Su Culture Visuelle André Gunthert continua l’ analisi del ‘’selfie’’ – l’ autoritratto fotografico realizzato con camere digitali o smartphone e diffuso all’ interno dei social network -.
Dopo aver analizzato il ruolo del selfie come ‘’strumento di scambio sociale’’ , il ricercatore francese esamina ora in un piccolo saggio di etnografia digitale altri aspetti della pratica fotografica, mettendo a confronto le osservazioni di Baudelaire – ferocemente contrario all’ influenza massificatrice e narcisistica del daguerrotipo – e quelle di Gisèle Freund, testimone della funzione democratica della fotografia e dell’ autorappresentazione, e descrivendo il modo con cui i difetti dell’ autioscatto diventano dei tratti stilistici essenziali di questa nuova forma di ”conversazione”
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‘’Questi tratti – spiega Gunthert - iscrivono il selfie nella linea dell’ istantanea dal vivo, un genere nato alla fine del XIX secolo, incoraggiato dai progressi tecnici della fotografia e riconoscibile da una scelta di soggetti che manifesta la loro rapidità e il carattere occasionale. Il selfie condivide con l’ istantanea l’ eredità di un’ estetica del momento qualsiasi ma anche la caratteristica di esibire i suoi codici visuali in modo apparente all’ interno dell’ immagine, creando così una cultura identificabile e riproducibile’’.  Â
Viralité du selfie, déplacements du portrait
di André Gunthert
Il selfie, si sente dire, è un tema frivolo. Non si tratta di una parola inglese? E ‘’self’’ non vuol dire: ‘’sé stesso’’?. In parole povere: foto di sé stessi, celebrazione del narcisismo. Puah! Senza contare che i selfie sono prodotti con quei maledetti smartphone che ci avvelenano l’ esistenza e vengono diffusi da quelle reti sociali che sono il tempio degli adoratori del vudù digitale. In una parola un insieme di tecnologia futile e insulsa, un simbolo di tutto quello che può eccitare un reazionario di stoffa buona.
Questi giudizi infastiditi dicono di più sui loro autori che sulle stesse immagini. Numerosi articoli critici verso il fenomeno ‘’selfie’’ non partono dalle immagini e ancora meno fanno un’ analisi del contesto. A che servono allora questi fantasmi?
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 La fotografia ‘’amatoriale’’, strumento dell’ autorappresentazione
Sono 175 anni che alla fotografia viene rivolto uno sguardo distratto. Non quella della pagina stampata o quella incorniciata, fatta da attori legittimi e scrutata con attenzione dai critici, ma quella di tutti i giorni, quella che si fa senza pensarci su. La foto che fa quello per cui era stata inventata, non per aggiungere un’ altra arte all’ elenco delle Muse, ma per dare a tutti la capacità di produrre le proprie immagini. Non si sa da prima tutto quello che c’ è da sapere in proposito?
Per cui, per non averla considerata, non sappiamo granché di questa foto ordinaria, ridotta a puri schemi rapidi. ‘’Selfie’’ non è che una parola. Ma la pratica a cui rinvia disegna per la prima volta un territorio distinto nell’ area confusa della foto detta ‘’amatoriale’’, privata, familiare o vernacolare (tutti termini poco soddisfacenti, a cui io preferisco l’ espressione di fotografia autoprodotta).
Basandosi sulla storia dei progressi tecnologici, Gisèle Freund proponeva nel 1936 di pensare al significato storico della fotografia come l’ accesso di larghi strati della società a una maggiore visibilità sociale.
La sua analisi descriveva la foto essenzialmente come uno strumento di rappresentazione di sé. Baudelaire l’ aveva intuito allo stesso modo meravigliandosi nell’ epoca dei daguerrotipi allo stesso modo degli stessi detrattori del ‘’selfie’’: ‘’La società immonda si lanciò, come un solo Narciso, per contemplare sul metallo la propria immagine. Una follia, un fanatismo straordinario si impossessò di questi nuovi adoratori del sole. Delle strane abominazioni si produssero’’.
Avevano ragione entrambi. All’ opposto della descrizione immaginifica che si chiede ai professionisti, mettendo se stessi in mostra, a cosa potrebbe servire la foto autoprodotta se non a registrare le nostre ambizioni di durare in qualche ‘’storia’’, cioè a produrre delle immagini di noi?
Se la foto è, come spiega Freund, quello strumento che dà accesso a una visibilità fino a quel momento rifiutata, di che cosa la fotografia detta ‘’amatoriale’’ potrebbe essere il riflesso se non di noi stessi? E a cosa servirebbe la tecnica fotografica, che ci dà la possibilità di produrci le nostre proprie immagini, se non ad eseguire da noi stessi il nostro ritratto?
Si può qualificare come narcisistica questa pratica, ma allora bisogna dire esplicitamente, nella tradizione baudelairiana, che la rappresentazione deve essere riservata agli eroi, all’ elite della società , l’ unica che si merita questo privilegio: uomini di stato, generali, capi di aziende, notabili, artisti… Come in altri tempi il catechismo imponeva la modestia al popolo, quelli che qualificano come esageratamente narcisistico l’ amore per la propria autorappresentazione non fanno che nascondere dietro una psicologia da bar la loro visione di classe di una gerarchia immutabile.
Tutti hanno il diritto alla propria immagine. E la storia privata è sempre plurale. In realtà fa ridere tirare in ballo e associare Narciso, che aveva occhi solo per il proprio specchio, alla pratica della foto autoprodotta, che è fondamentalmente un atto sociale. Perché si comincia a utilizzare la macchina fotografica quando nasce una nuova coppia o una nuova famiglia se non perché l’ immagine serve da supporto alla scrittura di una storia condivisa? Perché si fanno così poche fto quando si vive da soli se non perché non si ha nessunio a cui mostrarle? La pratica amatoriale della fotografia è direttamente proporzionale all’ attività sociale, familiare o amicale e partecipa attivamente al rafforzamento dei legami fra i membri di una rete.
Come hanno ben osservato Joëlle Menrath e Raphaël Lellouche, un selfie si realizza spesso quando si è in molti5. Narciso avrebbe mai accettato di inserire qualcuno altro nell’ immagine? La definizione dell’ autoritratto si basa sulla coincidenza fra l’ autore e il soggetto del ritratto. Si può parlare di autoritratto se solo uno dei modelli schiaccia il bottone?
Il selfie, ritratto d’ occasione
Una domanda interessante potrebbe invece essere questa: il selfie è un autoritratto? Per rispondere con precisione bisognerebbe lanciarsi in una vasta discussione sulla storia e la natura del ritratto. In sintesi il ritratto comunque è un genere che ha diversi usi. Ma quello a cui si pensa prioritariamente quando si utilizza questo termine è la sua funzione identitaria, di ‘’presentazione del se stesso’’.
Gli avatar delle reti sociali ci mostrano abbondantemente che l’ immagine che noi scegliamo per rappresentarci non è necessariamente quella a cui ci riduce l’ identificazione poliziesca – la nostra fisionomia. Ritratto di attore o di attrice, animale totemico, maschera, manifesto, dettaglio corporale, ecc.: come un blasone, come un gioco, si può scegliere qualsiasi immagine per farle dire chi siamo noi. Un ritratto non è solo un busto, che è la forma più tradizionale di presentazione di sé: è una dichiarazione pubblica che porta con sé il messaggio della nostra rivendicazione identitaria.
Il selfie comporta al contrario sempre la manifestazione della presenza dell’ autore dell’ immagine. Può servire da avatar, ma nel complesso è poco utilizzato come supporto identitario. Va detto che esso produce spesso una presentazione di sé un po’ auto-adulatoria. Quando viene realizzato secondo le regole, con uno smartphone tenuto a distanza del braccio teso, l’ obbiettivo grandangolare deforma il viso. In mancanza di un controllo efficace dell’ inquadratura, la composizione porta spesso una dimensione aleatoria. In certi casi, questa raffigurazione può avere anche un effetto comico che dà interesse all’ immagine, ma che non può essere per forza condivisa con molte persone né assunta come rappresentazione pubblica.
Il mio amico Alain François mi ha aiutato a distinguere meglio fra selfie e ritratto. Pratico dell’ autorappresentazione, nelle sue forme scritte o visuali, Alain fa una riflessione su  l’ immagine di sé con lo smartphone (figura 30). Ma nel suo caso la dimensione intemporale, la neutralità dell’ autorappresentazione, la cura dell’ inquadratura e l’ allontanamento del soggetto evocano immediatamente la tradizione dell’ autoritratto pittorico.
Quello che caratterizza il selfie, al contrario, è la forte componente occasionale, l’ iscrizione in un contesto o una situazione, così come la relativa impreparazione, manifestata dai difetti formali come una inquadratura incerta o la deformazione delle prospettive.
La tradizione a cui si collega più direttamente è quella dell’ autofotografia turistica, in cui si tratta di includere la presenza dei viaggiatori nel contesto di un luogo conosciuto (vedi immagini). Si può notare a questo proposito la fluidità delle pratiche, che mette su uno stesso piano autofografia e scatto automatico (con l’ aiuto di un ritardatore), fotografia di gruppo scattata da uno dei suoi membri, oppure da un terzo visto che la macchina è di un o del gruppo.
Una variante del genere consiste nell’ appprofittare della presenza di una celebrità per fotografarsi o farsi fotografare accanto a lui. Le versioni parodistiche di questa pratica –come quella del Tourist Guy , uno dei più vecchi meme del web – suggeriscono di descriverla come una operazione di inclusione, che utilizza l’ apparire visivo come una attestazione di presenza (‘’io c’ ero’’). Il selfie tipico richiede quindi tre elementi: la presenza almeno parziale dell’ autore, una situazione identificabile per il/i destinatario/i e la manifestazione del carattere autoprodotto dell’ immagine, attraverso l’ accorgimento di difetti che diventano dei tratti stilistici.
Questi tratti iscrivono il selfie nella linea dell’ istantanea dal vivo, un genere nato alla fine del XIX secolo, incoraggiato dai progressi tecnici della fotografia e riconoscibile da una scelta di soggetti che manifesta la loro rapidità e il carattere occasionale. Il selfie condivide con l’ istantanea l’ eredità di un’ estetica del momento qualsiasi ma anche la caratteristica di esibire i suoi codici visuali in modo apparente all’ interno dell’ immagine, creando così una cultura identificabile e riproducibile.
Se il selfie può essere utilizzato a fini di autodescrizione, esso sposta e rinnova profondamente il genere, introducendo delle nuove componenti. Mentre la tradizione del ritratto pittorico imponeva dei principi di idealizzazione che richiedevano una preparazione accurata, fedelmente trasmessa negli atelier d’ arte, la fotografia familiare ha fatto evolvere la rappresentazione degli individui, e specialmente dei bambini, nel corso del XX secolo favorendo gli scatti dal vivo. Ma restava difficile trasferire sul terreno dell’ autorappresentazione questo desiderio di autenticità . Il selfie risolve la contraddizione che opponeva immagine di sé e attimo accidentale, e realizza la nascita paradossale del ritratto d’ occasione.
Al di là del ritratto: gli usi connessi
Interrompere qui l’ analisi sarebbe però un errore. La fotografia autoprodotta comprende una parte di usi contestuali nettamente più aperta delle forme istituzionali. Questi usi, che modificano la significatività dell’ immagine, hanno conosciuto una estensione senza precedenti dopo la rivoluzione digitale e più in particolare con la fotografia connessa. Per tenerne conto l’ approccio abituale della semiologia deduttiva non basta. Bisogna volgersi verso una etnografia degli usi, che richiede una conoscenza approfondita dei contesti.
Nella mia collezione di autofoto vedo ad esempio delle immagini che potrebbero passare per dei ritratti ma che sono stati realizzati con uno scopo utilitaristico, senza nessuna intenzione identitaria, come un selfie mandato a mia moglie uscendo dal barbiere, per informarla che avevo finito e per farle giudicare il taglio (vedi immagine 31) o un altro effettuato per verificare l’ effetto di un nuovo paio di occhiali. La disponibilità dello smartphone permette di utilizzarlo qui come una sorta di ‘’specchio aumentato’’.
Da notare che l’ intenzione primaria non chiude comunque i campi di utilizzo di una immagine. Al contrario, nella fotografia autoprodotta il suo destino resta aperto a un ventaglio di possibili usi che potranno essere decisi a posteriori. Così il selfie del barbiere potrà essere usato successivamente come immagine del profilo di Facebook, o per il suo carattere scherzoso e declarativo – questa volta pienamente identitario -, come una sorta di avatar pubblico (in accoppiamento con il   détournement di Caspar David Fredrich di Kim Dong-Kyu).
Trovo poi fra i mei selfie delle foto dedicate esclusivamente ad alimentare il dialogo con la mia rete di amici su Facebook. Per esempio, la foto di una scottatura da sole (42) o di una camicia non stirata (43) rappresentano un indicatore per il gioco conversazionale piuttosto che degli autoritratti nel senso classico del termine. Queste immagini poco accademiche resistono all’ interpretazione di uno sguardo non avvertito.
Conviene anche ricordare l’ uso del selfie nel registro della comunicazione amorosa ed erotica. Questa forma antica – e particolarmente mal documentata – delle applicazioni private della fotografia ha conosciuto anch’ essa una progressione esplosiva con gli strumenti digitali. Diversi siti specializzati attestano come il genere sia stato identificato da parecchio tempo. Notiamo tuttavia che la parte visibile nell’ intermediazione delle reti sociali è probabilmente poca cosa rispetto agli scambi protetti che fanno il successo degli strumenti di chat.
Presi come una pratica indifferenziata, i selfie ci indurrebbero a parlare di una presenza insistente dei volti. Queste notazioni suggeriscono però che identificare ritratto e fisionomia quando si ignora l’ intenzione che era alla base della realizzazione della foto, nasce da un a priori  culturale piuttosto che da un approccio ben fondato. La ricerca visuale ci ha abituati a dedurre l’ uso da situazioni chiuse. Ma le pratiche ordinarie sono nello stesso tempo meno conosciute e meno prevedibili. La loro analisi impone di proseguire la ricerca al di là delle apparenze.
Il selfie sembra un terreno propizio per testare le dinamiche della cultura popolare. E permette in particolare di completare l’ ipotesi di Gisèle Freund sulla democratizzazione del ritratto. Al di là della sola analisi dello strumento di produzione delle immagini, è la loro visibilità e la loro valorizzazione culturale che conferiscono a una pratica il riconoscimento necessario alla sua diffusione.
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