In una intervista su AdAge, uno dei co-fondatori del sito – famoso per aver raggiunto altissimi  livelli notevoli di viralità – racconta il nuovo sistema di misurazione del grado di coinvolgimento degli utenti: non solo le pagine viste, ma, soprattutto, i movimenti del mouse e la curva di attenzione registrata.
Si chiama ‘’Total attention minutes’’: nel 4° trimestre 2013 i lettori avrebbero dedicato al sito 7 milioni di minuti di attenzione al giorno.
Upworthy, un sito che da quasi due anni filtra e riorganizza i contenuti della Rete puntando soprattutto su una titolazione ad effetto, che spinge a leggere e a condividere i materiali, è considerato nel paesaggio mediatico attuale uno dei più noti e imitati siti virali.
Fondato dall’ ex direttore esecutivo di MoveOn.org, Eli Pariser, e dall’ ex direttore generale di Onion, Peter Koechley, Upworthy afferma che il suo obiettivo è attirare l’attenzione su temi significativi, dai problemi di visualizzazione corporea provocati dalle Barbie alle sofferenze delle vittime della tortura. Un recente post – racconta Michael Sebastian su Adage – era stato intitolato “Ho preso un autobus e c’ era una donna sotto tortura vicino a me’’: ma si trattava di una locandina contro la tortura affissa alla pensilina dei bus. Fast Company riferendosi al sito ne ha parlato come di una sorta di  “BuzzFeed dei sentimenti”.
I critici accusano il sito di utilizzare delle esche acchiappa-click per attirare i visitatori. Ma Upworthy replica che il criterio delle pagine viste è una misura molto parziale e “debole”, utile semmai solo ai siti che puntano sui banner pubblicitari (cosa che Upworthy, come del resto BuzzFeed , non fa). La linea che Upworthy segue nei confronti degli inserzionisti è convincerli che il sito può attirare lo sguardo  – e far condividere sui social media – sui contenuti a pagamento nello stesso modo con cui lo fa per i propri articoli.
Le aziende editoriali da tempo stanno cercando di fare colpo sugli inserzionisti con metriche analoghe, mostrando loro una serie di statistiche sul tempo di attenzione, sia sul sito che sui social media. Upworthy sostiene che il suo sistema – ‘’Total attention minutes’’ – fornisce un quadro più eloquente del coinvolgimento basandosi su vari parametri chiave, fra cui il grado di attrazione dei video, quali sono i movimenti del mouse e quali schede del browser siano aperte.
Secondo l’ azienda, i lettori nel quarto trimestre 2013 hanno dedicato una media di oltre 7 milioni di minuti di attenzione ad Upworthy ogni giorno. La società tra l’ altro ha annunciato che condividerà il codice del programma in modo che anche gli altri siti possano misurare il coinvolgimento dei loro utenti con lo stesso sistema.
Abbiamo parlato con Eli Pariser – che sarà uno dei principali speaker alla Ad Age Digital Conference, in programma dal 4 al 6 aprile prossimi – della nuova metrica, di ‘’native ad’’ e delle recenti, e criticate, incursioni della CNN nello stile dei titoli alla Upworthy.
Eli Pariser: Il punto di partenza di Upworthy è sempre stato questo: se costruiamo qualcosa che punta alla soddisfazione degli utenti, le entrate verranno. Non funziona il contrario. Per ora pratichiamo questo sistema di misurazione al nostro sito ma ci piacerebbe se lo facessero anche altri. Se riusciamo a rendere molto più intelligenti i contenuti che forniamo ai nostri utenti e il modo in cui lo forniamo, sarà una grande vittoria .
Detto questo, credo che con la possibilità di una misurazione reale a livello granulare dei comportamenti degli utenti saremo in grado di offrire dati molto più interessanti alle persone con cui lavoriamo. Non si tratta solo di quanti hanno condiviso questo o quell’ altro contenuto, ma quale è stata la curva di attenzione per quel segmento di contenuti.
Ad Age : Perché gli inserzionisti dovrebbero interessarsi a quello che uno fa con l’ ‘’attention minutes’’?
Pariser: Non tutte le pagine visualizzate sono uguali. Il peso delle pagine-viste sulle reti internazionali non dovrebbe contare nello stesso modo di quelle prodotte da una condivisione organica. Stiamo scoprendo che le persone con cui stiamo lavorando vogliono guardare a entrambe le cose e così va bene. Pensiamo che più si convincono del fatto che non basta portare la gente sulle pagine ma farle ‘’entrare’’ nei contenuti, allora sarà meglio per tutti.
La promessa del ‘’native ad’’ è che i brand devono creare i contenuti che i lettori davvero amano. E la nostra è una metrica onesta per capire se e come questo avvenga. Il risultato non può essere sempre lusinghiero, ma ottimizzando si può cercare di risolvere il problema del native advertising a un livello più profondo possibile: sapere da dove arrivano o che fanno gli utenti quando ci sono sopra è meglio del sapere solo che ci sono un mucchio di pagine viste.
Ad Age: Che cosa intende per “problema del native ad”?
Mr. Pariser: Colmare concretamente il divario tra ciò che eccita le aziende e ciò che invece fa esultare gli utenti, Questo è il Sacro Graal: si forniscono contenuti che alla gente piacciono così tanto da condividerli con i loro amici, raccontando una storia legata a quel brand. Metriche come quella del ‘’attention minutes’’  dovrebbero contribuire a colmare questa lacuna.
Ad Age: Questa settimana la CNN si è attirato delle critiche per aver twittato un titolo in stile Upworthy per la vicenda di un sequestro. La stupisce che lo faccia una testata come la CNN?
Mr. Pariser: Sì, ci doveva essere un incapace in quel momento.