Tempi duri per il NYT, dopo il licenziamento di Abramson un report denuncia falle nella strategia digitale
Proseguono frenetiche le reazioni nella media-sfera Usa (con ampi rilanci via Twitter) sul licenziamento in tronco, annunciato mercoledì pomeriggio, di Jill Abramson, top editor del New York Times, nota per aver portato la ‘parità di genere’ in quella redazione e per aver diretto in questi anni un team che ha vinto vari Premi Pulitzer e ha perfino fatto crescere le vendite.
Nelle ultime ore molto è stato scritto sul perché di questo inatteso terremoto, e come si è manifestato.
E pur se tutti i dettagli non sono ancora noti, tanti i reporter-segugi impegnati a scoprirlo (se mai ci riusciranno).
Secondo alcuni, tutta colpa del cattivo management del boss Arthur Sulzberger, che invece avrebbe dovuto e potuto «orchestrare un passaggio delle consegne ordinato» a favore di Dean Baquet, primo editor esecutivo afro-americano nella storia del New York Times. Sembra finanche che quest’ultimo, numero due sotto Abramson, abbia spinto per il cambiamento rapido dopo che questa «aveva provato ad assumere un editor dal Guardian per affiancarlo a Baquet, senza prima consultarsi con lui», secondo un fresco dispaccio apparso su Vox.
Ulteriori polemiche hanno suscitato le prime voci sul fatto che lo stipendio complessivo di Abramson (525.000 dollari l’anno) fosse inferiore a quello di pari-grado uomini, mentre un portavoce del NYT si è affrettato ad aggiungere che in realtà a quella cifra «vanno poi aggiunti bonus e altri incentivi». E lo stesso editore, Arthur Sulzberger Jr., ha smentito personalmente che alla base della sua decisione ci sia stata una questione di soldi.
Mentre insomma sale la febbre per dipanare l’ intricata matassa, un report (interno ma subito ‘leaked’ online) sulle falle della strategia digitale non fa che aumentare i grattacapi per la prestigiosa testata. Tre i punti-chiave che ne rimarcano la critica strutturale di fondo: il ‘muro’ esistente tra le operazioni della redazione e le attività di business; la mentalità tutt’ora imperante a favore del cartaceo e ossessionata dalla prima pagina dell’ edizione a stampa; la leadership editoriale tutta presa dal ciclo delle news quotidiane e quindi lontana dalle questioni strategiche a lungo termine.
L’ insieme di queste motivazioni sarebbe alla base di un impegno digitale al di sotto delle aspettative, secondo i critici più attenti. A cominciare dalla costante caduta di accessi – circa la metà in meno negli ultimi due anni – per la homepage della testata. E interessante notare come anche il report di 91 pagine stia ricevendo parecchia attenzione online, ma anzichè sul sito dello stesso NYT, va forte su Buzzfeed, che lo ha ricevuto sottobanco in fotocopia cartacea e immediatamente rilanciato sul web.
In definitiva, il documento suggerisce che passare al business digitale rimane un’ impresa non da poco per un gruppo editoriale di questo livello, perché molti redattori e dirigenti ancora «non ne afferrano appieno il senso». E siccome il 75 per cento delle entrate arriva comunque dal cartaceo, diventa ancor più difficile spingere verso una mentalità adatta all’ online, diversamente dalle start-up native come Buzzfeed, appunto. La buona notizia, conclude Matthew Yglesias su Vox, è che «in aggiunta al marchio straordinariamente forte e al bilancio in netto attivo, il NYT riesce comunque a offrire un quadro assai lucido sulla reale natura della sfida in atto».