Per chi non lo sapesse, la forma contrattuale intesa come articolo 1 del contratto nazionale di lavoro giornalistico è quella più sicura, oltreché più retribuita, poiché prevede* che la tutela legale del giornalista sia a totale carico del giornale per cui lavora.
Spiega la Bacchiddu a Lsdi che dopo la pubblicazione dell’articolo non ha ricevuto nessuna richiesta di rettifica né è stata fatta alcuna smentita da parte degli interessati. Eppure qualche giorno fa, a distanza di due anni da quella pubblicazione, le è arrivata una citazione in giudizio, mentre la posizione dell’allora direttore del giornale, Jacopo Tondelli, è invece stata archiviata. Il motivo di tale archiviazione risiede in quello che in giurisprudenza viene chiamato “malam partemâ€: cioè, le leggi che vigono per la carta stampata non valgono per la stampa online motivo per cui il direttore è stato sollevato dall’ omesso controllo (ex art. 57 codice penale).
La sentenza della Corte di Cassazione n. 35511, del 16 luglio 2010 e depositata il 1 ottobre 2010 ha sancito che il direttore di un giornale on line non è responsabile dei contenuti diffamatori pubblicati sul sito, perché la sua figura non è equiparabile a quella del direttore responsabile di un periodico cartaceo, come previsto dalla legge sulla stampa n.47 del 1948. Il reato di omesso controllo previsto dall’articolo 57 del codice penale non vale quindi per direttori dei giornali sul web: la logica seguita dai giudici si basa sul principio della tassatività della legge penale, per il quale un fatto è reato solo le la legge lo definisce espressamente come tale».
L’avvocato della Bacchiddu parla di «vuoto normativo», a causa del quale il giudice può interpretare la norma a seconda del caso singolo. In sostanza, quindi, la giornalista è stata rinviata a giudizio come una cittadina qualunque che ha scritto online, e non come una giornalista che esercita il diritto di cronaca. Tanto più che il capo d’imputazione non solo è la diffamazione, ma ha addirittura l’aggravante di «aver fatto uso di mezzo di pubblicità », laddove per “mezzo di pubblicità †si intende latestata giornalistica regolarmente registrata al Tribunale di Milano.
A questo punto si aprono due scenari: quello civile e quello penale. Nel primo Linkiestapotrebbe essere chiamata a pagare una sanzione pecuniaria nel caso di condanna. Ben più preoccupante quello penale, che stando così le cose, ricadrebbe interamente sulla Bacchiddu. Per la diffamazione pubblica a mezzo pubblicità  o stampa, lapena è della reclusione da sei mesi a tre anni o una multa non inferiore a euro 516.
Rincara Paola Bacchiddu: «che sia una diffamazione a mezzo stampa o con mezzo pubblicitario, la pena è la stessa, ma per me si tratta di una questione dirimente: credo che nel giudizio finale si debba considerare il fatto che si stia esercitando il diritto di cronaca nell’ambito della propria professione e che non si tratta di una questione marginale».
Su questa vicenda si possono sviluppare diverse osservazioni. Se partiamo da una condizione di parità tra due testate regolarmente registrate, dobbiamo necessariamente ammettere che nel 2014 carta e web hanno non solo la stessa autorevolezza ma anche lo stesso peso. Questo, anche se nella testa di molti ancora andare in pagina sul cartaceo valga molto di più che andare online. Rassegnamoci, non è così: una testata deve avere, ad oggi, gli stessi diritti e doveri a prescindere dalla piattaforma.
Altrimenti si attua una discriminazione che si ripercuote penalmente solo sul giornalista.
A ciò si lega una seconda fondamentale questione: poiché web e carta devono avere lo stesso peso, ecco che diventa innegabile la necessità di adattare la legislazione in materia ai tempi che corrono: tanto per essere chiari, una legge del 1963 non può in alcun modo valere oggi, a 51 anni di distanza.
Allo stesso modo, la legge sul reato di diffamazione deve tenere conto di quanto la professione sia cambiata, anche considerando che ormai vi sono oltre 25mila precari su un totale di 55mila giornalisti attivi (112mila sono gli iscritti ad entrambi gli albi: accettiamo il fatto che un 57mila colleghi sono inattivi, cioè abbiano smesso di praticare la professione). Con questi dati, dunque, riscrivere una legge che muova anzitutto dal dato di fatto per cui la querela viene sempre più spesso usata per intimidire il giornalista il quale, senza adeguate tutele legali e senza un dignitoso introito economico con difficoltà riuscirà a difendersi in sede legale. Tanto che in commissione giustizia alla Camera dei Deputati è in discussione il disegno di legge in materia di diffamazione. Perché il punto non è che non deve essere garantito il diritto a sentirsi diffamati, ma si deve in tutti i modi escludere che la querela diventi intimidatoria per il giornalista che esercita diritto di cronaca.
Infine, il ruolo dell’Fnsi e dell’Ordine dei giornalisti: si chiede la Bacchiddu dove siano i due organi di categoria quando accadono queste cose a chi esercita il mestiere. “Dovrebbe essere loro premura – conclude la Bacchiddu – fare pressione affinché l’impianto normativo venga aggiornato anche per tutelare la professione”.
Chiara Baldi
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* Si tratta di una prassi, non di una previsione contrattuale. Ci sono editori che la estendono anche ai collaboratori ed altri che invece, negli ultimi anni, la negano, lasciando anche i redattori assunti secondo l’ articolo 1 del contratto di lavoro soli di fronte a querele e cause civili (ndr).