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La storia “dell’ unico giornalista detenuto nel mondo occidentale per aver fatto il suo mestiere”

L’ ultima condanna ai danni di Roger Shuler, 57enne blogger-giornalista dell’Alabama, è del 15 marzo (90 giorni di reclusione) per resistenza a pubblico ufficiale: il 23 ottobre scorso, si era opposto ai poliziotti che erano giunti a prelevarlo a casa sua con l’ accusa di oltraggio alla Corte. La sentenza è stata sospesa per due anni, ma Shuler – l’ unico giornalista che, secondo il CPJ (Committee to Protect Journalists), è in galera nel mondo occidentale solo per aver svolto la sua attività – dovrà pagare comunque le spese processuali e rimane in carcere per la precedente vicenda.

 

Tutto risale al suo mancato rispetto dell’ingiunzione di un giudice a rimuovere dei post dal suo blog (Legal Schnauzer) che accusavano Rob Riley, figlio dell’ex governatore dell’Alabama Bob Riley, di aver avuto un affaire extra-matrimoniale. Ingiunzione che secondo molte fonti è del tutto incostituzionale, essendo questo un chiaro caso di “free speech”, protetto dal Primo Emendamento.

 

 

a cura di Bernardo Parrella e Pino Rea

 

Dopo il suo arresto, alcuni blog nazionali hanno parlato di un attacco politico mirato a imbavagliare una voce contraria  in uno Stato conservatore. Altri lo hanno dipinto come un “bombarolo” a cui però sono stati negati i diritti costituzionali – tutto con la scusa della minaccia alla sicurezza nazionale.
 
Due organizzazioni, l’American Civil Liberties Union e il Committee to Protect Journalists, hanno pubblicamente espresso preoccupazione per le circostanze dell’arresto e della condanna.  Recentemente ne hanno scritto anche il New York Times e Salon.com, ribadendo come gli interventi di Shuler vadano protetti in base al Primo Emendamento alla Costituzione Usa.
 
Ma nel complesso i pezzi grossi dell’ambiente giornalistico – quelli che dirigono le varie associazioni del settore e insegnano nelle università – non hanno fatto praticamente nulla per aiutare Shuler ad ottenere la libertà o comunque per tutelarne i diritti civili violati.

 

‘’Paura della violenza in carcere’’
 
In cinque mesi di reclusione il giornalista-blogger  ha perso oltre sette chili e le sue condizioni “sono nettamente peggiorate”. Ha paura della violenza in carcere e teme di morire dietro le sbarre. E questo lo stato in cui versa oggi Roger Shuler, l’unico giornalista che, secondo il CPJ (Committee to Protect Journalists), è in galera nel mondo occidentale solo per aver svolto sua attività.
 
Lo racconta  Andrew Kreig, giornalista di OpEdNews.com, che lo ha incontrato nel carcere di Jefferson, a Birmingham (Alabama) il 10 marzo scorso.
 
Qualche giorno fa per la prima volta gli Stati Uniti erano stati inseriti da RSF fra i ‘nemici di internet’, ma la vicenda di Schuler mostra che RSF avrebbe potuto censurare gli Usa non solo per i metodi di sorveglianza di massa denunciati da Snowden ma anche perché tiene in una cella un giornalista in maniera arbitraria e senza un giusto processo.
 
«È un trauma terribile essere lontano dalla propria moglie e da casa, e non avere idea di quando mi faranno uscire da qui e come», racconta Shuler nell’intervista (la seconda da quando il giornalista è stato arrestato) – di cui riportiamo sotto un’ampia sintesi italiana.
 
Shuler, 57 anni, quasi soffoca dal dolore quando racconta di non aver più rivisto la moglie, la quale  ha paura di uscire di casa perché teme di essere arrestata per le cose scritte da lui. E mostra una foto che gli era stata scattata la notte in cui venne pestato da un poliziotto lo scorso ottobre, subito dopo l’arresto.
 
Il giorno dell’incontro, 10 marzo 2014, è stato scelto perché – spiega Kreig – cade nel 50° anniversario del più famoso caso giudiziario della storia Usa in tema di libertà di stampa, il New York Times v. Sullivan. Il giudice che ha mandato Schuler in carcere sembra aver chiaramente violato quel famoso pronunciamento della Corte Suprema visto che ne ha disposto l’arresto per un tempo indefinito e, soprattutto, prima si svolgesse alcun processo.

 
Con poche eccezioni, la maggior parte di questi leader e dei loro enti ignorano gli scandali oscuri che agitano il Paese e concentrano le loro energie solo nella retorica sul Primo Emendamento,  prostrandosi davanti ai grandi nomi del governo o dei media, e promuovendo borse di studio e altre iniziative per incoraggiare i giovani a entrare in una professione che viene spesso ‘glamourizzata’, spiega il giornalista di OpEdNews.
 
Kreig è da tempo membro dei più importanti club e associazioni di giornalismo del Paese, e da ottobre ha ripetutamente scritto ai loro dirigenti senza successo per incoraggiare articoli, tavole rotonde o quantomeno lettere di protesta, in relazione al caso Shuler e ad altri analoghi.
 
In gran parte – prosegue il racconto – hanno ignorato i mei messaggi: «Alcuni mi hanno risposto adducendo lo scarso livello d’interesse delle loro associazioni per la vicenda, oppure la mancanza di fondi o di tempo».
 
Per rompere il clima di indifferenza, la settimana scorsa Kreig è volato da  Washington per visitare Shuler il 10 marzo nel carcere di Birmingham, Alabama.
 
L’articolo porta il titolo “Lettera dal carcere di Birmingham”, riprendendo quello della famosa lettera dal carcere diffusa da Martin Luther King Jr. nel 1963 – in cui invitava tutti ad assumersi la responsabilità di combattere le ingiustizie. Visto il divieto a materiali per scrivere in  carcere, King aveva annotato buona parte di quella “lettera” sui margini di un giornale e su altri frammenti di carta che era poi riuscito a far arrivare all’esterno.
 
Le note raccolte dal lungo intervento di OpEdNews offrono un quadro sconvolgente, che rivela altresì l’enorme fallimento del sistema mediatico del Paese, come aggiunge l’autore: «Sono rimasto sorpreso dall’assenza di proteste sulle testate nazionali in occasione della vicenda», mi diceva il direttore dell’ACLU dell’Alabama, Randall Marshall. L’ associazione ha poi presentato un parere critico ai giudici del caso (noto come “friend of the court brief”), ma non ha alcun potere di rappresentanza per Shuler a livello giudiziario.
 
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Giornalista incarcerato diffonde una clamorosa ‘Lettera dal carcere di Birmingham’


di Andrew Kreig
(
Opednews.com)

 

La posta in gioco
 
«In questa mia vicenda mi sembra di vedere più un caso di rapimento che di diffamazione», mi dice Shuler nella sala delle visite del carcere. Vediamo perché:

 

Il giovane Riley, che con la Duke (la sua presunta amante, ndr) ha querelato Shuler per diffamazione, è il figlio del due volte ex governatore repubblicano dell’Alabama, Bob Riley (2003-2011), che alle elezioni aveva sconfitto il precedente governatore, Don Siegelman (1999-2003), accusato poi di corruzione. L’accusa nasceva dal fatto che nel 1999 il governatore aveva chiesto a uno degli uomini più ricchi dello Stato, l’imprenditore Richard Scrushy, di fare una donazione alla Alabama Education Foundation. Il governatore aveva poi ri-nominato Scrushy nel direttivo di un ospedale statale di cui l’imprenditore era già stato membro sotto tre governatori repubblicani.
 
La rimozione di Siegelman dalla vita pubblica aveva permesso alla famiglia Riley e ai loro alleati, come il noto Karl Rove, di avere le mani libere in Alabama, dove Siegelman era stato il leader democratico.
 
Per quanto riguarda il suo caso, Shuler ha citato gravi violazioni di legge: imbavagliare un organo d’informazione, tenere segreto il procedimento giudiziario, la reclusione indefinita e la mancanza di un mandato di arresto.Shuler non ha un avvocato né i soldi per assumerlo. Dice di temere per la sua vita, dopo aver visto il caos che può scatenarsi in carcere .
 
«Sono stato trattato abbastanza bene dagli altri carcerati», mi spiega. «Ma alcuni di loro usano droghe di ogni tipo e a stento sono riuscito a evitare feroci litigate, magari solo perché uno ha tenuto il telefono occupato per 15 minuti. Qui chiunque può essere ammazzato, e l’ho visto fare con i miei occhi».
 

L’indifferenza dei media
 
Ho già raccontato l’arresto di Shuler in una mezza dozzina di articoli, fra cui Alabama Court Again Hammers Blogger As NY Times Flubs Libel Story.
 
Gran parte dei media lo hanno abbandonato e con lui, implicitamente, il Primo Emendamento e i precedenti ad esso legati, come il caso Sullivan. Dopo aver letto i post sul blog di Shuler dal 2009, lo considero un giornalista coraggioso che combatte la corruzione.
 
Ha conquistato il forte interesse del pubblico a livello nazionale con una serie di scoop importanti, anche se forse su alcune vicende discutibili, che non sempre il lettore può valutare pienamente.
 
Le sue denunce, per esempio, vertono spesso su scandali sessuali, ben più di quanto sarebbe opportuno fare. È difficile per chiunque “spiare” i politici nelle camere d’albergo, e quindi abbiamo pochi mezzi per giudicare la veridicità o meno delle sue affermazioni.
 
Detto questo, gli esperti politici – sia in Alabama che a livello nazionale – trovano queste storie di grande interesse nelle loro conversazioni private. Le testate mainstream le ignorano, tranne quando “accidentalmente” scoppia qualche scandalo e il giornalismo normalizzato può giustificare quella segnalazione ai lettori.
 
Anche in quei casi, tuttavia, raramente s’informa il pubblico sul fatto che alcuni di questi scandali sessuali nascono in maniera deliberata grazie al lavoro dei ‘ricercatori’ politici dell’opposizione, che raccolgono dei dossier per poi usarli come arma di ricatto politico. Questa parte oscura del mondo politico esiste e tende a rimanere off-limits per i media, soprattutto perché alcuni reporter ne sono complici.
 
Invece, i giornalisti preferiscono la routine, come gli eventi organizzati in cui i cronisti funzionano più come stenografi che come watchdog indipendenti nell’interesse dei cittadini. I redattori del Wall Street Journal hanno ammesso che il 90% dei loro articoli partono da un comunicato stampa.
 
Questo tipo di eventi tentano di conservare qualche traccia di glamour grazie a cerimonie autocompiaciute di premiazione, con la partecipazione di qualche membro del governo o con l’intrattenimento offerto da giornalisti vip (soprattutto di Washington) – e, naturalmente, con una buona dose di retorica sulla stampa libera del Paese e il Primo Emendamento.
 
Il National Press Club, per esempio, ha programmato, in collaborazione con le autorità federeali, vari incontri nell’arco dei prossimi mesi, sotto il titolo Sunshine Week and Freedom of Information. Eppure il club non si è degnato di scrivere neanche una semplice lettera di protesta contro il trattamento inflitto a Shuler, nonostante i miei ripetuti solleciti.
 
Allo stesso modo,  nulla ha fatto la Society of Professional Journalists, nonostante abbia inviatouna decina di richieste in questo senso a vari funzionari a livello nazionale, in Alabama e anche a Washington.  La Online News Association, fondata per promuovere il blogging e l’informazione online, ha tirato in ballo la mancanza di risorse o altre scuse quando ho chiesto loro di fare qualcosa sul caso Shuler .
 
Peggio di tutto, a mio parere, si è comportato l’Investigative Reporters and Editors (IRE), che ha sede presso la University of Missouri School of Journalism. Nessuno dei dirigenti dell’IRE ha risposto alle mie mail su Shuler (inviate come loro membro), che tra l’altro è un ex allievo del prestigioso istituto.
 
Ricapitolando: lo sfondo del caso Shuler
 
Shuler e la moglie Carol sono praticamente senza un soldo. Il giornalista ha detto che sua moglie ha perso 13 chili per lo stress, e si nasconde in casa nel timore di essere arrestata, anche se – spiega il marito – è una paura ingiustificata perché lei non aveva niente a che fare con la sua attività prima dell’arresto.
 
Riley al contrario era un ricco faccendiere che stava per candidarsi al Parlamento statale nel distretto di Birmingham: candidatura poi andata in fumo, dopo gli articoli in cui Shuler lo accusava di aver mandato all’ aria il suo matrimonio per aver avuto un affaire con la Duke e averla fatta abortire.
 
Ulteriori dettagli sono disponibili sul mio sito web, Justice Integrity Project, e nel mio recente libro, Presidential Puppetry: Obama, Romney and Their Masters (“Burattini presidenziali: Obama, Romney e i loro padroni”).

 

Il giornalista incarcerato
 
Il Committee to Protect Journalists, una delle poche associazioni giornalistiche che ha protestato contro il trattamento inflitto a Shuler, lo indica nel suo Rapporto annuale come “l’unico giornalista detenuto nell’emisfero occidentale alla fine del 2013”. Il Reporters Committee for Freedom of the Press ha poi inviato una missiva di proteste ai giudici.
 
Queste azioni hanno spinto diversi altri gruppi a parlare brevemente di lui nelle loro newsletter o altre pubblicazioni. Ma questi sforzi sparsi e sporadici non hanno avuto alcun impatto sul sistema giudiziario, che sembra determinato a distruggere Shuler e sua moglie finanziariamente e su altri piani.
 
Il giornalista televisivo Peter B. Collins ha seguito l’arresto di Shuler e ne abbiamo discusso in una intervista di un’ora, andata in onda  il 12 marzo. Oltre a parlare degli attacchi globali ai diritti civili, abbiamo analizzato il caso Shuler come un capitolo della lotta del profondo Sud per i diritti civili.
 
Ho incontrato Shuler per la prima volta dopo aver letto quasi quotidianamente il suo blog sulle vicende giudiziarie del profondo Sud. Oggi egli vive in una cella di 6 metri per 4. Indossava una divisa sbiadita da recluso a strisce orizzontali. I prigionieri erano a piedi nudi in sandali in gomma.
 
Lo tengono in un isolamento così severo che, mi ha detto, non era riuscito a leggere quasi nessuno degli articoli dedicati alla sua vicenda, compresa la mia mezza dozzina di servizi.

 

Ha rifiutato carta e penne che volevo lasciargli in modo che potesse scrivere qualcosa sulle richieste di scarcerazione o sui ricorsi in appello contro decisioni procedurali che sono chiaramente in violazione di legge.
 
«Le guardie mi sequestrerebbero tutto non appena te ne sarai andato», mi ha spiegato. «Mi piacerebbe avere carta e penna, ed essere in grado di stendere i ricorsi e le istanze  necessari per uscire di qui. Ma è inutile. Quei materiali devono passare dall’Ufficio commissariato del carcere».

 

Diversi giudici ce l’hanno proprio con Schuler. Il primo di questi, Claud Neilson, non è nemmeno un giudice vero e proprio, ma è stato eletto imporre gli standard procedurali. Neilson è un avvocato che, fra l’altro, rappresentava coloro che avevano fatto ricorso contro lo studio legale afro-americano specializzato nella difesa delle vittime di discriminazioni, Chestnut, Sanders and Sanders, di Selma, in una grossa causa politica che era costata molti milioni di dollari e che aveva messo in forti difficoltà lo studio.
 
Il responsabile del sistema giudiziario dell’Alabama, Roy Moore, divenuto famoso per aver rifiutato di rimuovere un monumento ai Dieci Comandamenti dal palazzo di giustizia come aveva invece stabilito la Corte Suprema Usa, ha affidato a Neilson l’incarico di giudice part-time per seguire il caso Shuler, facendo in modo che non fosse inserito nell’elenco dei procedimenti e non si sapesse in quale aula si sarebbero tenute le relative udienze.
 

Il pestaggio e l’incarcerazione di Shuler nell’ottobre scorso, sulla base di un’ordinanza dello stesso Neilson, ha avuto l’effetto di mettere a tacere una delle principali voci in difesa dei cittadini in Alabama e nel profondo sud.
 
Anche quanti non apprezzano amano Shuler e il suo modo di fare giornalismo, e le vittime dei suoi commenti, dovrebbero preoccuparsi per l’attacco ai diritti civili evidente nel trattamento riservatogli. Le tutele costituzionali sono state create dai Founding Fathers e vengono affermate dai tribunali per proteggere tutti i cittadini, non solo i giornalisti.
 

Teoricamente, la Suprema Corte dovrebbe proteggere tutti – tranne Shuler, a quanto pare. I suoi giudici, per quanto ho visto, non hanno mai applicato il principio emerso dalla storica causa di Sullivan, anche se è impossibile per gli osservatori esterni raccontare quanto è accaduto in aula, visto il secreto che ha colpito le udienze del processo. Ciò in palese violazione del principio del processo equo per ogni cittadino.
 
Alla radice di tutto ciò emerge l’elemento fondamentale della giustizia: la possibilità di essere ascoltato, il diritto di avere un avvocato, o almeno carta e penna per comunicare con i giudici senza essere tenuto in catene e rimproverato da un giudice la cui nomina è di origine misteriosa.
 
Conclusioni
 
In questi giorni il 50° anniversario del caso sentenza Sullivan viene ampiamente celebrato nei circoli mediatici. La sentenza era nata nei giorni più bui della lotta per i diritti civili in Alabama. Eppure le implicazioni di quella decisione vengono ora ignorate nella vicenda Shuler da una nuova generazione di oppressori dei diritti umani, in Alabama e anche a livello nazionale, come anche dalle schiere di professori e giornalisti dei media mainstream, che trovano ogni scusa, a quanto pare, per evitare di prendere posizione.
 
C’ è un grande snobismo a livello professionale. Molti si schiererebbero a difesa di un giornalista dell’elite di qualche grossa testata, qualora fosse in gioco una campagna per la libertà di stampa.

 

Ma Shuler è solo. Non ha una redazione alle spalle. Il suo sito è stato l’unico nell’elenco dei primi 50 blog di cronaca giudiziaria che non abbia mai ricevuto alcun sostegno finanziario. E quindi ha poco o nulla da offrire ai suoi lettori, tranne quegli articoli.
 
Tutto ciò rientra in una tradizione più ampia. Tom Paine era un semplice “blogger solitario”, facendo le dovute proporzioni con gli standard odierni, anche quando il suo pamphlet Common Sense vendette due milioni di copie nelle colonie americane.
 
Barzillai Hudson e George Goodwin, editori di più grande giornale Usa durante la Rivoluzione, erano stati condannati alla reclusione per aver criticato il presidente Jefferson, giustamente famoso come sostenitore della libertà di stampa, tranne, a quanto pare, nel caso di critiche alla sua stessa presidenza .
 
Certo, non tutti possono avere l’eloquenza e l’acume di Martin Luther King, Tom Paine o Hudson e Goodwin. Ma per lottare contro le ingiustizie non è detto che queste debbano essere di portata storica. Possiamo fare qualcosa per i problemi di tutti i giorni e su cui abbiamo un certo controllo.
 
E se c’è qualche giornalista fra i lettori di questo articolo deve chiedere alla sua organizzazione di prendere posizione sul caso Shuler. Ciò non significa che dica la verità in tutti i suoi articoli o che non debba essere punito, se dovessero arrivare smentite documentate. Ma questo va affermato solo dopo un giusto processo.
 
Finora Shuler è stato defraudato i suoi diritti. Una volta la gente combatteva per tutelare questi diritti. Dobbiamo fare così anche oggi .

 

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