di Marco Renzi
Ma ieri sera il servizio di punta di Report non scoperchiava sepolcri imbiancati, ne raccontava malefatte di vario tipo in italica salsa; l’inchiesta di Michele Buono era volta tutta al positivo e andava a indagare un Paese quasi totalmente sconosciuto ma che si chiama, manco a farlo apposta, Italia.
Quando mai il giornalismo, non solo quello tricolore, ha fatto audience con le “buone notizie”?
L’ inchiesta di Report di ieri sera ha raccontato dunque un Paese diverso, molto diverso da quello che le stesse elezioni; comunque siano andate e chiunque le abbia vinte, permettetemi di dire, stanno raccontando in queste ore.
Un Paese dove la rivoluzione digitale si è già compiuta. Una rivoluzione culturale, come alcuni acuti osservatori da anni provano a dire. Una rivoluzione senza drammi e vittime. Un cambiamento epocale vero e non quello che negli ultimi tempi si è riverberato sulla popolazione come una serie di nuovi adempimenti burocratici, che hanno reso la vita a tutti più difficile. Dove è scomparsa quasi del tutto la persona, dove è apparso improvviso il web. L’obbligo di essere solo online, di avere la PEC. Insomma quella rivoluzione solo d’immagine che, mascherando il tutto con presunte logiche di semplificazione, ha forse fatto risparmiare all’erario, alcune spese, ma ha certamente portato miliardi ai soliti noti.
In nome di sempre più rigorosi controlli. Sino al ripristino digitale della gogna sulla pubblica piazza, magari mediatica.
L’Italia raccontata da Report ieri sera è un’Italia digitale, dove per digitale si intende: in grado di utilizzare le tecnologie digitali per soppiantare le medesime tecnologie analogiche in funzione di un’abbattimento esponenziale dei costi, ottenendo risultati migliori e riformulando la filiera produttiva dal basso con la creazione di numerosi nuovi posti di lavoro. Chiudendo le fabbriche ma senza licenziare. Trasformando il salotto di casa in una “fabbrica” a misura d’uomo. Al posto di quei luoghi obsoleti e senescenti, dove la vita non ha ragione di stare, riportare le persone a casa propria o al massimo sotto casa, a produrre.
Un Paese culturalmente evoluto, nel senso che non si ostina a resistere al nuovo con la paura del domani, ma apprezza e utilizza in quanto migliori, più sostenibili per la persona e per l’ambiente, le tecnologie digitali e grazie ad esse apre nuovi percorsi produttivi basati sulla logica della condivisione.
L’esempio cardine di tutta la filosofia di questo Paese che esiste, ma di cui quasi tutti ignoriamo l’ubicazione, è la factory di Arduino creata da tale Massimo Banzi da Ivrea. Un microprocessore italiano, di cui tutto il mondo va fiero, ma che il Belpaese ignora. Utilizzato in ogni angolo del pianeta per fare cose utili. Ma soprattutto utilizzato, come dice lo stesso Banzi, come base di partenza per fare altro, una start up delle start up: «Io creo una scheda che diventa un mattoncino, la gente con questa scheda ci fa dei progetti, ci crea delle altre aziende che estendono l’uso di quel mattoncino in ogni possibile direzione».
Un Paese dove tornare alla manifattura, (cosa ci insegnavano a scuola: che siamo sempre stati poveri di risorse ma primi nella realizzazione delle cose! Quelli senza le materie prime ma con buone idee e buone mani!!!), in epoca digitale si può e significherebbe, udite udite: «democratizzazione della produzione», un processo già in corso negli Stati Uniti sotto il nome di reshoring – come spiega, nell’inchiesta di Michele Buono, il professor Stefano Micelli dell’università veneziana di Cà Foscari.
Un Paese dove il direttore generale del ministero dello sviluppo economico Giuseppe Tripoli stila un rapporto per la Presidenza del Consiglio dove si legge testualmente : «L’impatto di questi nuovi modelli è tale che non sembra retorico parlare di nuova rivoluzione industriale».
Dunque, che stiamo aspettiamo?
Qui il video della puntata di Report e qui la trascrizione degli interventi (pdf).