L’ Atlantic, Scientology e l’ etica del giornalismo, la difficile strada dei contenuti sponsorizzati
Sul fronte della sostenibilità del giornalismo digitale si profila sempre più nettamente anche l’ opzione sponsored-content, quei contenuti che in Italia definiamo ‘’redazionali’’ e che negli Usa vengono chiamati ‘’advertorial’’. Ma il clamoroso infortunio capitato a The Atlantic (una testata storica, di forte tradizione progressista), che ha dovuto ritirare, dopo poche ore e un diluvio di critiche,  un ampio articolo a pagamento di  Scientology, ha mostrato come questa strada sia complessa e scivolosa. Almeno se si vuole rispettare ancora l’ etica del giornalismo professionale.
Una riflessione specifica su questo problema è al centro di ‘’What the sponsored-content business can learn from Scientology’’, un articolo su NiemanLab di Shane Snow, giornalista esperto di tecnologia, imprenditore web, co-fondatore di Contently, una società che si occupa proprio di sponsored-content.
Snow ritiene che a tutti i marchi, anche quelli più controversi, dovrebbe essere assicurata la possibilità di pubblicare materiali sponsorizzati con lo  stesso standard editoriale. Ma – avverte – i brand devono imparare, come già hanno fatto le aziende editrici, ‘’che cosa i lettori vogliono e come dar loro ciò in maniera eticamente accettabile’’.
Ecco una sintesi delle sue osservazioni.
What the sponsored-content business can learn from Scientology
di Shane Snow
Fino a questo momento, l’ industria emergente dei contenuti sponsorizzati – piuttosto redditizia se confrontata al declino del settore dei banner – è stata in generale molto attenta a misurare bene l’ impatto che quei contenuti potevano avere all’ interno delle reti sociali. Generalmente il branded content si è dedicato a presentare gallerie di foto di gatti o storie di interesse umano che evitavano di far riferimento diretto allo sponsor, ma affrontando comunque argomenti di cui lo sponsor si occupa. Nel peggiore dei casi erano post sui blog aziendali su cui russare un po’. Ma se arriva un marchio che crea una grandissima polarizzazione fra la gente, come può essere Scientology (oppure  la National Rifle Association, la lobby delle armi, o Planned Parenthood, filoabortista),  le antenne ipersensibili di Internet si drizzano, come accade  per tutto quello che elettrizza.
Analizzare un caso estremo come questo consente di individuare le fratture a cui gli editori e le aziende sponsor devono stare attenti quando cresce la marea del branded content.
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Un racconto esemplare
Nella bufera su Scientology, la gente è scattata per due motivi. Primo per lo schock di vedere quella roba, e per il fatto che, dando un’ occhiata all’ articolo, ci si accorge che in realtà esso era stato prodotto dalla Chiesa e non da un giornalista di Atlantic. E’ anche un problema di grafica. Anche se la testata spiega che si tratta di materiale ‘’sponsorizzato’’ sia in testa che alla fine dell’ articolo, spesso è facile non accorgersi dell’ avvertenza fino al termine del servizio. E in effetti la manchette ‘’Sponsor content’’, è a caratteri più piccoli di quelli del titolo.
Nella maggior parte dei casi, l’ intensità dello shock nello scoprire che quel ‘’post è stato sponsorizzato” è minimo, se esiste affatto. Ma, ovviamente, più controverso è lo sponsor – e più la storia puzza di pubblicità -, più dura è la scossa.
Il secondo motivo sta nella distanza critica. Un articolo di BuzzFeed sui vestiti più costosi, in cui si vede che lo sponsor è il programma televisivo “Suits”, suscita nel peggiore dei casi uno sbuffo, ma forse, più probabilmente,  un “Oh, ganzo’’. Ma questo succede perché l’ argomento interessa in qualche modo anche al lettore oltre che all’ azienda. Certo, l’ articolo sugli Otto abiti più cari nel mondo riguarda le giacche e non tanto chi le propone, per cui in questo caso i lettori sono in qualche modo soddisfatti: hanno ottenuto qualcosa che li interessa.
Spark, una rivista digitale che fa capo a Qualcomm, pubblica ad esempio servizi su dispositivi mobili, gadget, futurismo, scienza e tecnologie del futuro, punta ad avere un pubblico interessato a questi argomenti, ma non fa pubblicità apertamente ai suoi chip. ‘’Il pubblico legge e condivide i servizi, apprezzando l’ azienda per aver dato  i contenuti che vuole’’.
La maggior parte dei contenuti che le aziende sponsorizzano su The Atlantic passa attraverso un filtro editoriale molto stretto, per garantire la qualità e ridurre al minimo le sorprese. Il servizio di Scientology, per qualche motivo, ha superato le barriere delle buone pratiche e la gente è schizzata e si è ribellata.
Il principio che deve stare dietro ogni buon contenuto – sponsorizzato o no – è mantenere la fiducia dei lettori.
Come Scientology avrebbe potuto fare
Pur essendo una organizzazione controversa, la Chiesa di Scientology avrebbe potuto tranquillamente sponsorizzare dei contenuti che non offendono i lettori, rafforzando anzi la sua reputazione fra di essi. Se, per esempio, avesse sponsorizzato degli articoli sulla felicità ? O sull’ urgenza di aiuti umanitari in Africa? O sulle vite dei grandi liberi pensatori della storia dell’ umanità ? Questi sono i valori in cui Scientology crede, e non c’ è bisogno di discutere sulla Chiesa o sui suoi membri. Per esempio, anche un articolo su HuffPo su “Le venti persone che non sapevate appartenere a Scientology” non sarebbe stato inquietante. Ognuno di questi articoli avrebbe potuto aiutare gli sforzi di fare branding e lasciare ai lettori decidere da soli che cosa pensano di Scientology. Senza trucchi.
Il pubblico si sarebbe ribellato se Atlantic avesse dato voce ai dolci di Jell-O? Probabilmente no. Il doppio standard non va. Secondo me a tutti dovrebbe essere assicurato uno standard editoriale elevato, anche ai marchi più controversi. Ma poiché i contenuti sponsorizzati continueranno a crescere dal momento che sono un modello promettente di risorsa per i media, alcuni avranno bisogno, naturalmente, di muoversi un po’ più lievemente rispetto agli altri.
Sono convinto che i contenuti sponsorizzati diventeranno un componente fissa del cocktail economico che potrebbe ‘’salvare i media’’, ma i brand devono imparare, come già hanno fatto le aziende editrici, che cosa i lettori vogliono e come dar loro ciò in maniera eticamente accettabile.