Una tesi di laurea dedicata all’ etica nel fotogiornalismo (‘’Le immagini senza pietà nel giornalismo’’) e ricca di episodi e di riflessioni, affronta il ventaglio dei problemi morali che sorgono in chi si trova a  documentare per immagini la sofferenza e la morte.Â
‘’ Divenni un fotografo e non una persona’’. Con poche parole il fotografo norvegese Hampus Lundgren descrive la totale prevalenza dell’ istinto professionale rispetto agli altri impulsi (la pietà , la solidarietà , l’ urgenza del soccorso) che scatta in un fotoreporter quando si trova di fronte ad un fatto carico di sofferenze. Nel suo caso era la scena (nella fotto qui sopra) di un attentato ad Oslo con morti e feriti gravi.
Ecco il suo racconto:
Questa fu una delle prime cose che vidi. Il mio cervello dev’essersi disattivato per un po’, credo, perché non ricordo di aver fatto questa fotografia. Riuscivo solamente a sentire l’adrenalina. Divenni un fotografo e non una persona. Non mi passò per la mente di parlargli. L’uomo era gravemente ferito ed era sorretto dalla moglie, mentre le persone nei dintorni prestavano il loro aiuto, tra i quali anche un poliziotto fuori servizio. Le altre persone che potevo scorgere erano già morte. Non conosco le procedure di primo soccorso, perciò ho pensato che ciò che potevo fare, e ciò che sapevo fare meglio, era documentare e mostrare alla gente cos’era successo.
E’ una delle testimonianze – riprese da un reportage del Guardian – , raccolte in una tesi di laurea dedicata all’ etica nel fotogiornalismo dal titolo ‘’ Le immagini senza pietà nel giornalismo’’, elaborata da una studentessa veneta, Barbara Garbuio*, che si è appena laureata in Comunicazione all’ Università di Padova col professor Raffaele Fiengo.
Quell’ attimo in cui l’ istinto del mestiere e della documentazione prevale sugli altri impulsi è descritto così da Donna Ferrato, autrice di un libro fotografico sulla violenza domestica (“I am Unbeatableâ€), in un’ altra delle testimonianze raccolte dal Guardian:
(…) ho visto che lui si stava preparando a colpirla e ho fatto una foto. Ho pensato, se non faccio questa foto, nessuno crederà mai a ciò che è successo. La sua mano era sospesa nell’aria ed io ero bloccata dalla paura. Non l’avevo mai visto fare così. Lo avevo visto essere molto rude con lei, magari scuoterla un po’ la mattina presto, ma picchiarla mai. Quella era la prima volta che lo vedevo commettere un atto di violenza, e il mio instinto fu quello di scattare una foto.
Â
Sì, sarò sempre divisa tra la scelta di fare una foto e difendere la vittima, ma se avessi deciso di posare la mia macchina fotografica per fermare un singolo uomo dal picchiare una singola donna, avrei aiutato solo una donna. Al contrario, catturandone l’immagine, avrei potuto aiutarne innumerevoli di più.
Testimonianze che, secondo Garbuio, ‘’aiutano a comprendere come il fotoreporter sia soggetto, come chiunque altro, a delle reazioni istintive che si risolvono molto spesso nel non intervento. Ricorrere all’uso della macchina fotografica è stato per molti un modo, non solo di testimoniare eventi altrimenti cancellabili, ma anche di poter frapporre tra sé e la realtà una specie di filtro dietro il quale rifugiarsi per nascondere lo shock o la consapevolezza di sentirsi impotenti.
Tuttavia il compito di un buon fotoreporter include, tra i tanti, anche quello di imparare a denunciare tramite le immagini anche le situazioni più drammatiche difendendo, allo stesso tempo, il diritto all dignità degli uomini’’.
La tesi, che parte da una breve storia del fotogiornalismo (strettamente collegata all’ evoluzione delle fotocamere e delle tecnologie), affronta i problemi morali che caratterizzano le scelte di chi lavora con le immagini, partendo da singoli fotografi o dagli episodi iconografici più complessi e che in questi anni hanno sollevato le maggiori polemiche. Come le foto dei corpi dei bambini morti in Siria asfissiati dai gas, o quelle delle persone che si gettavano giù dalle Torri gemelle in fiamme, o, ancora, quelle dei soldati ammazzati dai ribelli siriani.
Un’ attenzione particolare è dedicata alle immagini relative alla sofferenza e alla morte dei bambini e un ampio capitolo affronta le accuse di cinismo spesso rivolte a quei fotoreporter che hanno scelto di lavorare nei paesi sottosviluppati e che altro non possono riportare se non quotidiane scene di stenti, di malattia e di morte.
Fra gli altri la tesi ricorda Kevin Carter, autore della foto qui sotto.
‘’L’immagine – racconta Garbuio – nonostante le polemiche, valse a Carter un premio Pulitzer. Il fotografo ammetterà di essere rimasto per ben venti minuti in attesa che l’avvoltoio aprisse le ali prima di scattare la foto, ma non lo farà mai e finirà per scattare ugualmente. Poi prenderà a calci l’uccello e si siederà sotto ad un albero a piangere, parlare con Dio e a pensare a sua figlia. A chi, anni dopo, gli chiese che sorte spettò alla bambina, non seppe mai rispondere e in molti lo criticarono per non essere intervenuto. Kevin Carter si suiciderà pochi mesi dopo aver ricevuto il premio, probabilmente schiacciato dal peso dei rimorsi e delle troppe sofferenze a cui una carriera da fotoreporter lo aveva ormai abituato’’.
C’ è poi, certo, anche il problema del fotoritocco, portato alla ribalta anche recentemente per le forti polemiche provocate dall’ assegnazione del premio World Press Photo per il 2013 a una foto scattata dal giornalista svedese Paul Hansen a Gaza, in territorio Palestinese. Molti suoi colleghi lo avevano accusato di aver ‘’manipolato’’ l’ immagine utilizzando Photoshop per enfatizzare maggiormente la drammaticità dello scatto.
Ma è difficile in quel caso dire se un ritocco della qualità porta a una ‘’falsificazione’’ della realtà .
Nella documentazione delle situazioni più drammatiche, delle sofferenze e del dolore, molto dipende dalla sensibilità e dalla saldezza morale del fotografo.
Il problema – spiega Fabio Bucciarelli, fotoreporter di guerra - è che la linea di confine fra crudezza di una fotografia e morbosità è sottile, a volte impercettibile.
‘’Niente arti penzolanti, eccessi di sangue, quello che conta davvero, e che distingue un bravo fotografo dagli altri, è l’inquadratura, oltre all’empatia con il soggetto fotografico. É l’essere in grado di raccontare il dolore di un padre attraverso il suo viso, le sue espressioni, tralasciando, come è capitato diverse volte a me, in Siria come in Libia, il corpo del figlio trucidato che tiene in grembo’’.
Non si può infatti ignorare che gli orrori delle ultime guerre siano stati scoperti in tutta la loro atrocità , anche e soprattutto grazie alle testimo¬nianze fotografiche pervenuteci all’indomani della fine dei conflitti.
Tutte le immagini che rientrano nella categoria di materiale utile all’informazione pubblica, sono a mio avviso da pubblicare, cercando pur sempre di mantenere alto il rispetto per chi le guarda e per chi viene guardato’’.
Vittorio Roidi, in una lunga conversazione con la studentessa riportata nella tesi, è molto chiaro: L’ etica sta in questo: soddisfare il diritto di informare l’opinione pubblica rispettando i soggetti coinvolti ma anche il lettore.
—-
Neolaureata in Comunicazione all’ Università di Padova, sogna di poter proseguire il percorso accademico con la laurea specialistica e di lavorare in campo giornalistico.
E’ – dice – ‘’sempre alla ricerca di nuove sfide’’ e ama viaggiare.
Il testo integrale
della tesi
è qui