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Quel terribile 1994, cinque giornalisti italiani uccisi. Il premio Luchetta compie 10 anni e ricorda anche Sasa Ota e Dario D’ Angelo

Giunto alla sua undicesima edizione, il Premio Giornalistico Internazionale Marco Luchetta festeggia i suoi primi dieci anni con due grandi novità: la possibilità di partecipare anche con articoli pubblicati sul web e una tre giorni di festival giornalistico a Trieste.

Dal primo al 3 luglio incontri e dibattiti sul tema dei ‘diritti’.

La ”Fondazione per i bambini vittime delle guerre’’.

 

 
di Fabio Dalmasso

 

Luchetta, Ota, D’ Angelo

Il 1994, quello che fu l’annus horribilis per il giornalismo italiano, si aprì il 28 gennaio con la notizia della morte di Marco Luchetta, SaÅ¡a Ota e Dario D’Angelo uccisi a Mostar da una granata mentre stavano realizzando uno speciale per il TG1 su bambini vittime della guerra nell’ex Jugoslavia. Dopo meno due mesi, il 20 marzo, furono invece i nomi di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin a rimbalzare su tutti i media dopo la loro uccisione a Mogadiscio.

 

Cinque morti sul campo, cinque professionisti del giornalismo che persero la vita mentre svolgevano il loro lavoro, ma che dietro di loro lasciarono un ricordo indelebile che si è tradotto anche nelle attività della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin onlus, per i bambini vittime di tutte le guerre , presieduta da Daniela Luchetta, moglie di Marco, e nel Premio Giornalistico Internazionale Marco Luchetta, giunto quest’ anno alla sua undicesima edizione con alcune grandi novità.

 

Internet e festival del giornalismo

 

La prima novità è che quest’anno potranno partecipare al premio anche gli articoli pubblicati su siti web purché questi siano registrati come testate: «Inoltre – aggiunge Giovanni Marzini, giornalista e segretario del premio – il premio cresce e non sarà solo la serata finale trasmessa da Rai 1, ma anche un mini festival del giornalismo, una tre giorni, dal 1° al 3 luglio, di incontri e dibattiti con le grandi firme del giornalismo nazionale e internazionale oltre che con i vincitori delle diverse sezioni».

 

L’“Antepremio Lucchetta 2014” avrà come sottotitolo “Il dovere di informare, il diritto di essere informati”. «Il festival sarà costruito attorno alla parola diritti – sottolinea Marzini – dietro quella parola c’è tutto: i diritti dei bambini ad essere rispettati e a vivere la propria vita senza soprusi e violenza, i diritti dei più deboli, ma anche il diritto ad informare e ad essere informati con una buona e corretta informazione. È anche la caratteristica del premio che celebra un certo modo di intendere giornalismo che non è gossip, non è macchina del fango: un modo che si ispira e che, ne  siamo certi noi che ci abbiamo lavorato assieme, era il modo di intendere giornalismo di Luchetta, Ota, D’ Angelo».

 

Un premio internazionale

 

Un aspetto questo che Marzini tiene a sottolineare: «A differenza di altri premi giornalistici, il nostro non viene assegnato a tavolino al giornalista di turno alla moda, il personaggio che ti può dare un riscontro in termini di attenzione mediatica: c’è un lavoro di selezione sugli articoli che arrivano e che hanno come argomento comune i minori. Ogni anno arrivano centinaia di servizi e reportage».

 

I lavori selezionati concorrono all’assegnazioni dei premi previsti nelle quattro sezioni: Premio Marco Luchetta, per il miglior servizio giornalistico trasmesso su un’emittente europea e per il miglior articolo pubblicato su quotidiani o periodici nazionali; Premio Alessandro Ota per il miglior servizio di approfondimento trasmesso su un’emittente europea; Premio Dario D’Angelo per il miglior articolo pubblicato su quotidiani o periodici europei, non italiani, e Premio Miran Hrovatin per la migliore fotografia pubblicata su un quotidiano o periodico internazionale.

 

Quella che era partita come piccola iniziativa per ricordare i colleghi e tenere viva l’attenzione sull’attività della Fondazione, è diventata quindi un punto di riferimento per il giornalismo internazionale che nel 2013 ha visto premiati lavori pubblicati su The Times o trasmessi su Bbc News e Wtv News.

 

La fondazione per i bambini

 

Un premio che nasce anche per ricordare la grande e importante attività della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin onlus, per i bambini vittime di tutte le guerre che a breve inaugurerà il terzo centro di accoglienza a Trieste.

 

Una storia lunga venti anni che rivive nelle parole di Daniela Luchetta, moglie di Marco: «La fondazione è nata in seguito a quanto successo il 28 gennaio del 1994 quando Marco, mio marito, si trovava a Mostar insieme a Saša Ota e Dario D’Angelo per fare un servizio sui bambini persi durante la guerra: il servizio, infatti, si chiamava “I bambini senza nome”, bambini che vivevano in una condizione di abbandono perché i genitori non si sapeva se fossero morti o persi durante la guerra».

 

Nella città divisa in due, con i bosniaci evacuati dalla parte ovest, ammassati in rifugi nella zona est e quotidianamente bombardati, i tre riescono ad entrare nella zona orientale grazie all’Onu: «Sono arrivati in questo edificio, il retro di un grande magazzino, dove alcune persone si erano rifugiate da circa un anno. Sono entrati per fare delle interviste, ma siccome mancava della luce per fare le riprese, sono usciti di nuovo dal rifugio e lì è esplosa una granata che ha ucciso tutti tre. Insieme a loro si trovava Zlatko Omanovic, un bambino di quattro anni che viveva nel rifugio da un anno, assieme alla mamma e alla nonna. Lui è corso dietro a Marco, a Saša e a Dario perché era un bimbo anche annoiato e per lui era un grande diversivo vedere queste persone che venivano lì e facevano domande. Devo dire che grazie al cielo è rimasto sotto ai corpi di loro tre, che di fatto gli hanno fatto da scudo».

 

Zlatko e gli altri bambini

 

«Saputo dell’esistenza di Zlatko – ricorda Daniela Luchetta – abbiamo iniziato e pensare che ci sarebbe piaciuto completare quello che loro avevano cominciato e quindi cercare di portarlo qua insieme alla sua famiglia». Costituito un primo comitato e superate le grandi difficoltà esistenti («gli stessi bosniaci non facevano uscire volentieri i bosniaci dalla Bosnia perché avevamo paura della pulizia etnica»), Zlatko e la madre riescono a raggiungere Trieste nel luglio 1994 ed è l’avvio di una lunga serie di interventi che ha portato il comitato a trasformarsi in Fondazione e ad occuparsi di tutti quei bambini che non sempre possono essere curati nei loro paesi, sia a causa della guerra sia per motivi di disagio economico e sociale.

 

Se inizialmente i bambini arrivavano soprattutto dai Balcani, nel tempo l’attenzione della Fondazione si è allargata e vi sono collaborazioni con le aree disagiate di tutto il mondo, dall’est Europa fino al Venezuela passando per l’Africa. I singoli casi segnalati alla Fondazione vengono valutati da un’equipe medica dell’ospedale Burlo Garofolo di Trieste: «Molte volte i bambini hanno solo bisogno di un supporto, di medicinali che possiamo spedire e così possono essere curati nei loro paesi. A tutto questo – aggiunge la presidente – si è affiancato anche un altro compito: considerato il grande disagio sociale che c’è anche in Italia, abbiamo stipulato una convenzione con il Comune di Trieste attraverso la quale aiutiamo le famiglie con bambini che si ritrovano temporaneamente in una situazione di disagio. Se serve le ospitiamo oppure paghiamo l’affitto, le bollette e diamo dei buoni spesa. Queste famiglie si appoggiano a noi e cerchiamo di fare dei progetti, dei programmi per aiutarle ad uscire da questo disagio».

 

L’attenzione dei media

 

La storia di Zlatko ha quindi dato il via a una serie di interventi fondamentali per tantissimi bambini: «Quando Marco, Saša e Dario sono morti – ricorda Daniela Luchetta – abbiamo avuto l’attenzione dei media di tutto il mondo, è stata una cosa clamorosa: quando sono andata a Mostar il Sindaco mi ha detto: ‘Il giorno dopo che suo marito è morto era talmente grande l’attenzione di tutto il mondo su Mostar che hanno smesso di bombardarci’. E allora uno dice che alla fine a qualcosa è servito».

 

Giovanni Marzini ricorda bene l’attenzione che fu riservata all’evento: «Erano i primi giornalisti della Rai a morire in missione di lavoro e per due giorni almeno fu l’apertura di tutti media italiani. A Trieste la cosa fu sentita in modo particolare». In quel periodo Marzini lavorava alla redazione regionale della Rai come caposervizio e aveva collaborato con tutti quattro, Luchetta, Ota, D’Angelo e Hrovatin.

 

«C’era conoscenza molto importante e profonda. Con Marco in particolare avevamo iniziato quasi assieme, era entrato in Rai due anni dopo di me, io nel 1988, lui nel 1990. All’inizio ci occupavamo soprattutto di sport, ma dopo l’inizio delle prime crisi, nel 1991, nella ex Jugoslavia, lui ha iniziato subito a seguire questi eventi e ha quindi iniziato a lavorare per testate nazionali, visto che la redazione di Trieste era una sorta di avamposto, un osservatorio privilegiato».

 

Un bersaglio mediatico

 

Marco Luchetta trovò sempre più spazio fino a quel gennaio 1994 quando furono la prima troupe di una televisione occidentale ad entrare a Mostar Est: «Anche con particolari che adesso fanno venire i brividi – conclude Marzini –  la mattina del 24 gennaio, con Mostar Est sotto assedio, avevano rinunciato e stavano rientrando a Trieste quando hanno incrociato un mezzo delle forze di pace. Una persona che Marco conosceva gli ha detto che forse c’era la possibilità di una finestra nei bombardamenti che avrebbe permesso di entrare nella città tra le 12 e le 14. Loro allora hanno deciso di fare quel tentativo. Poi si sono intrecciate anche alcune leggende che dicevano che forse non è stato tutto casuale. Erano sicuramente un bersaglio perché si voleva attirare l’attenzione su Mostar Est e colpire una troupe di una televisione occidentale italiana aveva una forza mediatica notevole. Infatti nei giorni successivi, sulla stampa locale, ci furono varie interpretazioni, con titoli forti sul fatto che fossero diventati bersaglio. Sembra appurato che furono comunque i croati a colpire».

 

Forza ed energia dalla città

 

«Il problema della Fondazione – conclude Daniela Luchetta – è che noi possiamo garantire i viaggi e l’assistenza, grazie ai nostri centri di accoglienza e alla collaborazione con una rete di volontari. La cosa più problematica è però coprire le spese di eventuali interventi che possono avere costi notevoli. Ci appoggiamo sul fondo regionale, ma ora è tutto un po’ da rivedere: abbiamo incontrato l’assessore per capire la posizione della Regione, ma siamo in continua ricerca di fondi. Ci sono comunque continue elargizioni da parte di privati e anche lasciti testamentari, molto importanti per portare avanti la Fondazione.

 

Bisogna dire che nonostante la crisi la Fondazione continua a godere di grande credito in città e voglio grazie a tutti quanti. Ricordo il calore da parte della città venti anni fa e lo sento ancora ora: se mi si chiede cosa ricordo di quel periodo del 1994, al di là di quello che è stato a livello personale, ricordo il calore delle persone, la solidarietà, l’energia incredibile che cercavano di trasmettermi, la partecipazione, i segni di incoraggiamento. Penso sempre che la Fondazione sia veramente il risultato dell’energia che è arrivata da tutte queste persone. Questa energia l’ho sentita, mi ha dato grande forza, mi ha trasmesso calore proprio quando ne avevo un gran bisogno».

 

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