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Pubblicità: il ‘’native ad’’ e le minacce della FTC americana

Mentre continuano ad accavallarsi notizie più o meno favorevoli al dilagare del native advertising (ne abbiamo già parlato qualche giorno fa  qui), qualcuno cerca di analizzare con un po’ di freddezza e di distacco questo fenomeno di grande interesse economico (5 miliardi di dollari negli Usa nel 2017).
 
Fra di essi, in particolare, Jack Shafer, che si chiede: ‘’è peggio il native advertising o l’ intervento della Federal Trade Commission (l’ agenzia Usa che si occupa anche di pubblicità)’’?

 


Shafer analizza la situazione, ricostruisce la storia (molto interessante) dei ‘’reading notices’’di fine ‘800  (la pratica di inserire, a pagamento, i nomi di grandi brand come notazioni di cronaca all’ interno degli articoli) e spiega perché, a suo parere, sarebbe meglio che’’ la FTC lasciasse il Web tranquillo’’.

 

In questo modo, sostiene,  con un ragionamento tipicamente ‘’liberale’’, ‘’editori e inserzionisti alla fine troverebbero un’ intesa sui contenuti sponsorizzati, rendendosi conto che sfumare troppo le distinzioni fra informazione giornalistica e pubblicità alla fine danneggerebbe entrambi’’.

Ma non è che ne sia tanto convinto. E infatti conclude con una citazione: “i codici etici del giornalista vanno bene fino a quando non minacciano i profitti dei giornali. Quando questo accade, il manager che finora era stato tranquillo, inizierà a ringhiare di nuovo”.

 

What’s worse than sponsored content? The FTC regulating it

di Jack Shafer

(Blogs.reuters.com)

 

Cos’ è più pericoloso per il bene dei consumatori: i contenuti sponsorizzati o l’ intervento della Federal Trade Commission? Mercoledì scorso, l’ agenzia ha tenuto una conferenza dal titolo  “Blurred Lines: Advertising or Content”   per discutere sul native advertising, ha spiegato il New York Times. L’  evento ha attirato diverse centinaia di ‘’inserzionisti, docenti universitari e dirigenti dei media “, che hanno ascoltato le opinioni della FTC sul native ad (chiamato anche contenuti sponsorizzati o pubbliredazionali: insomma quegli annunci progettati per assomigliare a contenuti editoriali).
Molti, se non la maggior parte dei principali siti editoriali, offrono contenuti sponsorizzati, fra cui Washington Post, Huffington Post, Slate, Techmeme, Business Insider, Forbes, BuzzFeed, il  Boston.com, Atlantic e altri, e la lista degli inserzionisti comprende nomi famosi, come IBM , Jet Blue, Pillsbury, Purina, Columbia Sportswear, Dell, UPS, McDonalds e BMW. L’ articolo del Times riconosce che anche il giornale, presto, si unirà alla carovana del native ad, che l’ anno scorso ha portato agli editori circa 1,5 miliardi di dollari.

 

Quando la FTC convoca una conferenza per ” discutere ” di qualcosa, il suo obbiettivo (come quello di altre analoghe agenzie di regolazione) non è quasi mai la discussione – non più di quanto lo sia per un poliziotto che dice di voler solo parlare. Questi incontri di solito diventano luoghi in cui l’ agenzia può lanciare qualche velata minaccia, direttamente o indirettamente, al suo target di ‘’controllati’’, spiegando sottovoce che se non cambiano il loro modo di fare la faranno arrabbiare. Il copione prevede che in questi casi l’ agenzia prometta ai suoi interlocutori che se loro non accettano ‘’volontariamente’’ di darsi una regolata, essa sarà costretta a ricorrere all’ autorità legislativa, chiedendo di stabilire delle restrizioni obbligatorie. Niente può essere “volontario” se qualcuno ti sta minacciando di renderlo obbligatorio, ma la mossa funziona nove volte su dieci.

 

La responsabile della FTC, Edith Ramirez, non ha fatto espresso alcuna minaccia, ma non ne aveva bisogno, come si capiva dal suo intervento.
“Se il native ad può certamente portare alcuni benefici per i consumatori, esso deve essere fatto osservando la legge”,  ha detto  Ramirez. “Presentando delle inserzioni che sembrano contenuto editoriale, un inserzionista rischia di suggerire, in maniersa ingannevole, che l’ informazione proviene da una fonte non di parte”.  La legge dà alla FTC il potere di sorveglianza (di polizia) sulla pubblicità e il marketing ingannevole, un potere che sistematicamente esercita, ha indicato la presidente Ramirez alludendo a un preludio ad azioni legali.

 

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La pubblicità mascherata da articoli risale almeno alla fine del 19° secolo (nel gergo giornalistico americano venne chiamata reading notice, secondo la Encyclopedia of American Journalism). Gli editori incoraggiavano l’ utilizzo di questi ‘’reading notices’’ attraverso l’ inserimento di nomi di brand e di società all’ interno dei servizi di cronaca senza nessuna avvertenza, perché la pratica era più redditizia delle inserzioni tradizionali. “Gli editori generalmente la fatturavano due volte, sia come reading notice che come inserzione”, scrive  Linda Lawson in Truth in Publishing: Federal Regulation of the Press’s Business Practices.

 

Quel tipo di pubblicità costituiva un incentivo per gli inserzionisti, rispetto agli annunci tradizionali, come avviene ora per le pagine di di contenuti sponsorizzati, ed è per questo che gli editori la amavano tanto. Anche se i reading notice venivano accusati di essere una frode ai danni dei lettori, sono apparsi sui giornali più importanti della fine dell’ ‘800. Li hanno usato Procter and Gamble, Sears, Roebuck and Co. “Un funzionario della Southern Pacific Railroad si vantava con i membri della California Press Association nel 1894 che a New York tutti i giornali accettavano i reading notice, continua Lawson, e nel 1900 un’ agenzia pubblicò una guida di 13 pagine sui giornali che li accettavano’’.

Nelle sue  memorie, Washington Gladden aveva raccontato di aver chiuso col suo lavoro da  giornalista al New York Independent nel 1874 perché non riusciva a convincere il giornale a smetterla con la pubblicazione di reading notice e di inserzioni che sembravano notizie. “Erano un male, una grossa debolezza per il giornale”, scriveva Gladden . “Questo mio scrupolo può sembrare una follia a qualcuno, ma non riesco a superarla” (vedi  qui per approfondimenti).

 

Un altro giornalista molto noto, Charles A. Dana, criticò duramente questa pratica, scrivendo nel 1895: ‘’Fate che la pubblicità appaia come pubblicità: non veleggiate sotto false bandiere’’. Il suo modo di sentire era stato condiviso da molte testate, come Editor and Publisher, e da Adolph S. Ochs, proprietario del New York Times. Un editore idealista come E. W. Scripps, che aveva fondato un giornale senza pubblicità a Chicago nel 1911, decise di evitare il ‘’buon affare’’ dei reading notice.
Ma questo strumento era considerato così efficace che un libro del 1908 sulla pubblicità gli aveva dedicato un intero capitolo. La chiave per scrivere un buon reading notice, scriveva l’ autore del saggio, Albert E. Edgar, era la doppiezza. ” Un reading notice di qualsiasi tipo ha un certo valore  perché il pubblico lo legge come una notizia e non come una pubblicità“.

Un’ altra guida,  Fowler’s Publicity, consigliava agli inserzionisti di evitare parole come “migliore”, “ineguagliabile” nei loro reading notice perché “il senso della misura è più essenziale per le cose scritte in maniera mascherata rispetto a quelle che non lo sono”.

 

* * *

 

I reading notice cominciarono a declinare con l’ avvento della Progressive Era,  scrive  C. Edwin Baker in Advertising and a Democratic Press, ma registrarono un vero e proprio crollo nel 1912 quando il Congresso ritirò i contributi per la spedizione postale a quelle pubblicazioni che non segnalavano la loro presenza. Anche successivamente, quando gli editori facevano molto affidamento sulle sovvenzioni postali per la distribuzione dei loro giornali – le riviste contavano ancora pesantemente su di esse – i reading notice non sono mai ritornati veramente nei quotidiani.

Si potrebbe sostenere che il pregiudizio negativo contro i reading notice sia diventato tanto radicato nella cultura giornalistica da impedire che possano rientrare in scena, ma in questo caso bisognerebbe spiegare perché alcune delle principali testate del paese sono state fustigate per quello che pubblicavano sui loro siti web. Il fatto è che la corruzione palese dei reading notice è stata sostituita dalla corruzione occulta: le testate per esempio, evitano di raccontare vicende che potrebbero indispettire determinati inserzionisti, come nel campo dell’ industria del tabacco, delle concessionarie di automobili, del settore immobiliare e dei grandi magazzini .

 

‘’Un patto faustiano’’

Il nemico più palese dei contenuti sponsorizzati è il direttore generale del Wall Street Journal  Gerard Baker , che ha recentemente denunciato questa pratica come un ‘’Patto Faustiano’’. Baker sostiene infatti che gli inserzionisti che scelgono i contenuti sponsorizzati siano miopi: E’ nell’ interesse di lungo termine dell’ inserzionista mantenere alta la propria reputazione come fornitore di un giornalismo onesto, e non come confezionatore di melassa mascherata da notizie.

 

Baker è ottimista sulle testate che riescono a resistere alle sirene dei contenuti sponsorizzati. Ma io non sarei così sicuro. Come ha recentemente riportato Newspaper Death Watch, le grandi Corporation non hanno mai avuto una tale influenza di quando hanno piegato gli editori. Esse possono realizzare dei propri siti web “informativi ” e “interessanti” per spingere i loro prodotti, come hanno fatto Coca- Cola e altri. (…) I siti costruiti sulla pubblicità, che nel gergo vengono chiamati brand journalism, sarebbero immuni dal tipo di controllo giuridico che la FTC spera di applicare ai siti di informazione che presentano contenuti sponsorizzati. Dopo tutto, se si carica coca-colacompany.com nella barra degli indirizzi, non si può accusare il titolare di fare della pubblicità ingannevole se tenta di convincerti a comprare una Coca-Cola .

 

Sulla base del Primo Emendamento, la FTC, nella sua politica legale, dovrà avere un atteggiamento più leggero nei confronti dei siti web di notizie e informazioni rispetto agli inserzionisti, i cui diritti alla libertà di parola commerciale sono enormi, ma non includono il diritto di ingannare. Il comportamento della FTC incoraggerà gli inserzionisti a passare attraverso dei siti propri, impedendo agli editori di trovare un modo per garantire un reciproco vantaggio sia dei lettori che degli inserzionisti? La simbiosi pubblicazione-lettore-pubblicità che ha funzionato così bene per tanti decenni ora si è rotta e la fuga verso i contenuti sponsorizzati segna un fallimento del tentativo di editori e inserzionisti di realizzare qualcosa del genere anche sul web. Forse l’ aumento del native ad è colpa mia perché non ho mai cliccato su un banner in vita mia!

 

Ma che sia o no colpa mia, non mi convince l’ idea che la FTC possa stabilire se una pagina con indicazioni incomplete su eventuali contenuti sponsorizzati costituisca pubblicità ingannevole mentre non lo sarebbe una ipotetica inserzione pubblicitaria su presunti poteri anti-cancro della Coca-Cola. Se la FTC  pretende il potere di decidere che cosa è pubblicità e che cosa è contenuto editoriale, chieda un mandato in questo senso al Congresso e la smetta con le sue minacce implicite. Forse, se la FTC lasciasse il Web tranquillo, editori e inserzionisti alla fine troverebbero un’ intesa sui contenuti sponsorizzati, rendendosi conto che sfumare le distinzioni danneggia entrambi: la credibilità di un editore soffre quando sembra che si stia vendendo agli inserzionisti, ma la reputazione di un inserzionista è in pericolo quando i lettori cominciano a credere che egli sia in qualche modo responsabile dei contenuti editoriali controversi del sito. E alla fine, se qualche editore web e qualche inserzionisti vogliono distruggere la propria posizione culturale, non è il caso che la FTC intervenga.

 

C’ è da dire comunque che sono soprattutto editori come Baker che stanno lanciando allarmi contro la minaccia dei contenuti sponsorizzati. Ho sentito poco cose del genere dal lato del business. E’ come  scrisse H.L. Mencken alla fine della sua carriera: “I codici etici del giornalista vanno bene fino a quando non minacciano i profitti dei giornali; quando questo accade, il manager che finora era stato tranquillo, inizierà a ringhiare di nuovo”.

(Shafer.Reuters@gmail.com).

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