Scoprendo ad esempio che il costo per le redazioni nei quotidiani-Pulitzer è sul 20% dei costi complessivi, mentre la media nelle grandi testate quotidiane è sul 12,7% e la tendenza è alla diminuzione, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato visto il calo dei costi di carta e stampa a causa del calo delle vendite.
In sintesi, secondo Doctor, conta quello che sostiene con grande semplicità il cofondatore di Press+, Steve Brill: “Se vuoi vendere giornalismo, devi fare fare giornalismo”.
D’ altra parte gli investimenti sulle redazioni saranno una delle condizioni fondamentali delle imprese del futuro: visto che già oggi in siti come Pro Publica o Texas Tribune le spese per i redattori ammontano già al 75-80% – E poi , la dimensione delle redazioni è indicativa dell’ impegno verso la comunità , sostiene l’ editore dell’ Orange County Register, Aaron Kushner. “Tagliare nelle redazioni, ridurre i giorni di uscita sono sintomi di uno scarso legame col tessuto della comunità “
The newsonomics of Pulitzers, paywalls, and investing in the newsroom
di Ken Doctor
Come avrete notato,  nell’ elenco  dei premi Pulitzer 2013 ci sono alcuni vintori multipli. Il New York Times ne ha vinti quattro e lo Star Tribune due. Avendo appena concluso alla NAA mediaXchange conference, a Orlando, una sessione sul paywall (in cui avevo parlato di entrambe le testate), mi sono meravigliato di questa coincidenza.
Come mai due delle testate che hanno avuto più successo nelle loro strategie digitali erano fra i vincitori multipli? Ci poteva essere qualche collegamento? Come potremmo interpretare i rapporti fra Pulitzer, paywall e investimenti nelle redazioni?
I due Pulitzer dello Star Tribune sono frutto di una redazione di 260 persone. Quel numero è rimasto abbastanza costante negli ultimi tre anni, anche se è lontano dal massimo storico di circa 400. Nell’ondata di tagli delle spese che ha colpito tutto il settore, sia negli anni della recessione vera e propria che dopo, lo Star Tribune è uno dei relativamente pochi giornali che ha cercato il più possibile di mantenere integri gli staff di cronaca. E per cercare di conservarli forse ha esagerato nei tagli in altri settori, come gli editor e il management intermedio.
Così, pur avendo subito dei tagli significativi, il nucleo centrale dello Star Tribune è rimasto più forte di quelli di altri grandi quotidiani. La sua capacità di copertura risulta ancora molto favorevole, per esempio, rispetto ai tagli, anche del 50%, registrati in altri quotidiani del gruppo Tribune. (Se, come all’ inizio della settimana sostenevano alcune fonti, il gruppo verrà venduto, il problema di rimpolpare in parte le redazioni tagliate sarà una sfida seria per gli acquirenti).
“La percentuale dei costi della redazione sul totale è cresciuta (dal 2010)†dice l’ editore Mike Klingensmith: una dichiarazione che diventa più intrigante se guardiamo alle tendenze del settore in generale.
La diffusione giornaliera è ora a 302.000 copie e la domenica è sulle 510.000, ormai da tre anni di fila.
(…)
Allo stesso modo, il New York Times – che ha vinto quattro Pulitzer – ha insistito nella strategia del prendi-i-soldi-di-Carlos-Slim-e-spera-in-tempi-migliori.
Oggi il giornale ha una redazione di 1.150 addetti. L’ editore ha regolarmente, ed a volte dolorosamente, potato negli ultimi cinque anni, e il numero 1.150 corrisponde al tetto di 10 anni fa. “Ci sono stati tagli, certo, ma in altri reparti abbiamo anche infoltito i ranghi, in particolare nei settori della produzione multimediale, fra gli operatori video, gli editor di grafica, ecc.”, dice la portavoce del NYT, Eileen Murphy. “E queste assunzioni hanno mantenuto l’ organico relativamente stabile.”
Il Times non rende nota la percentuale dei costi della redazione rispetto ai totali, ma si può ipotizzare che sia vicina al 20%. Questo dato viene tenuto coperto da molti quotidiani e io non capisco bene perché. Forse perché, secondo alcuni, potrebbe essere imbarazzante se il pubblico lo trovasse troppo basso.
Quante testate fanno parte del club ‘’vicino-al-20%?’’. Non lo sappiamo, ma possiamo supporre che sono un piccolo numero rispetto ai 1.380 quotidiani americani, fra cui alcuni a controllo familiare come il Washington Post. Credo che anche lo Star Tribune stia da quelle parti.
Vincere il Pulitzer è una grande cosa, ma chi lo vince non può certamente sostenere che le loro aziende siano redditizie e vedano una crescita dei ricavi. Una cosa che le sta sostenendo per ora sono i ricavi dai lettori.  Il Times  ora incassa da questi ultimi più che dalle entrate pubblicitarie. Per lo Star Tribune il 44% delle sue entrate provengono dai lettori, mettendo insieme all-access e diffusione digitale.
Guardiamo allora ai processi economici editoriali legati a Pulitzer, paywall e investimenti nelle redazioni, e vediamo se la nostra intuizione ha qualche fondamento in fatti dimostrabili.
Se il 20% dei costi impiegati per la redazione sembra una percentuale bassa, bisogna considerare che la media del settore è di circa il 12,7%  per i quotidiani più grandi. Questa è la spesa media per la redazione rispetto ai costi totali, per testate sopra le 100.000 copie di diffusione, secondo la Inland Press Association, leader riconosciuto del nel benchmarking nel settore quotidiani.
È interessante notare che quelli con tirature più basse spendono un po’ di più:  e sappiamo che i loro risultati economici nel corso degli ultimi 10 anni – calo inferiore delle entrate pubblicitarie e delle vendite – sono stati migliori.
Possiamo anche vedere che i giornali stanno dedicando complessivamente alle redazioni una percentuale minore delle loro spese complessive rispetto a 10 anni fa. (I confronti sono 2011 su 2001, i dati del 2012 non sono ancora arrivati).
La tendenza verso il basso, per quanto sia piccola, è lampante. Considerato quanto tutti i giornali hanno ridotto le spese per la stampa e la carta, visto il calo delle vendite, ci si potrebbe aspettare che la quota di spesa per le redazioni sarebbe cresciuta un po ‘, come è accaduto al Minneapolis. E invece, è diminuita.
In poche parole, gli editori – mediamente – hanno tagliato le redazioni più profondamente di altre parti delle aziende. Non hanno creduto che i lettori intelligenti avrebbero risposto positivamente a una migliore copertura informativa o negativamente ai tagli. (Il 31% degli americani hanno abbandonato una testata perché non li soddisfaceva più, secondo quanto ha accertato Pew.)
(…)
Se le persone che stanno fornendo la maggior parte del reddito, i lettori – non è ancora il caso per la maggior parte dei quotidiani, ma è probabile che lo sarà entro tre-cinque anni – saranno soddisfatte del prodotto, continueranno a pagare. Se sono contenti, possono pagare per gli abbonamenti e per i nuovi prodotti che verranno creati e messi in vendita. Se non saranno soddisfatti, i quotidiani avranno sperperato la loro più grande opportunità nell’arco di una generazione.
Al di là dei numeri di Inland, comunque, alcuni dati sul valore finanziario degli investimenti sulle redazioni li abbiamo.
Dal 1990, Esther Thorson Esther Thorson ha studiato il legame tra investimenti nelle redazioni e risultati nel settore della pubblicità e della diffusione. “Soldi dentro, soldi fuori” lo chiama lei, suggerendo che considerare la redazione come un semplice “centro di costo” è miope.
Thorson ha credenziali in psicologia e matematica ed è ricercatrice alla Scuola di giornalismo dell’Università del Missouri. Insieme con un suo collega, Murali Mantrala, docente di marketing,  ha lavorato a lungo con i dati di Inland e con singole aziende di quotidiani.
La sua conclusione: “Gli investimenti nella redazione producono il maggiore impatto su tutte le fonti di ricavo, sia sulla pubblicità che sulle vendite’’. Citando un esempio che ritiene molto indicativo: “Ogni dollaro investito in redazione crea 21 centesimi di impatto diretto sui ricavi diffusionali, più 56 centesimi di impatto indiretto da ricavi pubblicitari, più 32 centesimi di effetto indiretto sulle entrate pubblicitarie onlineâ€. Investimenti diretti nella vendita della pubblicità o nella diffusione incidono meno, spiega.
I suoi modelli econometrici possono trovare nuova linfa nell’ era della diffusione all-access.
Il cofondatore di Press+, Steve Brill,  lo spiega molto semplicemente: “Se vuoi vendere il giornalismo, devi fare fare giornalismo”.  E’una espressione colorata, e seguendola la sua azienda sta costruendo un buon volume di dati.  Press+ infatti sta cominciando a tracciare la correlazione tra volumi di contenuti e  vendite.
Uno studio di Press+ della metà del 2012, che presto sarà ampliato e aggiornato, mostra poi delle ampie variazioni a seconda del volume di notizie: “Un sito di un giornale con una media di 82 articoli pubblicati nel primo mese ha venduto abbonamenti per circa 36.000 dollari, mentre un sito con traffico analogo, ma con una media di soli 21 articoli al giorno nel primo mese non ha raccolto più di 400 dollari. Un terzo sito con un traffico simile ma con una media di 50 storie ha registrato nel primo mese un fatturato di circa 3.000 dollari. Un quarto sito, con una media di 55 servizi, ha raggiunto vendite per poco più di 3.000 dollari. Nel corso del tempo, il sito con 82 articoli quotidiani ha venduto 10 volte di più abbonamenti al mese rispetto a quello con 50 storie al giorno e 15 volte di più di quello con 20 post al giorno “.
Da notare che l’ indagine iniziale ha analizzato solo 4 testate. Ma è un altro utile punto di osservazione e sarà ancora più importante quando verrà ampliato. Inoltre, conduce a alla questione che chiunque nell’ industria dei media – anche in giornali o siti come il Daily Beast che stanno considerando  l’ ipotesi di un paywall – dovrebbe porsi:  Come i contenuti stessi  possono massimizzare i ricavi provenienti  dai lettori nell’ era dei paywall?
Brill mi dice poi che la sua azienda sta cominciando a tracciare il legame tra “il coinvolgimento dei lettori (l’ engagement, ndr) e la qualità del contenuto”.
Il 20% è un numero magico? No, ma sicuramente è una grande base di partenza.
Se guardiamo al successo di startup specializzate nel giornalismo investigativo  – come California Watch, ProPublica, Texas Tribune, MinnPost e The Lens, per esempio – vediamo tipi di aritmetica diversi. Dick Tofel di Pro Publica racconta che l’ 85 per cento dei costi del sito vanno sostanzialmente alla creazione dei contenuti. Evan Smith riporta che il 73% delle spese al Texas Tribune va alla produzione di contenuti. Per tutte le testate nuove, è di gran lunga la spesa maggiore.
La sorpresa degli ultimi Pulitzer, il vincitore  InsideClimate News, impiega l’ 80% delle sue spese globali per i suoi sette membri a tempo pieno della redazione.
Naturalmente, queste startup solo digitali non hanno i costi tradizionali – stampa, distribuzione, ecc – dei quotidiani, ma nemmeno i loro miliardi di dollari di entrate pubblicitarie. Il loro modello, però, è istruttivo.
Questi nuovi arrivati delineano il quadro di come sarà la moderna azionda giornalistica nel 2023. Tutti gli editori che lavoreranno nel digitale come settore principale, fra dieci anni si concentreranno su due grandi segmenti di spesa: la creazione di contenuti e lo sviluppo commerciale, che non sarà limitato alla pubblicità . Molte delle altre spese che ora incombono sulle aziende dei giornali – supercomputer, mezzi di trasporto, enormi edifici aziendali – saranno solo un ricordo. (La decisione del Mercury News di vendere i suoi uffici a San Jose è indicativa.) La grande sfida per le imprese giornalistiche tradizionali, emittenti incluse, è quanto si possono allontanare nel frattempo da questo tipo di struttura dei costi.
A dire il vero, non c’ è una correlazione diretta tra dimensione della redazione e qualità editoriale: il ruolo di un management attivo nella gestione delle redazioi è fondamentale per quanto riguarda il modo di utilizzare le risorse, non importa se grandi o piccole.
Ma certamente la dimensione è una base per una previsione, e non solo per i numeri. C’ è voluto un impegno reale, durante i traumi di bilancio degli ultimi dieci anni, per preservare il più possibile le potenzialità delle redazioni. E le aziende che hanno cercato di farlo tendono a dare più valore alla qualità editoriale complessiva.
Inoltre, la dimensione delle redazioni è indicativa dell’ impegno verso la comunità , sostiene l’ editore dell’ Orange County Register, Aaron Kushner. “Tagliare nelle redazioni, ridurre i giorni di uscita, sono sintomi di uno scarso legame col tessuto della comunità “, ha detto ai partecipanti alla Conferenza della NAA a Orlando. Nel suo dibattito sul palco con Ken Auletta e Terry Kroeger,  del Berkshire Hathaway’s media group, Kushner ha riscosso un forte applauso, come pioniere nel settore.
Per Kushner non è possibile ottenere il successo aziendale – convincendo i lettori  a pagare un dollaro al giorno per l’ all-access – se non si è significativamente parte della comunità .
Per tutte le aziende giornalistiche, è il momento di cambiare la stanca conversazione fra editori su vecchie questioni. Se riusciamo a cominciare a capire come e quanto la qualità e la quantità editoriale giochino in un vero rilancio del business dei giornali, saremo in grado di aprire nuovi orizzonti.
Il che ci riporta ai contenuti – chiamalo giornalismo se vuoi – come un imperativo economico.
Stiamo assistendo a grandi esperimenti, come ad esempio l’ assunzione all’ Orange County Register di 108 nuovi membri dello staff redazionale dopo l’arrivo in città  dei nuovi proprietari. Abbiamo diverse testate più piccole, con meno lettori. Alcuni giornali sono riusciti a mantenere redazioni pù ampie di altri – come saranno i loro progetti di paywall? Quali ulteriori correlazioni possiamo trarre ora che abbiamo un sacco di dati a portata di mano? Come saranno i nuovi modi di presentare l’informazione, come ha fatto il Times con Snow Fall  vincendo il Pulitzer? Rafforzeranno le vendite o meno?
L’era dei Big Data può effettivamente sostenere l’ eccellenza (e le stravaganze) del giornalismo vecchio stile.