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Ordine dei giornalisti: rompere le righe?

Rompere le righe? Abbandonare un Ordine che “non è riformabile da dentro”’ e battersi per un nuovo istituto in grado di adeguarsi alle profonde trasformazioni della professione?

È lo scenario – un orizzonte del tutto nuovo – apertosi dopo le dimissioni dal Consiglio nazionale di tre giornalisti romani dell’area progressista di “Liberiamo l’informazione”: Carlo Bonini, Pietro Suber e Anna Bandettini.

Alle loro dimissioni e alle motivazioni che le hanno determinate è stata dedicata una parte del dibattito al Consiglio nazionale che si è tenuto in questi giorni nel salone risorgimentale dell’Hotel D’Azeglio, a Roma.

di Pino Rea

Lo spunto per le dimissioni è stato fornito dalla riammissione nell’ Ordine della Lombardia di Renato Farina, il famoso “agente Betulla” al soldo dei servizi segreti, che si era dimesso dall’Ordine qualche giorno prima di essere radiato e che ora ha richiesto – e ottenuto con voto unanime del Consiglio dell’ Ordine della Lombardia – di tornare nell’albo. E dalla ipotesi (poi rientrata precipitosamente) di nomina nella commissione di esame di un giornalista/editore napoletano molto chiacchierato, Giovanni Lucianelli, che si è “volontariamente” fatto da parte.

Ma le dimissioni vanno oltre il “caso Farina”, investono la natura stessa di questo Ordine e si fondano sulla convinzione che esso sia sostanzialmente non riformabile e che sia necessario pensare a un nuovo soggetto, in grado di riflettere i cambiamenti e le trasformazioni che il giornalismo, i giornalismi, stanno vivendo.

Le dimissioni rappresentano in pratica un atto politico di totale sfiducia nei confronti dei vertici di un Ordine ipertrofico, che raccoglie nei suoi albi più di 110.000 giornalisti, oltre metà dei quali sono, professionalmente parlando, dei “fantasmi” in quanto privi di qualsiasi posizione contributiva e quindi, di fatto, improduttivi. Un Ordine assolutamente incapace di assumere un ruolo e una fisionomia adeguato alle trasformazioni in atto, che lo stesso Bonini e il sottoscritto, insieme a tutti gli aderenti all’area di “Liberiamo l’informazione”, avevano cercato di interpretare delineando un progetto di un “nuovo Ordine”, seccamente bocciato dal Consiglio nazionale.

Dice Bonini, nella conclusione della sua lettera di dimissioni:

“Sono consapevole di lasciare un lavoro a metà. A cominciare da un progetto di Riforma dell’Ordine su cui mi ero impegnato (…), che questo Consiglio ha respinto nei mesi scorsi perché ritenuto ‘insostenibile perché troppo avanzato’ e che personalmente mi auguro trovi prima o poi fortuna e interlocutori. A questo punto, fuori dal Consiglio. Di questo lavoro a metà chiedo scusa ai molti colleghi per bene di questo Consiglio che ho imparato a conoscere e stimare in questo anno e ai tanti colleghi che mi hanno dato il loro voto. Ma davvero non c’è posto per me in questo consesso che si è evidentemente rassegnato ad essere solo il simulacro di ciò che vorrebbe difendere e dice di voler difendere”.

E Suber esordisce proprio dallo stesso punto:

“Tutti i tentativi di cambiare, di riformare quest’Ordine dei giornalisti – prematuri o meno, sbagliati o troppo avanzati che dir si voglia – si siano frantumati contro un muro, quello dei tanti consiglieri che non solo vogliono difendere uno status quo indifendibile da qualsiasi punto di vista ma che negano di fatto gli stessi principi fondanti dell’Ordine”.

Infine, Bandettini pone esplicitamente “la questione politica” relativa al Consiglio stesso, alla sua funzione, al suo ruolo nella tutela della nostra professione, e all’impossibilità di operare qualunque cambiamento.

 

Ecco di seguito il testo integrale delle lettere dei tre consiglieri dimissionari.

1) La lettera di Carlo Bonini:

Roma, 7 ottobre 2014

Caro Presidente, Cari Colleghi,

Rubo poco del vostro preziosissimo tempo per comunicarvi le mie irrevocabili dimissioni da consigliere nazionale dell’Ordine e darvi conto delle ragioni della mia decisione.

Sono diventato giornalista professionista il 15 ottobre del 1992 e sono entrato per la prima volta in una redazione a 19 anni, nel 1986. Ho da allora un solo padrone: la mia coscienza. E una sola bussola: la coerenza dei comportamenti, giusti o sbagliati che possano essere giudicati. Un anno fa, ho accettato di candidarmi per il Consiglio. Perché ero convinto – e resto convinto – che se si vogliono cambiare le cose, sia necessario mettersi in gioco. Anche a rischio di perdere, perché nella sconfitta non c’è vergogna, se leale. Ritenevo di essere in compagnia di colleghi che, pur pensandola diversamente da me, con me condividessero i principi di questo mestiere. O, comunque, un orizzonte etico minimo. Che nulla è “irriformabile”.

Mi sbagliavo. E non prenderne atto sarebbe un inganno. Con me stesso, con voi, con chi, con il suo voto, ha voluto che sedessi in questo Consiglio.

Cosa gli avrà mai fatto ha cambiare idea?”, vi chiederete, dunque. È accaduto che il 3 settembre scorso, Renato Farina (è impossibile per me chiamarlo collega), già collaboratore retribuito del Servizio segreto militare di questo Paese con nome in codice “Betulla”, sia stato reintegrato con voto unanime dell’Ordine della Lombardia in quell’Albo di cui faccio e facciamo tutti parte.

La memoria di questo Paese è corta. Istantanea, direi. Quella dei suoi giornalisti, per lo più cangiante, variabile alle convenienze. E dunque, a beneficio degli smemorati, vi riporto testualmente quanto questo Consiglio Nazionale comunicava il 29 marzo del 2007, giorno in cui Renato Farina veniva radiato dall’Ordine con 68 voti a favore, 5 astenuti, 2 contrari e 4 schede bianche. Scriveva la commissione ricorsi: «Il comportamento di Farina resta incompatibile con tutte le norme deontologiche della professione giornalistica ed ha provocato un gravissimo discredito per l’intera categoria. E non solo in relazione alla vicenda Abu Omar e ai rapporti con Pio Pompa. E’ Farina che, nelle sue difese, rivela e rivendica un ruolo in una trattativa con Milosevic, ruolo che autorevoli membri del governo dell’epoca negano abbia mai avuto. E’ Farina che fa riferimento a suoi rapporti con un servizio ultra segreto statunitense (una Cia parallela agli ordini diretti di Condoleezza Rice). E’ Farina che dichiara ai magistrati di aver accettato dai servizi all’incirca 30 mila euro».

Sette anni sono stati un tempo sufficiente a questo Ordine per trasformare la notte in giorno. La vergogna e il discredito in perdono e resurrezione. E allora lasciate che vi racconti io un pezzo di questa storia che qualcuno ha dimenticato o forse ignora. Renato Farina, alias “Betulla”, ebbe tra i suoi “target” spionistici anche il lavoro giornalistico per “Repubblica” del sottoscritto e di chi non può più parlare, perché un infarto lo ha portato via troppo presto la mattina del 30 luglio 2011: Giuseppe D’Avanzo. Un amico di cui ho pudore a parlare. Per me, un padre non solo della professione.

Nei giorni dell’inchiesta su Abu Omar e del coinvolgimento del Sismi nel suo sequestro per mano della Cia, Renato Farina osservava vigliacco i miei movimenti e quelli di Peppe. Nei nostri appuntamenti con le fonti. E se possibile anche nel giardino dell’albergo “Diana” di Milano, dove ci mettevamo a discutere sul da farsi scioccamente convinti di essere lontani da orecchie indiscrete. Ascoltava, annotava, e ne dava tempestivo conto ai suoi “handler” nel Servizio: Pio Pompa, custode per conto di Nicolò Pollari dell’ufficio riservato del Sismi in via Nazionale; Marco Mancini, allora capo della divisione antiterrorismo e oggi dirigente del Dis (Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza). Io e Peppe ci mettevamo la faccia, il lavoro paziente della ricerca della verità. “Betulla”, la doppiezza miserabile di chi ha venduto l’anima al Diavolo. Il nostro lavoro, le nostre vite, diventarono uno scartafaccio impilato nell’archivio dei dossier che il Servizio in quegli anni affastellava sul conto di magistrati, politici, giornalisti da “disarticolare”.

Quello che vi racconto è in atti giudiziari di processi pubblici passati in giudicato e istruiti da un magistrato coraggioso come Armando Spataro, nel lavoro di una commissione di inchiesta del Parlamento Europeo sulle “extraordinary renditions” presieduta dall’allora eurodeputato Claudio Fava, di fronte alla quale deposi quale teste e parte offesa, in copiosi articoli di stampa. Qualcuno deve esserseli persi.

Tre anni fa, quando Peppe è morto, la categoria si è sperticata in commossi necrologi, pubblici attestati di stima. Peppe è stato pianto e celebrato, come è giusto che fosse, come un pezzo fondante del meglio del Giornalismo italiano. Del resto, le parole non costano fatica. E il vantaggio di parlare di e per conto di chi non c’è più può avere un grande vantaggio: non comporta l’assunzione di alcuna responsabilità o coerenza nei comportamenti. Si può serenamente riprendere a fare il contrario di ciò che chi non c’è più faceva o avrebbe fatto. “Passata la festa, gabbato lo santo”, dice del resto il proverbio.

Ebbene, la riammissione di Betulla nell’Ordine oltraggia non solo la memoria di Giuseppe D’Avanzo, ma soprattutto quello che ha dato al giornalismo. E il silenzio è dei complici. Lo dico a chi, in questo Consiglio, con un’ennesima cinica capriola, dovesse rifugiarsi nel pensiero consolatorio che le mie dimissioni siano per “fatto personale”. Gli stessi da cui non ho sentito dal 3 settembre in avanti levarsi una voce, sia pure flebile. Che so, un fremito, magari dopo che la notizia della riammissione di Betulla era stata resa pubblica dal quotidiano “il Fatto”. Nulla. Calma piatta. Come la doppia e ipocrita coscienza di molti che fanno questo mestiere, nascosti dal comune tesserino di appartenenza all’Ordine e dalla memoria tenera delle testate per cui lavorano.

Del resto, cosa ci si può attendere da un consesso che sceglie Giovanni Lucianelli tra i membri effettivi della commissione di esame per giornalisti professionisti che sta attualmente tenendo la sua 118esima sessione (http://www.odg.it/category/categoria-notizia/notizie-esami).

E perché, vi chiederete? Chi è questo collega che giudicherà di qui al prossimo 28 ottobre dell’idoneità professionale e dell’integrità di ragazze e ragazzi con negli occhi la passione per questo mestiere? Per non annoiarvi, allego a questa mia lettera di dimissioni un dettagliato articolo apparso sul “Sole 24 ore” già nel 2006 e ne indico per comodità anche il link (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Attualita/2006/12/011206fedelissimi_degregorio.shtml?uuid=274664c0-810f-11db-88d7-00000e251029).

Già, anche Lucianelli è uno di noi. Direi di più: la nostra faccia dentro e fuori la categoria visto l’incarico di commissario d’esame. E, del resto, ha un mentore professionale d’eccezione, l’ex senatore e pregiudicato Sergio De Gregorio, e una lunga storia professionale che definire opaca è un eufemismo. Che ha spesso incrociato il codice penale e non per reati professionali.

Farina, Lucianelli. Cos’altro vi attende e ci attende? Quale altro tradimento siamo, siete pronti a consumare? Cosa vi preparate a raccontare a chi, oggi, si sbatte per poche centinaia di euro lorde al mese credendo in quello che fa e rischiando spesso la pelle per uno scatto o per l’ostinazione di scrivere un nome impronunciabile in una cronaca locale? Butto lì un’idea: perché, contando già su Lucianelli agli esami di idoneità, non pensare a Renato Farina per la formazione permanente, magari da tenere in una sala intitolata a “Giuseppe D’Avanzo”?

Non vi annoio oltre. Io, da oggi, separo la mia strada dalla vostra e renderò pubblica questa mia lettera di dimissioni che chiedo venga formalmente messa agli atti del Consiglio, perché nessuno, un giorno possa dire, “non sapevo”, “non c’ero”, “nessuno me lo ha detto”. Sono consapevole di aver perso la mia battaglia qui dentro. E sono consapevole di lasciare un lavoro a metà. A cominciare da un progetto di Riforma dell’Ordine su cui mi ero impegnato, che immeritatamente porta il mio nome e quello del collega Pino Rea, che questo Consiglio ha respinto nei mesi scorsi perché ritenuto “insostenibile perché troppo avanzato” e che personalmente mi auguro trovi prima o poi fortuna e interlocutori. A questo punto, fuori dal Consiglio. Di questo lavoro a metà chiedo scusa ai molti colleghi per bene di questo Consiglio che ho imparato a conoscere e stimare in questo anno e ai tanti colleghi che mi hanno dato il loro voto. Ma davvero non c’è posto per me in questo consesso che si è evidentemente rassegnato ad essere solo il simulacro di ciò che vorrebbe difendere e dice di voler difendere.

In fede,
Carlo Bonini

2) La lettera di Pietro Suber:

Roma, 7 ottobre 2014

Alla cortese attenzione del Presidente e dell’esecutivo del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti.

Ritengo che le motivazioni riportate dal collega Carlo Bonini per le sue dimissioni siano ineccepibili nella forma e nella sostanza. Penso che tutti i tentativi di cambiare, di riformare quest’Ordine dei giornalisti – prematuri o meno, sbagliati o troppo avanzati che dir si voglia – si siano frantumati contro un muro, quello dei tanti consiglieri che non solo vogliono difendere uno status quo indifendibile da qualsiasi punto di vista ma che negano di fatto gli stessi principi fondanti dell’Ordine.

La triste pantomima dei tentativi di riforma, tutti più o meno naufragati nel nulla, la riammissione all’unanimità di Renato Farina, alias “Betulla”, da parte dell’Ordine della Lombardia, la scelta di personaggi già coinvolti in vicende molto discusse come Giovanni Lucianelli tra i membri della commissione d’esame per giornalisti professionisti sono solo gli ultimi esempi di punti, a mio modesto avviso, di non ritorno: lista alla quale vorrei aggiungere la miopia di un Consiglio dell’Ordine che continua ad arroccarsi dietro alcuni privilegi senza capire che la barca sta affondando e che ci siamo sopra tutti, professionisti e pubblicisti, garantiti e meno garantiti (che sono chiaramente la maggioranza).

Da ultimo nella lista di cui sopra vorrei inserire la questione non certo secondaria del controllo sul codice deontologico, questione nascosta velocemente sotto il tappeto come dimostra la recente assoluzione da parte dell’assemblea del consigliere Andro Merkù, protagonista delle imitazioni utilizzate dalla trasmissione radiofonica “La Zanzara”. Violazione del codice deontologico accertata, se ce ne fosse il bisogno, da ultimo anche dal Garante per la privacy in una delle sue ultime riunioni di fine settembre.

Certo, inutile nascondere che le dimissioni sono comunque una sconfitta anche personale. Il tentativo di cambiare le cose – di portare avanti una riforma radicale di una legge (quella istitutiva dell’Ordine) che risale a più di 50 anni fa – è stato fatto in questo anno e mezzo ma è stato bocciato più volte dalla maggioranza del Consiglio. La sconfitta sta nell’ordine delle cose e del gioco democratico, non però le altre innumerevoli decisioni, a mio avviso inaccettabili se un Ordine professionale vuole chiamarsi tale.

Le mie dimissioni irrevocabili vogliono riaffermare che sic stantibus questo Consiglio non potrà cambiare nulla se non in peggio. Quindi non mi resta che trarne le conseguenze per evitare che qualcuno, prima o poi, possa accusarmi di omertà o peggio di collusione. Preso atto che questo Ordine non è riformabile da dentro cercherò di proseguire il mio impegno per cambiare le cose da fuori.

Pietro Suber

3) La lettera di Anna Bandettini:

Spett.le Presidente Enzo Iacopino, per Consiglio Nazionale Ordine Giornalisti e p.c. Consiglio regionale Ordine Giornalisti Lombardia.

Questa mia per comunicare che in data odierna rassegno le dimissioni dalla carica di consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti. Ritengo che le dimissioni dei colleghi Carlo Bonini e Pietro Suber di ieri abbiano infatti sollevato questioni e problematiche all’interno di questo Consiglio che non si conciliano più con i valori e i presupposti che mi avevano fatto accettare questa carica.

La dura denuncia dei colleghi, va perfino al di là del caso “Farina”, che pure personalmente considero gravissima : perché le disdicevoli vicende che vedono protagonista questa persona non solo hanno coinvolto colleghi della testata per cui anch’io lavoro e hanno calpestato il lavoro di inchiesta di stimatissimi e indimenticati giornalisti, ma calpestano ancora oggi, con la riammissione nell’Ordine di Farina, valori di moralità e deontologia che sono il fondamento della nostra professione. Il “caso Farina” non era infatti solo un fatto tecnico, di routine amministrativa, come qui ho sentito dire: io credo che l’Ordine della Lombardia o quello Nazionale, di fronte a un “caso” così grave , avrebbero dovuto trovare i modi di intervenire, anche senza contravvenire a una sentenza della Cassazione. Dovrebbero già avere gli strumenti opportuni di difesa, gli anticorpi necessari per “espellere” il virus. Cosa non accaduta.

Ma non è solo solo questo “caso”, dicevo. Sono le ragioni complessive delle dimissioni dei due colleghi a sollevare a mio parere una questione “politica” in seno al Consiglio stesso, alla sua funzione, al suo ruolo nella tutela della nostra professione, e all’impossibilità di operare qualunque cambiamento. Per tante ragioni. Non ultima il silenzio stesso con cui le dimissioni dei due colleghi sono state accolte. Un silenzio per me più preoccupante delle dimissioni stesse: il fatto che il consiglio non abbia ritenuto di spendere mezza parola su quello che i colleghi Bonini e Suber ieri ci hanno detto è il segno che le loro ragioni sono autentiche.

Ho voluto condividere queste riflessioni con i colleghi a cui per visioni e principi mi sento più legata, una compagine di minoranza all’interno del Consiglio che ha fatto e continua a fare battaglia dentro il Consiglio. Dalle nostre riflessioni sono emerse strategie di intervento diverse dalle mie che rispetto e reputo altrettanto importanti.

Ma ritengo necessario farmi da parte, impegnandomi da subito a proseguire il lavoro fuori dal Consiglio, nella convinzione che l’Ordine o si cambia o si chiude.

Cordiali saluti,
Anna Bandettini

Di seguito alcune valutazioni del presidente dell’Ordine della Lombardia, Gabriele Dossena, in merito alla riammissione di Renato Farina.

Un Ordine professionale non agisce in base a opinioni personali, ma seguendo leggi e regolamenti. Proprio per questo e proprio per il tipo di personaggio in questione – sul quale ognuno di noi può esprimere il proprio giudizio, anche aspro – la decisione è stata particolarmente difficile, e in ogni caso presa dal Consiglio all’unanimità perché dal punto di vista tecnico-procedurale non c’erano altre possibilità, visto che Renato Farina, al momento della sua richiesta di riammissione all’Albo, era in possesso di tutti i requisiti formali (previsti dagli articoli 29 e 31 della legge n. 69/63) per essere effettivamente riammesso.
In particolare, la “radiazione” di Farina era già stata annullata dalla Corte di Cassazione con sentenza del 27 maggio 2011. E tra l’altro non è neppure propriamente corretto parlare di radiazione poiché lo stesso Farina ha volontariamente chiesto di dimettersi dall’Albo il 2 marzo 2007, senza attendere la formale radiazione. L’Ordine ha quindi registrato le sue dimissioni il 20 marzo 2007.

Ciò detto, va però anche precisato che dopo 5 anni (art. 59 Legge n. 69/63 e art. 7 del Regolamento di disciplina) è possibile chiedere la reiscrizione all’Albo (art. 42 Legge n. 69/63) e comunque “quando sono cessate le ragioni che hanno determinato la cancellazione”. Nel caso di Farina sono passati più di 7 anni. La norma citata riguarda poi la cancellazione d’ufficio, mentre non è applicabile in caso di dimissioni volontarie, come nel caso di Farina. Altro particolare: la legge non dà all’Ordine il potere di interdizione a vita dall’Albo.

Già una volta, in precedenza (quasi due anni fa, il 16 ottobre 2012), poco dopo la scadenza dei 5 anni, Farina aveva chiesto la riammissione. In quel caso fu respinta perché il personaggio in questione aveva dichiarato che riteneva di non aver violato nulla e anzi di aver svolto il ruolo contestatogli come doveroso servizio allo Stato. Di fronte a queste dichiarazioni, la riammissione fu legittimamente respinta.

Ora l’audizione di Farina a sostegno della sua richiesta di riammissione, che si è svolta il 3 settembre scorso, è stata completamente differente. Farina ha dichiarato di aver compreso di aver violato le regole della comunità giornalistica e si è impegnato a rispettarle. A questo punto non era più possibile mantenerlo forzatamente al di fuori dell’Albo e se l’Ordine ne avesse impedito la riammissione si sarebbe esposto a una violazione di un suo diritto, con tutte le conseguenze del caso. In definitiva, i consiglieri dell’Ordine della Lombardia avevano di fronte una strada obbligata, anche per evitare un processo penale a loro carico per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio.

Gabriele Dossena, Presidente Ordine dei Giornalisti della Lombardia.

Per ulteriori dettagli, rimandiamo infine alle considerazioni sul futuro del giornalismo professionale e al dibattito sulle linee per la riforma dell’Ordine bocciato dal Cnog perché “troppo avanzato”.

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