A 45 anni da quel terribile 12 dicembre 1969 pubblichiamo la tesi magistrale con cui uno studente lombardo, Matteo Pedrazzini*, si è laureato alla Statale di Milano in Cultura e Storia del Sistema Editoriale, ricostruendo la ‘’lezione giornalistica di Piazza Fontana’’ attraverso l’ analisi del modo con cui i giornali – quotidiani e settimanali – affrontarono la ricostruzione della strage e ne seguirono gli effetti.
Chiave della tesi – ‘’‘Io l’ho saputo dai giornalisti’. Come la stampa ha raccontato Piazza Fontana†(relatrice professoressa Maria Cristina Jucker; correlatore professor Andrea Ermanno Riscassi) – ‘’lo svolgersi di una sfida: da una parte una strage fatta da uomini che avevano in mente “di gettare vittime, indifferenziate e inconsapevoli, tra le ruote del carro della storia per deviarne il camminoâ€, e dall’altra ‘’donne e uomini che con la forza delle proprie idee e delle proprie parole cambiarono in medias res l’interpretazione storica del 12 dicembre non accettando versioni codine e misteri più o meno artefatti con il solo scopo di contrastare la ricerca della verità . Cercarono così di riconsegnare una dignità ai morti innocenti e offrirono ai posteri una pagina di Storia meno inquinata, fornendo un alto esempio di impegno civile: è un modo anche questo per fare memoria, per ricordare di non dimenticare’’.
La tesi – basata anche su una vastissima bibliografia – ripercorre nei particolari la tempesta professionale e culturale che Piazza Fontana scatenò nel mondo ancora piuttosto ovattato del giornalismo italiano, provocando la forte accelerazione nel processo di democratizzazione della cultura professionale di una parte rilevante dei giornalisti del nostro paese.
Marco Nozza, uno dei protagonisti di quell’ esperienza, raccontava: “Invece di ricostruire i fatti con le veline, ossia sulla base delle versioni fornite dalle autorità , avevamo cercato di raccontare fedelmente quello che avevamo potuto vedere e sentireâ€.
Ma questa “cosa semplicissima†– osserva la tesi – non fu immediata e neppure maggioritaria fra i professionisti della carta stampata: “per mesi i giornali di informazione, compresi in parte quelli di sinistra, hanno macinato la farina delle notizie false, diversiveâ€.
Allora la revisione critica delle notizie ufficiali spesso risultava lacunosa e tardiva, ma intanto le notizie passavano, si diffondevano, si radicavano nel tessuto sociale.Fu proprio in questo ingranaggio della macchina dell’informazione che si inserì il granello di sabbia rappresentato dai cosiddetti pistaroli e da quanti ne seguirono il percorso.
Così ancora Nozza espose il loro proposito: “noi volevamo invece che le cose cambiassero, a cominciare dal modo di fare la cronaca nei giornali†e descrisse così quel manipolo di giornalisti di cui faceva parte: “Certo che eravamo sospettosi. Presuntuosi, anche. Cocciuti, testardi. Arroganti, mai. O quasi maiâ€.
La maggior parte della stampa invece era acquiescente nei confronti delle autorità e delle notizie che fornivano, riportandole e sposandone le tesi senza la minima esitazione.
Nel 1969 la televisione non aveva la rilevanza che avrà in seguito nel trasmettere le notizie e l’ universo telematico non esisteva ancora.
I giornalisti della carta stampata – osserva Pedrazzini nelle Conclusioni della tesi – rivestivano quindi un ruolo di grande responsabilità : erano più che mai storici del presente e da loro dipendeva in buona parte il formarsi di opinioni su fatti e temi politici, economici, sociali (e non solo) presso il grande pubblico dei lettori e, più in generale, nella società .
La difficoltà stava nel coniugare l’ istantaneità del racconto con accurate verifiche conseguenti ai dubbi che potevano scaturire dal trovarsi in presa diretta all’interno di un avvenimento. Il coefficiente di difficoltà di una simile operazione era massimo a fronte di un evento quale la strage del 12 dicembre per le implicazioni politiche e sociali che portava con sé e per l’alone di mistero che subito l’avvolse.
Non a caso – racconta la tesi – Nozza rappresentò in questi termini il modus operandi di quei giornalisti che non accettarono le verità precostituite, ma interrogarono i fatti: “la verità (o almeno quella che ritenevamo fosse la verità ) andavamo a cercarcela un pezzettino alla volta, avventurosamente, scarpinando con grande pazienza e faticaâ€; un lavoro che per la tempra messa in gioco richiama alla memoria la corsa di Filippide da Maratona ad Atene, un lavoro che aveva il fine ultimo di presentare ai lettori articoli ben fatti e non approssimativi per quel che gli strumenti, le proprie informazioni e la propria abilità potevano consentire’’.
‘’La strage di piazza Fontana, il fatto più cruento dalla fine della Seconda guerra mondiale e ancora unico in tempo di pace, – sostiene l’ autore – investiva i giornalisti di una grande responsabilità nei confronti dell’ opinione pubblica: informare e non fomentare un odio e una caccia all’uomo già striscianti nella società italiana a partire dal Sessantotto e proseguiti con l’ autunno caldo.
Non tutti i professionisti della carta stampata furono all’altezza di questo compito, che fu anzi prerogativa di una minoranza: coloro che diedero vita alla controinformazione, ovvero un modo di fare giornalismo rigoroso, che si avvaleva degli strumenti dell’inchiesta e della cronaca e non di sovrastrutture politiche, delle veline degli organi istituzionali e della fretta di liquidare la questione con un colpevole da offrire alla pubblica indignazione’’.
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QUI IL TESTO INTEGRALE DELLA TESI