutto ciò all’ epoca dei primi siti web: i giornali vedevano il loro sito web come una cosa complementare, mentre la carta restava il ‘’vero’’ prodotto. Oggi il mobile è visto come un complemento e il sito web come il vero prodotto. I siti mobili di alcuni giornali sono una vera vergogna”.

 
 
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Pourquoi les journaux meurent-ils

di Elisabeth Franck-Dumas
(Next.Libération)

 

E’ un centro di ricerca sul futuro del giornalismo che il suo fondatore, Joshua Benton, descrive come un mix fatto di «85 % di redazione e 15 % di think tank». Al Nieman Journalism Lab dell’ Università di Harvard, ospitato dalla prestigiosa Fondazione Nieman, si passano in rassegna i successi e le sconfitte delle varie forme del giornalismo contemporaneo, e quindi di un giornalismo in crisi.

 
Le innovazioni vengono recensite, la catena dell’ attualità viene auscultata in tutti i suoi passaggi, dall’ avvenimento propriamente detto fino al suo ‘’consumo’’. Come i media tradizionali si possono adattare alle mutazioni in corso? Quali mezzi usare per tenere testa alla concorrenza del web e alla caduta della pubblicità?
 

Ex giornalista investigativo più volte premiato, soprattutto quando lavorava al Dallas Morning News, Joshua Benton, 38 anni, ha cominciato a interessarsi alle forme di produzione del web negli anni Novanta. E guarda con severità, ma non senza entusiasmo, al futuro della stampa.
 

Hai creato il Nieman Lab nel 2008, e in termini mediatici sembra una eternità. Come si è evoluto il paesaggio mediatico in 5 anni? Sei più ottimista o pessimista?

Per certi versi le cose oggi sono più stabili rispetto ad allora. Nel 2008 l’ economia mondiale andava male, le aziende giornalistiche perdevano una fenomenale quantità di soldi e il futuro sembrava cupo. Cosa che non impediva però ad alcuni di credere che questa situazione catastrofica era frutto di cambiamenti ciclici, che i ricavi della stampa sarebbero tornati a crescere con la ripresa dell’ economia  – cosa che però non è avvenuta. In sintesi, direi che radio e televisione non ne escono troppo male, e che i giornali sono riusciti ad arginare un po’ il ritmo del loro declino, aumentando il prezzo di vendita, per esempio, o mettendo in funzione dei paywall.
 
Ma la pubblicità su carta, che è sempre stata, soprattutto negli Usa, la fonte economica primaria, continua a calare, senza grande speranza di risalire, e questo è un problema enorme. La vecchia pubblicità sui giornali non è stata sostituita dalla pubblicità online. Abbiamo assistito allo sviluppo dei media sociali, che all’ epoca non esistevano, visto che Twitter e Facebook non erano identificate come delle piattaforme di diffusione delle notizie. E anche alla nascita  di organi di informazione al 100% online: l’ Huffington Post nel 2008 aveva una piccola redazione, dei blogger che lavoravano gratuitamente, mentre oggi producono dei contenuti che si possono comparare al giornalismo tradizionale. Ecco un po’ lo stato delle cose.

 

Alcune testate stanno per abbandonare il tavolo di gioco?

I grandi giornali nazionali, come Wall Street Journal e New York Times, sono ben piazzati nell’ attuale congiuntura, perché hanno le risorse necessarie per investire in nuove piattaforme di disseminazione dell’ informazione, hanno un contenuto editoriale di grande qualità e sono pronte a tentare l’ avventura. Il Times se la cava bene: una redazione di circa 1.000 giornalisti, articoli che nel complesso restano eccellenti, e un miglioramento costante della sua presenza digitale, soprattutto nel campo dei video..
 
Possono vantarsi di avere delle ottime applicazioni. Tutti gli altri, quelli che in America chiamiamo i «city newspapers», quei giornali associati a grandi metropoli come il Boston Globe o il Dallas Morning News, sono in una situazione diversa. Costituiscono la maggioranza dei nostri quotidiani e sono stati colpiti molto più violentemente dalla crisi della stampa.
 
Perché? Perché in precedenza avevano il monopolio della pubblicità locale e con Internet è nata una concorrenza formidabile. Mentre il web è potuto essere un di più per il New York Times, visto il numero di persone che volevano leggerlo e non potevano avere accesso. D’ altronde il Times si appresta a lanciare una edizione in portoghese, in Brasile, e non è poco.

 

Bisogna quindi essere il ‘’New York Times’’, avere cioè dei grandi mezzi, un grande impatto e una notorietà analoga per uscirne?

Non ci sono che loro, poche altre testate potrebbero farlo. Ken Doctor, un ricercatore molto apprezzato, parla a questo proposito di «digital dozen» (la dozzina digitake, ndr), quelle mega aziende editoriali dal brand globale che domineranno l’ editoria planetaria, fra cui il Guardian, la BBC, Bloomberg et il New York Times. Quello che io ripeto sempre, comunque, è che il Times è una categoria a sé stante, che le soluzioni che si applicano a questo grande mezzo non è detto che vadano bene per tutti. Il successo incontrato dal suo modello di ‘’metered paywall’’ (un certo numero di articoli gratuiti prima di passare a quelli a pagamento), ha spinto altri giornali a imitarlo ma non ha funzionato. Ci vuole un pubblico globale perché ciò possa andare.
 

Si parla molto di una sorta di una sorta di ‘’martingala’’, che consisterebbe nel mettere a punto dei paywall, sviluppando contemporaneamente delle fonti di ricavi parallele…

Quando ho cominciato nel 2008, si parlava molto di paywall. Nel 2009 anche, poi nel 2010… [ride]. Ma ahimé, se ne parlava solo, nessuno metteva a punto dei progetti che ci avrebbero consentito di vedere se  la cosa funzionava o no, e di sviluppare dei modelli. Poi il New York Times ha realizzato il suo «metered paywall», largamente imitato visto che ha il vantaggio di risolvere un problema fondamentale per la stampa: come offrire un campione di contenuti al lettore prima di farlo pagare? Visto che non si sa mai se un articolo è buono prima di averlo letto, bisogna che il lettore si convinca che avrà un ritorno da quell’ investimento.
 

Un altro modello di paywall, quello del doppio sito, si è parecchio diffuso: si tratta di avere un sito gratuito e uno a pagamento, ma totalmente distinti. Il Boston Globe e l’ Houston Chronicle, ad esempio, funzionano in questo modo. Non abbiamo ancora abbastanza ritorni per valutare il successo di questo sistema, ma il vantaggio di questo modello è di differenziare veramente le due esperienze di lettura, di offrire qualche cosa ‘’in più’’ al lettore pagante, al di là degli stessi articoli. E di lasciare che il sito gratuito si prenda qualche libertà, stando attenti però a non appannare troppo l’ immagine della testata.

 

I  paywall quindi non sono la soluzione?

Apportano un reddito supplementare ma non sono la chiave di volta, non potranno salvare la situazione da soli, almeno non negli Stati Uniti. Il nostro modello dominante era quello dei quotidiani regionali di grande qualità venduti a prezzo molto basso, diciamo 25 centesimi, che approfittavano della loro situazione di monopolio per far pagare molto cara la pubblicità, che veniva indirizzata a un pubblico di lettori molto variegato, ampio, che aveva a disposizione solo quella testata. Oggi i paywall vengono creati per far pagare quelli che non avevano intenzione di pagare, certo, ma soprattutto per i lettori fedeli, che amano il loro giornale, cioè per un pubblico molto più limitato di prima. La strategia è ormai quella di ottenere maggiori ricavi proprio da questi lettori qui: aumentando il prezzo di vendita di una copia, ad esempio, come ha fatto il Boston Globe,  che l’ ha praticamente raddoppiato, e creando dei paywall.

I giornali hanno perso dei lettori occasionali ma possono ancora guadagnare dei soldi con quelli che li leggono con fedeltà.

 

Ma i giornali si chiedono perché i fedeli restano fedeli…

Sì, certo. Ed ovviamente la risposta varia da testata a testata. Il Dallas Morning News, in cui ho lavorato per parecchio tempo, ha ridotto della metà la sua redazione, passando da 600 a 300 giornalisti in questi ultimi anni. Ma ha aumentato i giornalisti investigativi perché il giornale si è reso conto che ciò che interessa i lettori fedeli sono le grandi inchieste.

 

Perché non chiedersi anche cos’ è che attira lettori nuovi?

Negli anni Novanta i giornali hanno fatto spese folli per attirare lettori giovani, con nuove rubriche, fumetti, e così via… ma niente da fare, perché quella fascia di persone non leggerà mai dei giornali. Oggi i giornali non cercano nemmeno più di attirare i giovani, sono diventati più realisti.

 

Senza nuovi lettori i giornali vanno quindi verso l’ estinzione?

Non so se i proprietari dei giornali pensano a lungo termine… Sia che si dicano che hanno conservato un gruppo di lettori fedeli a cui vendere il loro prodotto, e che bisogna ricavarne il massimo prima della scomparsa, sia che… Diciamo che gli Edge Fund che studiano i giornali li chiamano ormai degli ‘’asset che si deprezzano’’.  Producono sempre un profitto ma ogni giorno un po’ inferiore, e questo sempre e solo per interventi sul budget. Ci saranno ancora dei giornali fra dieci anni? Non lo so. Penso che ci saranno ancora delle imprese editoriali che ne avranno conservato i nomi e che forse avranno anche una declinazione su carta, come per esempio un magazine di qualità che esce nel fine settimana, ma produrranno l’ essenziale, e cioè tutto il loro contenuto, per il web. Non so se ci saranno ancora dei quotidiani come li conosciamo oggi.

 

La tendenza ormai è la lettura online su mobile piuttosto che su pc, e in questa categoria su smartphone piuttosto che su tablet. Questa tendenza come influenzerà il contenuto e la presentazione dell’ informazione?

Penso prima di tutto che i tablet sono destinati a svilupparsi di più. La maggior parte delle persone che possiedono un cellulare oggi hanno uno smartphone, mentre i tablet hanno ancora un margine. Ma è sicuro che lo smartphone  diventerà  lo strumento di lettura privilegiato della stampa; il Guardian e New York Times hanno osservato che a certe ore è già così.E se io potessi formulare una critica ai giornali tradizionali direi che questi ultimi non si sforzano abbastanza di utilizzare questo strumento come un mezzo di ‘’resettare’’ il nostro rapporto con la lettura dei giornali. Non c’ è una reale innovazione in termini di applicazioni, di design dei siti, di segnalazione delle notizie, non ci sono dei buoni mezzi per gerarchizzare gli articoli, non è emersa nessuna grammatica nuova.

 

E’ il settore principale in cui i giornali dovrebbero innovare, ma nessuno se ne interessa, o almeno non in maniera convicente. Si potrebbe paragonare tutto ciò all’ epoca dei primi siti web: i giornali vedevano il loro sito web come una cosa complementare, mentre la carta restava il ‘’vero’’ prodotto. Oggi il mobile è visto come un complemento e il sito web come il vero prodotto. I siti mobili di alcuni giornali sono una vera vergogna. Sì, Guardian ha una  vera presenza mobile, il Times è meglio della media, ma finora non ho visto niente che mi abbia fatto dire: ah, guarda, qualcuno ha pensato veramente a ottimizzare il contenuto per un mobile!

 

Ma questo significherebbe produrre degli articoli più brevi?

Non è detto! E’ stato notato che quando un lettore trova un articolo che lo interessa, va fino alla fine, qualunque sia la sua lunghezza. La questione semmai è sapere come mettere quel buon articolo sotto gli occhi di un buon lettore nel momento giusto. Quando si va sulla home page di un sito sul mobile, ci sono centinaia di articoli proposti, che occupano varie schermate. E se quello che potrebbe interessarmi è alla ventesima pagina? Come fare in modo che appaia sulla schermata iniziale, prima che la mia attenzione sia distratta da un’ altra cosa?

 

E’ una scommessa per i giornali, mentre Facebook e Twitter fanno concorrenza sullo stesso terreno visto che, di fatto, effettuano lo stesso lavoro di filtro dell’ informazione. L’ applicazione Circa, che filtra e seleziona l’ attualità per i suoi lettori permettendo loro di abbonarsi per seguire qualche argomento in particolare, propone delle piste interessanti.

 

Il vostro «lab» apre le porte a interventi di personaggi esterni, in particolare del mondo degli affari. Ma si ha l’ impressione, nella stampa, che i giornalisti non abbiano sempre una grande lucidità rispetto al problema del modello economico del settore in cui lavorano. Si vedono come investiti da una missione più che come dei fornitori di un servizio. E’ una delle ragioni per cui  il settore è motlo lento nel trasformarsi? E, se sì, come interessarli al cambiamento in corso?

La perdita del lavoro dovrebbe essere una motivazione sufficiente. No? Ma è vero che c’ è sempre una separazione netta fra il versante commerciale e quello giornalistico di tutte le aziende editoriali, e che era ‘’normale’’ fra i giornalisti rifiutarsi di sapere che cosa succedeva nell’ altro versante – che veniva visto come una piccola cucina un po’ sporca. Questo continua ad accadere , e ci danneggia.

 

Prendiamo l’ esempio del contenuto web, che è destinato a diventare il futuro della stampa: le testate al 100% native, che sono nate su Internet, non hanno nessun problema a creare dei prodotti attraenti, perché dopo tutto è quella la loro missione. Mentre le testate dei media che potremmo chiamare ‘’patrimoniali’’ – quindi radio, tv e carta – fanno più fatica a ristrutturare le loro redazioni per produrre dei contenuti destinati al web. Perdura una forma di gerarchia: quello che viene prodotto sotto la forma ‘’patrimoniale’’ ha sempre un valore maggiore di quello che viene prodotto sotto forma digitale.

 

Jill Abramson, che dirige il New York Times, ha lavorato sei mesi alla redazione digitale del giornale prima di assumere la funzione direttiva. Una delle cose che ha imparato è che all’ interno della redazione un articolo che va sulla’’prima’’ dell’ edizione su carta sarà visto sempre in maniera più positiva rispetto a un articolo web, anche se sarà più letto, condiviso, ecc.

Abramson ha annunciato che uno dei suoi obbiettivi alla testa del giornale sarà proprio quello di cambiare questa mentalità. Ma è molto difficile a farsi, soprattutto nei giornali americani, dove la carta genera ancora l’ 80% dei ricavi. Resta da capire per quanto tempo…

 

Che pensi dei siti a pagamento specializzati nel giornalismo narrativo, come Byliner o Kindle Singles, in cui si paga a singolo articolo?

Ah, i giornalisti adorano parlare di questo! Si sentono confortati! [ride]. Questi siti fanno aggregazione, allo stesso modo di Zite o Flipboard. Sì, c’ è un mercato per gli articoli lunghi di qualità, ma si tratta di un mercato rilevante? I giornalisti amano farsi paura evocando la lunghezza ridotta degli articoli web e mettere sul piedistallo quelli lunghi. Ma, ancora una volta, non è questo il problema. Ho letto degli interi libri sul mio smartphone. Da un cellulare ci si attende che fornisca gli stessi contenuti di un sito, non una selezione di riassuntini. Forse è più pertinente dirsi che prima, quando non contavano  le pagine né la carta, capitava di trovare degli articoli lunghi venti cartelle che ne meritavano cinque. La verità è che si riesce raramente a finire di leggere venti cartelle.

 

E i periodici?

Qui, tranne qualche settimanale generalista, le riviste hanno un pubblico di lettori ben identificato, che è un vantaggio, e sono dei marchi forti. Il problema è capire come sfruttare questo vantaggio. Sono spesso meno vittime della sindrome del ‘’meglio prima’’, ma il tempo in cui si potevano chiedere somme astronomiche per le inserzioni su carta patinata è finito. E le app iPad per il momento non hanno dato i risultati sperati.

 

Condé Nast se ritrova in una posizione paragonabile a quella del New York Times, con i mezzi per lanciare dei progetti interessanti e per investire nei video. Nel gruppo Hearst, il magazine per uomini Esquire si è appena associato con G4 per creare Esquire TV, una catena che comincerà a trasmettere questa estate.

 

Pensi che la concorrenza venga dai siti di Informazione online, dai social media o da tutte quelle attività che si sono sviluppate grazie agli smartphone, fino ai gioco tipo ‘’Angry Birds’’ ?

All’ interno di una stessa testata le inchieste giornalistiche hanno sempre convissuto con le parole crociate, i risultati sportivi o i fumetti. Ma è vero che fino a poco fa i giornali pensavano che i loro lettori erano in qualche modo acquisiti. Che non dovevano battersi. Oggi si rendono conto che non è così, che i lettori non sono la popolazione nel suo complesso. Che bisogna individuare quelli che hanno voglia di leggere la stampa  e proporre loro degli argomenti in grado di interessarli.

 
Diversamente dagli uomini del marketing, che hanno sempre saputo che il lettore arrivava anche per i  piccoli annunci o i fumetti! Ma il giornalista aveva l’ illusione che la lettura della stampa facesse parte dell’ impegno di ogni buon cittadino (ride).
 
Per questo, in Europa, voi avete un certo vantaggio: molti dei vostri giornali sono stati lanciati con la coscienza che non erano destinati a tutti.  Libération, ad esempio, ha sempre saputo di rivolgersi a una certa categoria di cittadini. Il Guardian sa molto bene di essere come il Chicago Tribune, cosa che in un ambiente concorrenziale può essere un vantaggio.

 

Ci sono altri campi in cui la stampa europea può essere in condizioni migliori?

C’ è un maggior numero di giornali che hanno cominciato separando subito redazione web e redazione cartacea, cosa che era più intelligente in termini di organizzazione, di brand e di economia. Il web era più libero e innovativo, la testata su carta meglio protetta. E poi anche l’ isolamento linguistico in fondo è un vantaggio: se siete il quotidiano nazionale sloveno e decidete di mettere un paywall, soffrirete senza dubbio molto meno della concorrenza. In ogni caso non nel modo di un quotidiano anglofono.

 

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