Manning non è pentito per aver divulgato quel materiale e racconta che prima di contattare Wikileaks si era già rivolto ai media tradizionali, in particolare al New York Times e al Washington Post, ma senza ottenere risposta.
Secondo Matthew Ingram la vicenda fa emergere un aspetto molto importante per il mondo dell’ informazione: il valore di una realtà come Wikileaks per il mondo dei media e del giornalismo.
Il punto non è che al NYT e al WP abbiano fatto male il proprio lavoro di testate giornalistiche e di investigatori (le segnalazioni di Manning sarebbero arrivate come messaggi vocali, quindi di relativa attendibilità . Pensiamo al Corriere della Sera e a Repubblica, che invece hanno rifiutato addirittura la proposta di collaborazione di Wikileaks, già avviata con le principali testate del globo, salvo poi correre ai ripari dopo che il caso è scoppiato sulle prime pagine di mezzo mondo). Il punto è che Maning aveva una valida alternativa per diffondere quei documenti, è quella alternativa era Wikileaks, il primo media “apolide†del mondo, come lo ha descritto Jay Rosen.
Un media, quindi, che come tale dovrebbe essere tutelato dalle accuse di spionaggio e dalle campagne di boicottaggio, che hanno personalmente investito anche Assange (che l’America sta tentando di processare da qualche anno, passando dalle accuse di stupro a quelle, appunto, di spionaggio).
In proposito, Jeff Jervis si chiede in un tweet: oggi Manning sarebbe in carcere nel caso fosse stato il NYT a raccogliere la sua segnalazione e a pubblicare i documenti? E il Governo americano avrebbe riservato anche a un media tradizionale un attacco duro come quello sferrato a Wikileaks?
Wikileaks è anche un organo di informazione, e come tale va preservato.
Andrea Fama