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Jarvis 3 / Il nuovo ecosistema dell’informazione e la costruzione di reti

Ecco il terzo dei cinque articoli di Jeff Jarvis (i primi due sono qui e qui)  che fanno parte di un ampio saggio (in uscita a ottobre) che indaga in profondità, come spiega lui stesso, su “nuovi tipi di relazione, nuove forme e nuovi modelli imprenditoriali per il giornalismo di domani”.

 

Al centro dell’attenzione del giornalista e studioso americano la formazione dei nuovi ecosistemi informativi, con il progressivo indebolimento dei media tradizionali e dei loro monopoli/oligopoli in mercati dominati dalla scarsità e l’arrivo sulla scena di numerosi nuovi protagonisti in uno scenario in cui domina l’abbondanza. Un sistema brulicante e disorganizzato che deve essere razionalizzato mettendo tutti gli attori  in rete per potenziare la nuova offerta di informazione giornalistica. Un processo in cui anche le vecchie testate dovrebbero essere coinvolte e ricavarne benefici per la sopravvivenza. L’esperimento del New Jersey News Commons.  

 

 

Ecosystems and networks

di Jeff Jarvis

(da Medium)

 

 
 
Sto lavorando a un saggio che indaga relazioni, forme e business model di tipo nuovo per il giornalismo di domani. È  la mia risposta al quesito: “Adesso che la tua Internet ha rovinato l’informazione, che si fa?”. Non ho la presunzione di fare predizioni, bensì solo di esplorare le opportunità possibili. Qui su Medium condividerò la parte iniziale di questo saggio per sollecitare reazioni e contributi dei lettori.

 
 

Sin dall’invenzione della rotativa, il giornalismo è stato sempre un’industria a organizzazione verticale. Singole imprese ne controllavano ogni singola fase: l’intero processo di individuazione, ricostruzione e produzione delle notizie; la loro stesura, distribuzione, vendita e promozione tramite gli spazi pubblicitari. Operavano in   regime di monopolio o di oligopolio: tenevano ben saldo il potere di fissare il prezzo, con costi contenuti per i consumatori  e gli inserzionisti, esercitando al contempo un forte potere di acquisto nei confronti dei fornitori. Stuazione ottima, almeno per gli editori, fino a che è durata e non c’è da stupirsi  che oggi costoro si lamentino molto del suo tramonto. La forza principale che consentiva loro di creare grossi imperi era la scarsità, che rendeva possibile il controllo sulle riserve più preziose, la produzione e la distribuzione delle notizie.
 
Oggi ovviamente tutti noi possediamo i mezzi per produrre e distribuire notizie, informazioni e contenuti, grazie a tastiere e smartphone (presto, forse addirittura direttamente col pensiero, con i Google Glass, o con dispositivi ancora da inventare). Ognuno di  noi può raccogliere  e diffondere informazioni, come anche raggiungere il pubblico che ritiene appropriato; chiunque può connettersi a chiunque altro, senza necessità di guardiani o mediatori, ovvero dei media. Nel digitale domina l’abbondanza: mentre si riduce la presenza dei grossi editori, questi sostengono la pari riduzione del flusso di notizie. La verità è però che tale flusso è in crescita, sebbene non in modo uniforme e spesso in maniera inaffidabile, tramite infinite nuove fonti che contribuiscono ad accrescere l’ecosistema dell’informazione.
 
Prendiamo la zona dove vivo,  lo Stato del New Jersey, come esempio di ecosistema dell’informazione: qui non c’è mai stata un’emittente TV d apoter definire “nostra”: c son invece quelle che da trasmettono da New York e Philadelphia arrivando qui.  LaTV locale, piccola e poco seguita , è stata venduta dallo Stato alla rete pubblica PBS di New York. Analogamente, le radio locali, dal bacino assai ridotto, sono state rilevate da grosse emittenti di New York e Philadelphia. La radio radio statale, NJ101.5 è – come dirlo in maniera corretta e cortese? – penosa. Abbiamo un giornale una volta dominante, lo Star Ledger (di proprietà  della Advance Publications, per cui ho lavorato,  in passato), qualche altro quotidiano del gruppo Gannett o di famiglie locali, e alcuni settimanali. Tutto in netta riduzione. Prima il New York Times copriva il New Jersey, ma ormai ha completamente rinunciato a ogni ambizioni internazionale. Questa è la situazione dei media tradizionali nel New Jersey.
 

Però abbiamo un gran numero di blog, come Baristanet a Montclair,  Red Bank Green, Morristown Green, My Verona NJ, Elizabeth Inside Out (curato da un mio ex studente, copre la città di Elizabeth), Rahway Rising (che si occupa  solo lo sviluppo edilizio urbano) e  The Alternative Press, che copre solo una manciata di cittadine. E io spero che diventino molti di più. Abbiamo comunità locali come  la Jersey Shore Hurricane News, basato su Facebook, ove migliaia di persone si sono ritrovate per condividere informazioni durante due uragani e che continua a operare. Abbiamo Patch di Aol. Ex giornalisti provano a guadagnarsi il pane e di mantenere il ritmo scrivendo sul NJ Spotlight e New Jersey Newsroom.  Il New York Observer gestisce il sito web PolitickerNJ , un mini Politico per Trenton: le maggiori entrate vengono da un eccellente newsletter sull’amministrazione cittadina chiamato  State Street Wire.
 
Ci sono poi vari siti che soddisfano interessi specific: Glocally Newark si occupa di cultura a Newark; Barista Kids si rivolge alle mamme di Montclair; Pharmalot segue l’ industria farmaceutica della zona;  Jersey Bites giudica i  ristoranti, come fanno alcuni altri blog. Clever Commute offre servizi ai pendolari con un’app dal costo di 35 dollari l’anno. La testata investigativa senza scopo di lucro Pro Publica fa davvero parecchio ello Stato. La radio pubblica e indipendente  WBGO segue il jazz di notorietà internazionale e WFMU  è così indipendente che è impossibile descriverla. Questi siti attirano perfino il pubblico internazionale. C’è anche WeirdNJ, nome azzeccato,  perché si occupa delle nostre stranezze. Infine, non dimentichiamo le migliaia e migliaia di persone del New Jersey che si scambiano informazioni su Twitter, Facebook, Pinterest, Tumblr, nei forum di NJ.com, altri siti di informazione e sui blog personali. Quando uso la definizione ‘struttura giornalistica’, includo anche tutte queste, e non più solo le grandi, vecchie testate cartacee.
 
Ci sono poi tante entità che contribuiscono all’ecosistema dell’ informazione pur non essendo mezzi di comunicazione: enti statali e amministrazioni locali stanno lentamente migliorando nella diffusione dei dati e delle informazioni in loro possesso, che fanno confluire nell’ecosistema. Il  Town Stats Project  è un esperimento per iniziare a mettere insieme dati su scala locale. Aziende private, così come quelle dei servizi pubblici,  condividono sempre più i loro dati.  Ovviamente Google offre informazioni più ampie e variate: dal traffico alle previsioni meteo, dai ristoranti alle aggregatori di notizie. Facebook, Twitter, Tumblr, WordPress, Google Plus e altre piattaforme online consentono ai residenti locali di pubblicare e distribuire quanto sanno.
 
Esiste una varietà di attori nella “periferia” dell’ecosistema, ben più che non  al centro, impegnati a servire i suoi membri: Google fornisce pubblico e,  a volte, entrate (sebbene non cospicue) ai siti locali. Facebook procura pubblico e, nel caso del Jersey Shore Hurricane News, una piattaforma per la pubblicazione e la ricerca di collaboratori per gli articoli. Twitter fornisce promozione, così come contenuti e suggerimenti. Lo stesso dicasi per Instagram e You Tube. WordPress è invece la piattaforma più nota e diffusa modo per curare un proprio blog. Apple e Android offrono servizi per creazione e vendere app. E mi auguro che qualcuno (già dell’ambiente o anche qualche nuovo soggetto) crei una rete pubblicitaria capace di agglomerare e raggiungere la massa critica dei clienti di tutti i siti citati, massa necessaria alla vendita su larga scala, a livello statale: qualcosa su cui sto lavorando anch’io.
 
Questo il quadro.  Il New Jersey, come quasi tutti i mercati, adesso come adesso presenta un crescente, disorganizzato coacervo di siti, servizi, comunità e individui i quali operano su varie piattaforme, con differenti motivazioni, con tante o poche risorse e con business model che vanno da “nessuno” a  “non-profit”, da “spero-di-trarci-profitto” a “redditizio”: contribuiscono tutti al vasto ecosistema dell’informazione che copre lo Stato e le sue comunità.
 
Questo concetto di ecosistema può essere poco chiaro da afferrare, visto che ci stiamo lasciando dietro le spalle l’era dei media  monolitici, in cui grandi imprese, organizzate e integrate verticalmente, con prodotti tangibili, avevano un netto controllo sulle scarse risorse  ed erano pochi grandi marchi noti a controllare lo scenario. Oggi abbiamo questo magma indistinto che chiamiamo ecosistema: nessuno ne è a capo, ed esistono enormi spazi vuoti. Il New Jersey conta 565 cittadine, in ognuna delle quali alligna il seme della corruzione e ognuna delle quali ha bisogno di un cane da guardia. Ebbene, solo una ventina di esse è “coperta”. Non esiste un singolo, semplice business model valido per tutte, come successo finora – diffusione e pubblicità – e talvolta qualità e credibilità restano dei punti interrogativi. Certo, direte voi, non è poi un miglioramento. Be’, forse non ancora, ma potrebbe esserlo. Il New Jersey è una tabula rasa, l’ideale per il fiorire di innovazione e collaborazione, dove nuove voci possono essere udite come non mai, dove i cittadini possono finire per essere più informati che mai e più coinvolti di quanto non siano mai stati.
 
Per arrivare a questo, però, l’ ecosistema ha bisogno di aiuto, così come chiunque vi operi. I suoi membri devono innanzitutto darsi una mano a vicenda, collaborando per fare più di quanto ognuno potrebbe fare da solo, arrivando così all’efficienza; devono concentrarsi su quel che ciascuno sa fare meglio, migliorando quindi la qualità del lavoro e condividendo al meglio. Anche queste sono nuove specifiche competenze per i giornalisti, abituati  al lavorare in trincea, operando in maniera competitiva e segreta.
 
La prima e più elementare forma di collaborazione è il link. “Fa’ quel che ti riesce meglio e linka il resto!”, è il mio motto di presentazione su Twitter. Da una testata locale non ci si aspetta più che ti porti l’intero mondo sullo zerbino di casa. Non farebbe un buon lavoro coprendo tutto il mondo e ospitando servizi che comunque sono a portata di clic: New York Times, Guardian, BBC… Le testate locali non possono più sostenere quest’approccio generalista. Il link consente loro di rimandare ad altri articoli o alla fonte originale. Ciò porta altresì i membri dell’ecosistema a specializzarsi, a utilizzare le risorse in maniera efficace per offrire servizi della più alta qualità possibile e link che portano maggior pubblico e valore. I membri di un ecosistema imparano presto la Regola D’Oro del link verso altre testate, è un servizio per i lettori e un cortesia verso il sito che lo riceve. È anche il modo tramite cui due siti si collegano tra loro, rendendo la cortesia del rimando. Linkarsi a vicenda può e deve divenire un circolo virtuoso.
 
Naturalmente i membri di un ecosistema possono lavorare insieme in modo più stretto e diretto:  condividendo e scambiando contenuti, pubblico e le migliori pratiche; lavorare fianco a fianco su progetti comuni, ottimizzando le risorse e ottenendo più di quanto non avrebbero potuto da soli; dividere le entrate tramite campagne pubblicitarie congiunte (modello che approfondirò in successivi articoli) e altre attività quali l’organizzazione di eventi. E possono anche risparmiare sulle spese unendo il loro potere di acquisto per comprare spazio, tecnologia o servizi.
 
Nulla di tutto ciò può concretizzarsi da solo. I giornalisti indipendenti e gli editori monopolisti sono tra i professionisti meno disponibili a pensare in termini di collaborazione. Agli albori dell’era commerciale sul web, oltre una decina di grandi editori di testate Usa crearono il New Century Network, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, aiutarli a condividere pubblico, contenuti e vendite pubblicitarie. La Kleiner Perkins, mega-impresa di venture capital di Silicon Valley, ritenne che fosse un ottimo investimento puntare su quella nuova rete di aziende: ma i giornali non riuscirono neppure a mettersi d’accorso su come prendere i soldi! E invece sprecarono i loro! Alla fine, che comunque arrivò presto, questo consorzio risultò un orrendo disastro, perché gli editori non riuscirono  a mettersi d’accordo su nulla, né sulla tattica né sulla strategia. Le redazioni devoono capire come sia nel loro stesso  interesse  avviare un’ intesa, un dialogo e collaborare all’ interno di questo. La collaborazione è un imperativo per la sopravvivenza.
 
Per ottenere un simile risultato  in New Jersey e creare una struttura per promuovere e sostenere la collaborazione nel sistema giornalistico locale, ho lavorato con la Fondazione  Geraldine R. Dodge e altri enti filantropici locali tra cui la John S. and James  L. Knight Foundation, al fine di aiutare la nascita del New Jersey News Commons, all’Università di Monclair: la struttura è diretta dalla fondatrice di Baristanet, che ho incoronato come regina dell’iperlocale, Debbie Galant. Il Commons ha quattro obiettivi primari:
 
– istruire i membri dell’ecosistema nelle competenze e capacità specifiche del giornalista, dei media e – aspetto assai importante – del business.

– curare, distribuire, e quindi incoraggiare  il miglioramento del funzionamento dell’ ecosistema attraverso i suoi membri. Il Commons usa un servizio chiamato Repost.US, che descriverò in seguito.

– favorire la collaborazione tra i membri dell’ecosistema stesso;

– fornire servizi utili ai membri: ci auguriamo che essi includano anche la protezione legale in caso di diffamazione e l’assicurazione sanitaria, anche se sono punti difficili da realizzare.
 
Questi siti hanno anche bisogno di un’azione di sostegno alle imprese, principalmente nella raccolta pubblicitaria, e ne discuterò altrove. In aggiunta, Montclair State ha fornito spazio in modo che i vari membri dell’ecosistema – TV e radio pubbliche, NJSpotlight, NJ.com, blogger e fornitori di tecnologia – possano lavorare  l’uno a fianco dell’altro nella speranza che l’unità degli forzi dia buoni risultati. Così i membri dell’ecosistema si sono riuniti in un network che condivide contenuti e pubblico, imparando a scambiarsi informazioni nelle tornate elettorali e lavorando su progetti collaborativi riguardanti le operazioni di salvataggio e ripristino in seguito  all’uragano Sandy e il fenomeno dell’ immigrazione.
 
Al contempo i colleghi della City University di New York,  Sarah Bartlett e Garry Pierre Pierre, hanno creato un centro per media di comunità e gruppi etnici dove si forniscono anche formazione e servizi di traduzione di testi da altre lingue all’inglese, di modo che possano essere condivise e raggiungere così un pubblico più vasto. Glistessi stanno aiutando il New Jersey News Common ad aprire la strada alle pubblicazioni etniche a livello statale. Al Center for Entrepreneurial Journalism abbiamo poi avviato delle ricerche sul business giornalistico per aiutare tutte le entità interessate (a cui accennerò più in là).
 
Nella ricerca sull’ ecosistema del New Jersey curata da Chris Anderson, questi ha concluso che le reti sono necessarie per la sopravvivenza e il successo dei membri dell’ecosistema, ma che questi stessi network hanno bisogno di un leader. Guide che possono essere competenti membri dell’ecosistema, o anche università e fondazioni, come in New Jersey. Questi leader dovrebbero anche includere le grandi testate tradizionali, che possono trovare nuova vita, crescita, pubblico ed efficienza da questo coinvolgimento, riunendo tutti i partecipanti di questi nuovi ecosistemi dell’informazione all’interno di network formali.
 
Esiste un grosso problema nel tentare di creare una rete fuori dall’ecosistema che sta emergendo in un mercato come quello del New Jersey: non ci sono sufficienti nodi per formare un a rete simile; in altre parole, l’ ecosistema non è grande abbastanza, bisogno di un maggior numero di aderenti. E ciò porta a un ruolo nuovo e importante per i titolari dell’ecosistema: gli incubatori.
 
È interesse di queste stesse entità, i membri attuali, incoraggiare, reclutare, formare e sostenere nuovi membri dell’ecosistema. Ovvero: più nodi vi sono nella rete, più l’ecosistema diventa valido per tutti. Più blog iperlocali ci sono, per riportare dati sulle varie città riversandoli nel mercato, più cresce l’interesse anche di testate minori, più queste possono focalizzarsi e occuparsi di ricostruire e indagare sulle grosse questioni, quelle di ampia scala, che è il loro mestiere. Più membri ci sono,  più grande sarà il bacino da offrire agli inserzionisti. E via via la lista dei benefici relativi crescerà.
 
Credo perciò che i membri  degli ecosistemi dell’informazione dovrebbero attivamente reclutare, formare, fare da mentori e sostenere i nuovi aderenti. Quando una testata licenzia i propri giornalisti, come successo troppo spesso e come troppo spesso continua a accadere sino a che le testate non raggiungeranno dimensioni sostenibili, perché non offrire loro aiuto creando nuovi tipi di impresa? Dando loro una piattaforma tecnologica e assicurandone la diffusione, come pure una base di entrate pubblicitarie sino al raggiungimento della massa critica? Le fondazioni possono guardare alle aree critiche non coperte dal mercato ed emettere bandi per trovare giornalisti con piglio imprenditoriale inclini a riempire quei bisogni, aiutandoli con sostegni finanziari e formazione. Le reti possono anche reclutare e formare persone per riempire spazi zone vuote nella copertura di mercato. Il New Jersey News Commons lo ha appena fatto, reclutando blogger che si occupano d’informazione nello zone devastate dall’uragano Sandy e dando loro fondi, borse di studio e formazione, elargite dalla Dodge e dalla Knight. Le università possono formare giornalisti con competenze che mancano, come quelle imprenditoriali, e anche imprenditori nel settore del giornalismo locale.
 
La meta: costruire un ecosistema dell’ informazione che più grande, migliore, più efficace e sostenibile che possa servire all’intera comunità.

 

(traduzione a cura di Maria Daniela Barbieri)

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