Se i giornalisti possono lavorare dovunque, se diventano essi stessi dei media con il loro proprio brand, se possono riunirsi in gruppi di lavoro, in redazioni temporanee a seconda delle esigenze dell’ attualità , non sarebbe meglio dirottare gli aiuti alla stampa direttamente a loro? Lo propone  Jacques Rosselin su HuffingtonPost.fr, spiegando che i contributi versati dallo Stato alle aziende editoriali francesi (5 mld di euro in 3 anni) non hanno dato nessun risultato apprezzabile, sia dal punto di vista dei lettori, che continuano a disertare, sia da quello dei giornalisti, che continuano ad essere licenziati, stato di crisi dopo stato di crisi.
Rousselin suggerisce l’ idea di un reddito minimo garantito per i giornalisti . ‘’ I cittadini di un paese democratico – dice – hanno bisogno di informazione, e quindi di giornalisti. Di quanti? (…) Qualunque sia il loro numero, siccome la pubblicità , gli abbonamenti online o il prezzo di vendita della carta non riescono più a remunerarli oggi, e poiché queste difficoltà li rendono dipendenti da attori economici i cui obbiettivi non hanno niente a che vedere con la difesa della democrazia, la collettività deve farsi carico di questo problema’’. Lo deve fare in ogni caso, ‘’al di là se la risposta sarà quella di un reddito minino o meno’’Â
Distribuons l’aide à la presse directement aux journalistes!
di Jacques Rosselin*
E se i contributi alla stampa in Francia venissero dirottati dagli editori ai giornalisti?
L’ idea può sembrare incongrua, ma nonostante questo si impone in modo quasi naturale se si riflette sull’ avvenire dell’ informazione in una democrazia.
La prima constatazione è che l’ informazione scritta di qualità , sia essa politica, economica o ‘’generalista’’, non ha più un modello economico sostenibile nella sfera del mercato. La produzione di una informazione di qualità costa cara e, dopo l’ invenzione della pubblicità nei giornali, i suoi consumatori non l’ hanno mai pagata realmente per quello che vale e non sono certo disponibili a farlo ora. I ricavi legati alla diffusione di questo tipo di informazione sono destinati a crescere con l’ aumento del numero di lettori che utilizzano supporti digitali, ma non compenseranno mai il crollo dei ricavi pubblicitari. Per i dirigenti dei media la sola soluzione sembra essere invariabilmente quella di abbassare i costi di produzione, e quindi tagliare le redazioni, scivolando un altro po’ più in basso nella spirale del calo della qualità .
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Seconda osservazione: nei media scritti le redazioni non esistono più, per lo meno nel senso collettivo del termine. Sono state sostituite da aggregati di individualità che producono informazione in maniera indipendente, con la direzione della testata che svolge ormai il ruolo di arbitri o di giudici di gara. Il fantasma di un gruppo di giornalisti stretti dietro il loro carismatico redattore capo, che tremano all’ avvicinarsi della riunione di redazione, se ancora persiste nella mente di qualche nostalgico si è però fracassato sulla Rete. I giornalisti hanno aperto dei blog, hanno cominciato a tenere attentamente sotto controllo il loro punteggio su Google Analytics, hanno scoperto che potevano diventare dei brand, essere letti per loro stessi da coppie di occhi ben più numerose che sulla carta… insomma hanno capito che potevano diventare loro stessi dei media, al posto di quello che dà loro da vivere.
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Terza evoluzione, Internet ha fortemente modificato i loro metodi di lavoro. Ha aperto delle brecce nei santuari delle redazioni. Alcuni hanno cominciato timidamente a defilarsi per lavorare all’ esterno: specialisti, blogger, confratelli e lettori sono ormai in contatto costante con i giornalisti sulle reti sociali, nutrono le loro riflessioni e arricchiscono il loro lavoro. A questa apertura delle redazioni (le ‘’open newsrooms’’ in inglese) corrisponde sull’ altro versante l’ apertura delle istituzioni e delle imprese, contente di mettere a disposizione del pubblico un numero crescente di dati. E per trattare questi ‘’open data’’, il giornalista avvertito deve, ancora una volta, appoggiarsi su delle competenze esterne: grafici, statistici, sviluppatori…
E così la redazione di un giornale diventa una specie di co-working space, come si dice in gergo, uno spazio comune di lavoro in cui si può eventualmente accedere a un computer (ma ci si può anche portare dietro il proprio) e vedere persone che fanno il tuo stesso mestiere. Ma il grosso degli scambi, della produzione e della co-produzione, della diffusione e dello scambio con i lettori si è trasferita sulla Rete. La vita sociale e il lavoro di équipe sono volate ‘’sulla nuvola’’…
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Un reddito minimo per i giornalisti
Ma allora, se i giornalisti possono lavorare dovunque, se diventano essi stessi dei media con il loro proprio brand, se possono riunirsi in gruppi di lavoro, in redazioni temporanee a seconda delle esigenze dell’ attualità , a che servono i media tradizionali se non ad ospitarli e a remunerarli? A questa domanda ne segue una seconda, ancora più angosciante: se i giornalisti diventano media, non è proprio a loro che bisognerebbe versare i miliardi di aiuti alla stampa? Una manna particolarmente controversa perché, diciamolo, i 5 miliardi versati in 3 anni alle aziende editoriali francesi non hanno dato nessun risultato sbalorditivo, sia dal punto di vista dei lettori, che continuano a disertare, sia da quello dei giornalisti, che continuano ad essere licenziati, stato di crisi dopo stato di crisi.
Utopista? Comunista? Statalista? Bisogna certo riflettere sulle modalità di attribuzione di questo reddito minimo (come è stato fatto per gli agricoltori per salvare i nostri prodotti e i nostri paesaggi). Bisogna anche dare un po’ d’ aria a questa professione, spesso considerata corporativa, aprendola a dei nuovi produttori di informazione di qualità come ad esempio i blogger, i traduttori o anche gli sviluppatori, in pratica a tutti quelli che partecipano direttamente alla produzione dell’ informazione generalista.
Per tutti il versamento di un reddito minimo sarebbe una rivoluzione: li renderebbe all’ improvviso indipendenti dal loro supporto di diffusione. Potrebbero, in piena libertà , lavorare mesi su una inchiesta e proporla agli editori a cui essa potrebbe interessare, guadagnando anche un supplemento di reddito. L’ assicurazione di questo reddito minimo permetterebbe ai giornalisti, distaccati dai loro media, di formare dei gruppi di lavoro, per affinità e competenze, per realizzare delle inchieste e di proporle a un editore di loro scelta.
Può sembrare una soluzione troppo radicale. Ma essa prende atto dell’ impasse pericoloso in cui si trova l’ informazione di base oggi. Essa è già oggi vittima del fallimento dei vecchi supporti, in gravi difficoltà economiche, e del miserabilismo o dell’ amatorialismo della stragrande maggioranza dei nuovi, tanto sul piano economico che su quello editoriale.
I cittadini di un paese democratico hanno bisogno di informazione, e quindi di giornalisti. Di quanti? Sarebbe interessante definire la soglia critica di giornalisti per abitante, come si fa per i medici. Ma qualunque sia il loro numero, siccome la pubblicità , gli abbonamenti online o il prezzo di vendita della carta non riescono più a remunerarli oggi, e poiché queste difficoltà li rendono dipendenti da attori economici i cui obbiettivi non hanno niente a che vedere con la difesa della democrazia, la collettività deve farsi carico di questo problema. Al di là se la risposta sarà quella di un reddito minino o meno.
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* Jacques Rosselin si definisce come un “ingegnere dei media”. Co-fondatore del Courrier International ed ex direttore de La Tribune.
** L’ articolo ha per ora 34 commenti. Fra di essi segnaliamo questo:
– Poiché è assurda la distribuzione a fondo perduto di 1,6 miliardi di euro a organi di informazione mantenuti in vita attraverso la respirazione artificiale (anche quando sono portavoce di gruppi finanziariamente solidi), la proposta è lungi dall’ essere insensata. Anche se sarebbe complicato trovare delle modalità di applicazione semplici.
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