‘’La nostra operazione è un po’ diversa dall’idea di avere giornalisti che scrivono gratis per noi. Il progetto è quello di chiedere a giovani professionisti (ma non della comunicazione o del giornalismo) di raccontare il loro punto di vista sull’ innovazione’’.
Federico Ferrazza, vicedirettore dell’ edizione italiana di Wired e responsabile della sezione online del magazine, replica alle accuse contenute in alcuni commenti a una nostra notizia sul progetto della rivista di aprire le proprie pagine ai blogger per ‘’costruire la più giovane (e forte) squadra di innovatori d’Italia’’.
Dice ancora Ferrazza:
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In sostanza  cerchiamo scienziati, esperti di new media, ingegneri, designer (e così via) che abbiano voglia di descrivere quello che studiano e fanno per lavoro. In quel bacino lì – che (…) per esperienza non ci porterà molto traffico, quindi denaro – proviamo a raccontare un mondo che una normale redazione con dei collaboratori non riuscirebbe a coprire.
Dopodiché il core di wired.it (cioè gli articoli che pubblichiamo ogni giorno e ai quali la redazione dedica tutto il suo tempo) viene pagato e non abbiamo intenzione di cambiare la moneta della nostra retribuzione, dai soldi alla visibilità .
Rimando solo al mittente la critica di chi ci dice: “con la visibilità non ci paghiamo le bollette”. Lo so benissimo anch’ io, sono stato un collaboratore per anni.  Per questo chiedo a chi abbia voglia di scrivere su Wired di mandarci una mail, analizzeremo le proposte e se le riterremo valide commissioneremo il pezzo. A pagamento.
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In uno dei commenti alla nostra notizia, una lettrice, Sonia, Â aveva replicato a una dichiarazione analoga, ma anonima, della rivista:
Insomma fare i blogger non è un vero lavoro. I giornalisti lavorano, i blogger allora a cosa vi servono? Cercate questi talenti e intervistateli, no? Con tutto il rispetto credo che per voi l’importante resti fare contenuto, più contenuto possibile, perché per come è strutturato il Web, non si distinguono mica i giornalisti dai blogger e fare traffico resta comunque un lavoro da blogger. Io vi auguro che l’iniziativa funzioni e abbia successo, ma non credo che in un altro paese, con un maggiore rispetto del lavoro altrui, questo potrebbe accadere.
In realtà non è così. Tanto che i sindacati americani avevano lanciato una campagna per  equi compensi a blogger e freelance online, dopo che, al momento del passaggio di HuffPost ad Aol, i blogger dell’ Arianna avevano protestato chiedendo anche soldi per il loro lavoro (e non solo ‘’visibilità ’’). E in Francia i blogger si erano rivoltati contro la cosiddetta ‘economia della gratitudine’.
In Italia la questione è già stata al centro di varie polemiche, anche a proposito dei blogger del ‘’Fatto quotidiano’’(qui un articolo di Carlo Gubitosa).
Qui la questione diventa più complessa, perché si fa riferimento a contenuti di tipo non giornalistico, prodotti volontariamente e sulla base di patti chiari.
Che ne pensate?