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Abbracci, baci e carezze: forze dell’ordine, dimostranti e media nei conflitti di piazza

Le immagini di alcuni momenti degli scontri fra polizia e manifestanti in Italia è lo spunto da cui parte  Ulrike Lune Riboni per sviluppare – su Culture Visuelle -  un’analisi sulle letture ideologiche che portano quelle foto. In particolare, dell’ uso per molti versi ‘pacificatorio’ e anticonflittuale che i media fanno di quelle foto, costruendo dei racconti forzati, che in qualche caso gli autori o i protagonisti di quegli scatti sono riusciti a sbugiardare. 

 

Riboni parte dalla foto di un giovane che copre col proprio corpo una ragazza per difenderla da eventuali calci di un agente.  

         

                     

 

 L’étreinte, le baiser et la caresse

di Ulrike Lune Riboni  (da Culture Visuelle)

Atto primo: l’abbraccio

Qualche settimana fa, una foto scattata a Roma durante il corteo del 12 aprile, scatenava decine di articoli e commenti tra stampa e social network italiani.

La foto è molto ben costruita perché lascia apparire la minaccia potenziale – incarnata da quella gamba pesantemente attrezzata – in primo piano e al centro, e crea un contrasto efficace con la mano che appare minuscola. Molti giornali fecero i titoli sull’ “abbraccio per proteggere la ragazza’’ e si emozionarono di questo gesto amoroso ed eroico, raggiungendo, nel caso de La Repubblica un registro quasi lirico:

« E in mezzo ai volti coperti dai passamontagna neri e ai caschi con la visiera dei celerini, ai manganelli e alle fionde, al fumo e alle pietre, alle scene sempre uguali degli scontri di piazza, rigurgiti di rabbia senza sbocco, fotogrammi già visti e già vecchi, che rimbalzano freneticamente in testa ai giornali online per qualche ora, per spegnersi nella cenere già fredda dei titoli di stamattina, all’improvviso compaiono loro. Hanno il volto scoperto, innanzitutto. Non erano lì a cercare la rissa, lo scontro. Ci sono finiti in mezzo. Giovanissimi. Un ragazzo e una ragazza, sdraiati a terra, stretti come amanti lui sopra di lei, la copre, le fa da scudo. «Ti proteggerò dalle paure… dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo»: non riesco a pensare che alla Cura di Franco Battiato, guardando gli occhi semichiusi di quel ragazzo sconosciuto con la testa insanguinata. Dopo migliaia di ascolti, eccola lì, nella tenerezza infinita con cui il suo braccio glabro si chiude intorno a lei, per proteggerla. »

Qualche giorno dopo, la diffusione di un video della scena e di una seconda fotografia scattata dalla stessa reporter, Yara Nardi, rivelò pero un contesto ben più agghiacciante: la violenza del gesto di un celerino contro la ragazza già a terra.

 

 

Molti giornali sono stati quindi accusati di un romanticismo fuori luogo e la stessa fotografa reagirà tramite la stampa per denunciare il teatrino mediatico:

 

‘’Il modo in cui la stampa ha ripreso e ‘ri-raccontato’ quell’immagine non mi è piaciuto. Al di là delle mie idee personali sui fatti mi infastidisce che il fotoreporter non è nemmeno stato preso in considerazione. Ero in piazza. Perché prima di scrivere una storia su quelle foto nessuno si è preoccupato di alzare il telefono e chiedermi com’è andata veramente? Non lo dico per egocentrismo. Sono convinta che alcune immagini siano bene comune e sono contenta se vengono riprese e diventano il simbolo della giornata. Ma le strumentalizzazioni non mi piacciono. Non stiamo parlando di una soap-opera, è cronaca“.

 

Ma mentre il dibattito si concentrava sull’ inchiesta contro il poliziotto per violenza privata, un sussulto imprevisto ha allontanato maggiormente l’immagine dal suo primo ‘’racconto’’ mediatico. Un nuovo video e delle nuove foto  rivelano che il ragazzo non era là ‘’per caso’’ e che partecipava agli scontri. Tanto che era stato immortalato mentre lanciava degli oggetti contro la Celere qualche minuto prima della carica. Da vittima e protettore, eccolo diventato aggressore…

 

Atto secondo, il bacio.

 

Queste foto, anche se non costituiscono un genere a sé stante, si iscrivono comunque in una genealogia di immagini di cui i media sono “ghiotti”, quella dell’ abbraccio amoroso nel mezzo del caos. Ricorderete certamente la foto qui sotto, battezzata ‘’il bacio di Vancouver’’, che aveva emozionato la stampa internazionalmente, in un registro analogo a quello precedente.

 

 

Ma nel contesto italiano, queste immagini della coppia di Roma evocano piuttosto l’entusiasmo mediatico che aveva accompagnato la diffusione qualche mese fa della fotografia di una ragazza che baciava il casco di un poliziotto durante una manifestazione contro la TAV. (…)

 

 

La Stampa è stata una delle prime testate a pubblicarla, il 17 novembre. E la didascalia diceva: “Il casco del poliziotto tra le mani, occhi chiusi, e la ragazza No Tav sorprende l’agente con un bacio“. L’ articolo non dice niente del contesto (il riferimento alla ‘’manifestazione di ieri’’ è sfuggente), ma descrive la fotografia, in un registro del tutto simile ai precedenti:

 

È come se calasse il silenzio, fra i clangori di un corteo, i volti d’ira e le paure. Il bacio è silenzio. Lei è una brunetta, un volto da francesina, una disadorna frangetta di capelli, gli occhiali, un orecchino punk, le mani sottili con cui accarezza il casco dell’agente di polizia, che bacia sporgendo le labbra.  

Lui ha un volto tenero, e socchiude gli occhi ancor più teneramente, come se credesse davvero a quel bacio. Anche noi ci crediamo. La manifestazione No Tav di ieri, lo spavento e la paura, vorremmo racchiuderla in questa immagine’’

E ancora:

 

Le foto non hanno rumori. E non ci sono rumori, in quel bacio, non ci sono urla, non ci sono insulti, non c’è rabbia, non c’è nient’altro che questo respiro, come in tutti i baci del mondo, che sono segni di pace, non solo di amore’’.

 

L’ articolo della Stampa, come altri successivamente, si basa d’altronde su una genealogia visuale destinata a  legittimarne il proposito. ‘’Ci sono immagini che fanno storia’’, dice l’ autore, Pierangelo Sapegno, sperando che essa possa essere una futura immagine-icona, come le fotografie di Bernie Boston e di Marc Riboud, che vengono espressamente citate.
Così, la delusione è stata grande (come mostrano  i commenti online), quando l’autrice del gesto descrisse in questi termini il suo vero senso:

 

“E’ sempre molto divertente vedere come vengono reinterpretate le foto. La ragazza in questione sono io, e se vi interessa, non avevo nessuna voglia di manganello, nessuna pulsione frustrata, stavo pigliando per il c… una schiera di poliziotti antisommossa, che ci impedivano la strada. Nessun messaggio di pace, anzi, questi schifosi li appenderei solo a testa in giù, dopo quello che è successo a Marta, compagna molestata e picchiata. Quindi, con buona pace dei pacifisti yuppie e ‘cristianotti’, sì, sono contraria alle forze dell’ordine, sì lo stavo sfottendo alla grande, sì, il fotografo è stato fortunato…”.

 

In vari giornali, fra cui La Stampa, la descrizione di una ragazza pacifista portatrice di riconciliazione si capovolse ben presto in quella di una irrispettosa provocatrice, erede della volgarità di una Miley Cyrus (?!). Nello stesso tempo una seconda fotografia si impose, scattata qualche secondo dopo, dove il bacio affettuoso viene sostituito da un gesto più intrusivo e forse meno carico di ambiguità:

 

 

La vicenda finisce qualche settimana dopo con una inverosimile denuncia depositata contro la ragazza da un sindacato di polizia per oltraggio e… violenza sessuale.

 

Appena qualche settimana dopo un nuovo episodio dalla stessa portata simbolica era al centro del dibattito. Si tratta di diversi video realizzati dai manifestanti, che mostrano i poliziotti mentre si tolgono il casco durante un corteo dei cosiddetti “Forconi”.
Il video non è la foto, contiene del suono e consente una visuale del contesto più ampia, mentre il gesto non viene immobilizzato. Il numero di elementi soggetti ad interpretazione viene così demoltiplicato rispetto alla fotografia.
Quella che dovrebbe essere una garanzia di obbiettività fa paradossalmente del video un materiale più malleabile e più soggetto alle interpretazioni contraddittorie(1).  Così i manifestanti, un sindacato di polizia e Beppe Grillo potranno affermare che gli agenti si erano tolto il casco in segno di solidarietà con i manifestanti. Nei video d’ altronde si sentono questi ultimi applaudire e gridare ‘’Voi siete come noi!’’, ‘’Tutti celerini’’, ‘’Tutti uniti!’’ e, ancora, ‘’Viva l’ Italia’’. La prefettura invece affermerà che il gesto era stato dettato unicamente dal calo del clima di tensione e che non era stata espressa alcuna solidarietà (2).

 

Intanto, Le Monde pubblicherà i video – o, meglio, un montaggio di alcuni spezzoni — qualche giorno dopo con un titolo che non soffre più ambiguità: « Italie : des policiers enlèvent leur casque en solidarité avec les manifestants » (‘’Italia: poliziotti si tolgono il casco in solidarietà con i dimostranti’’). Le Monde disdegnerà cosi il dibattito sorto intorno a quel gesto. L’idea è troppo bella.

 

Atto terzo, la carezza.

 

Nel contesto italiano, la questione della fraternizzazione tra manifestanti e forze dell’ordine non è certo roba da poco. Le varie vicende di violenza poliziesca (l’ affare della Scuola Diaz a Genova nel 2001, ad esempio) e di abusi che hanno portato alla morte di ragazzi (Carlo Giuliani nel 2001,  Federico Aldrovandi nel 2005…) alimentano un clima poco propizio alla ‘’riconciliazione’’.
Solo qualche settimana fa, dei poliziotti (del Sap, ndr) avevano applaudito dei loro colleghi condannati per omicidio (quello di Federico Aldrovandi) creando rabia e imbarazzo fra i cittadini e la classe politica.
Il sogno di questo ‘’amore impossibile’’ è quindi tanto più alimentato dai giornali e fino al grande schermo, essendo stato portato al cinema dal film di Michele Placido ‘’Il grande sogno’’, in cui il protagonista è un poliziotto che si innamora di una rivoluzionaria… Ma questa fraternizzazione sognata implica delle distinzioni.

 

Un’ altra immagine, chiamata ‘’la carezza del celerino alla ragazza’’ scattata nell’ ottobre 2011, aveva già dato luogo alla stessa speranza di ‘’riconciliazione’’, in un registro identico a quello che ha accompagnato le due fotografie precedenti.

 


Una giornalista (Maria Novella De Luca, ndr)  scriveva cosi su La Repubblica :

 

 ‘’Piazza San Giovanni brucia, è il pomeriggio di due giorni fa: la ragazza e il poliziotto si guardano, parlano, sembrano capirsi. È un attimo, un “secondo rubato” come ha scritto qualcuno su Facebook, uno spicchio di pace in un giorno di guerra. Sono vicini, quasi volessero superare un checkpoint invisibile lei fa parte del gruppo dei pacifisti, lui le appoggia paterno una mano sulla spalla, con un gesto che assomiglia ad una carezza: non siamo nemici, non doveva andare così’’.

La fotografia compare in questo articolo come un pretesto per stabilire una distinzione fra dei ‘’manifestanti pacifici’’ e dei ‘’neri (anarchici) con gli zaini pieni di sbarre di ferro’’. Allo stesso modo, il precedente articolo sulla coppia di Roma insisteva sul fatto che quei due non fossero cercando il conflitto. In effetti, quello che si trova spesso in gioco nelle manifestazioni contemporanee, soprattutto in Italia, è proprio una possibile distinzione fra manifestanti ‘’buoni’’ e cattivi ’black blok’’, una distinzione che spesso i partecipanti contestano.

 

***

Il giornalista della Stampa conclude il suo articolo affermando che “La politica ha sempre la sua retorica. Però questa immagine è senza parole. È questo il suo bello.”  Ma se l’ immagine è muta in origine, non circola ‘’senza parole’’. La sua esistenza su carta e online dipende da un contesto, da un ambiente testuale. A cominciare dalla descrizione che il giornalista ne fa, dalla didascalia che le viene assegnata, e infine dal senso che le viene attribuito. Gli articoli della Stampa o della Repubblica ci ricordano quindi che la costruzione di una immagine non è solo frutto di una inquadratura e dell’immobilità imposta al movimento, ma anche del discorso che la accompagna. Se l’immagine mente, non mente da sola.
“Questa immagine che cosa dovrebbe rappresentare?!” si chiederà un militante a proposito della foto del poliziotto e della ragazza della manifestazione NO TAV. “Niente” concluderà (3).  Ma è proprio quella la domanda giusta: che cosa rappresentano queste immagini? Non si tratta di sapere cosa mostrano, ma cosa illustrano, cosa cristallizzano, cosa rappresentano per coloro che le guardano e le descrivono. La Stampa riassume bene alla fine il suo pensiero con questa frase: “Anche noi ci crediamo “. L’ immagine rappresenta quello che vorremmo credere, quello che vorremmo vederci.
Oppure, forse, quello che dovremmo vederci. Così, i protagonisti di queste fotografie hanno rivelato di non corrispondere al racconto mediatico che li aveva descritti come eroi, e questi racconti sono stati contestati nei due casi non soltanto da elementi complementari (altre foto o video), ma dall’autrice e dalla stessa protagonista. Una denuncerà il fatto che la sua foto sia  stata ‘’ri-raccontata’’, l’altra che sia stata ‘’re-interpretata”(4). Ma non è tanto l’immagine ad essere stata ‘’reinterpretata’’, quanto la situazione che si riteneva raccontasse. I racconti mediatici che hanno accompagnato queste fotografie sono rivelatori di una volontà di escludere le azioni contestatrici che non scelgono l’ espressione pacifica e in generale di negare del tutto la conflittualità. I racconti di riconciliazione dei ‘’nemici’’ o di unione degli amanti nel mezzo del caos non dicono in effetti altro che ‘’fate l’amore non le manifestazioni’’.
Quello che tali controversie designano è il potere (reale o presunto) di quelle rappresentazioni. La questione della ‘’fraternizzazione’’ fra manifestanti e forze dell’ ordine esiste da tanto quanto le manifestazioni e non conosce frontiere. I recenti movimenti sociali e rivoluzioni nei paesi arabi avranno cosi dato luogo ugualmente a numerose immagini simboliche o considerate come tali.

 

La persistenza di queste immagini nelle rappresentazioni commemorative (ecco qui sotto una cartolina) è d’ altronde significativa e prefigura degli orientamenti politici che condizioneranno la scrittura della Storia nazionale.

 

 

E’ un’ altra guerra delle immagini: non si tratta più di provare la violenza dell’ uno o dell’ altro dei due campi, ma di dimostrare, a seconda dei casi, che lo stesso apparato dello stato sostiene le rivendicazioni, oppure che i manifestanti, avendo abbandonato la conflittualità, riconoscono l’autorità della polizia o dei militari. Ma questa “guerra” si attua oltre le situazioni di contestazione come ha potuto dimostrare la –fallimentare– campagna promozionale della polizia di New York che invitava gli abitanti a mostrare il loro affetto per la polizia fotografandosi in compagnia degli agenti. E alla fine, è il posto assegnato a queste istituzioni – polizia, esercito, considerati come garanti dell’ integrità dello Stato – rispetto ai cittadini ad essere in gioco qui.

 

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1. L ’ analisi qui è tanto  più complessa in quanto si tratta di varie situazioni filmate da diversi operatori. Secondo la maggior parte dei media, la situazione si sarebbe riprodotta a Torino, Milano e Rho, ma mi pare che due video attribuiti uno a Rho (periferia di Milano) e l’ altro a Milano siano due punti di vista diversi della stessa situazione. Quini ho individuato quattro video. E cioè: uno a Torino in Piazza Castello (https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=Y1cWWnvWqrU) ; un altro sempre a Torino alla stazione di Porta Susa (http://youmedia.fanpage.it/video/aa/UqW7-OSw3zxkHK1E) ; e due sull’autostrada Rho-Milano (http://www.youreporter.itvideo_Rho_poliziotti_si_tolgono_i_caschi_e_ci_accompagnano e http://www.today.it/video/poliziotti-tolgono-casco-milano-rho-forconi.html).
 
2. Cosa dovrebbe rappresentare questa immagine?! Nulla“. Lele, Cpl di Bussoleno
3. Senza cercare di rispondere alla domanda se sì si trattava di un gesto di solidarietà o meno, si può prestare attenzione ad altri elementi, al di là di quello che è al centro dell’ attenzione, ovvero il momento in cui i poliziotti si tolgono il casco. Si può cosi osservare che i poliziotti conservano il passamontagna o si rimettono i berretti e si guardano bene dal mischiarsi alla folla, salve forse a Rho, dove la situazione sembrava più ambigua. Se quindi hanno tolto la ‘’maschera’’ che li distingue dai loro concittadini a viso scoperto, hanno però conservato i loro attributi e il loro posto.
4.La domanda della fotografa: ‘’Perché prima di scrivere una storia su quelle foto nessuno si è preoccupato di alzare il telefono e chiedermi com’è andata veramente?“ è per molti versi sorprendente. Capiterà mai che un fotoreporter sia interrogato su una immagine che ha prodotto?

 

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