Contro il colonialismo digitale

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<< Non sono rigidamente conservatore né luddista; sono per un uso negoziato delle tecnologie. Credere senza riserve all’idea che l’educazione passi per un oggetto come l’iPad (o concorrenti) che ha milioni di applicazioni superinteressanti e superdistraenti a tiro di click è come pensare di mettere mia figlia a scuola in una classe in cui è circondata da decine di televisori in stand-by di cui lei sa che stanno trasmettendo video divertentissimi, e che basterebbe un gesto, che dico, un pensiero, per vederseli tutti, magari anche tutti insieme. >>

Questo è Roberto Casati nelle sue “istruzioni per continuare a leggere” sottotitolo di un più minaccioso – ma assolutamente condiviso – “Contro il colonialismo digitale”.

 

Casati pone la questione in modo molto netto: la lettura è sotto minaccia, ce la stanno rubando. Da quando il libro è diventato un’applicazione, da quando le applicazioni sono diventate così vicine sul display, da quando, quindi, di fatto, il libro è diventato un effetto collaterale della tegnologia, la lettura è privata della risorsa di cui più avrebbe bisogno: l’attenzione.

Quello di Casati non è un rifiuto aprioristico della tecnologia. Anzi! Per certi versi il suo è un approccio anche speculativo: non bisogna cedere alla “normatività automatica” del PC, del tablet o dello smartphone; bisogna invece approfittare di questi oggetti per poter ridefinire alcuni paradigmi. Così, pur riconoscendo alla lettura su carta infiniti vantaggi, egli suggerisce di non rifiutare la lettura digitale e di predisporre nelle scuole e nelle biblioteche dei percorsi cognitivi che sfruttino i vantaggi propri delle tecnologie.

Quello dei Nativi Digitali è un mito da sfatare. Non sono persone diverse dal sessantenne che impara con molta facilità l’uso del tablet: essere coetaneo dell’iPhone o dell’iPad (i riferimenti a questi prodotti non sono casuali!) non fa di nessuno un essere più intelligente e, quindi, con più conoscenza né tantomeno immune agli effetti, non sempre positivi, del multitasking. In questo scenario, bisogna “solo” rinegoziare (e insegnare a farlo) l’uso del tablet o del PC con delle regolette pratiche atte a evitare le distrazioni. A patto di aver individuato bene il nocciolo del problema.

Il vero dramma della tecnologia, dice Casati, rifacendosi anche al saggio “Tu non sei un Gadget” di Jaron Lenier sta nel design: il design degli ambienti digitali rispondono a delle esigenze ormai obsolete; d’altra parte il meccanismo (quello che ci induce all’acquisto di tecnologia contando su strategie di marketing e tecniche di persuasione sempre più sottili) è talmente oliato che sono ormai pochissimi gli sforzi fatti dalle case produttrici per creare nuovi percorsi cognitivi digitali; pochissimi quelli che si servono di nuove, opportune e – direi – necessarie soluzioni di design (tanto del tool tecnologico quanto dell’applicazione). Quando Casati parla di design, quindi, io intendo sia quello del desktop, dello spazio di lavoro su display (il sistema operativo, mi viene da dire), sia quello delle applicazioni e degli algoritmi che le fanno funzionare.

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Accettiamo, giovani e meno giovani, coetanei o meno dell’iPhone, la tecnologia che ci viene propinata; ormai ridotti a variabili assolutamente inconsapevoli di algoritmi delle macchine, quindi, e delle applicazioni che ci girano sopra. L’esempio delle applicazioni di Social Networking è perfetto: Facebook su iOS.
Come poterne uscire? Secondo Casati, ancora una volta, il ruolo delle scuole è fondamentale. Un primo passo, dice il saggista, sarebbe quello di aiutare a comprendere il funzionamento delle architetture informatiche, la ricerca scientifica e tecnologica, le strutture economiche e di potere dietro i prodotti di uso anche più comune. Insomma, “piuttosto che introdurre con affanno le tecnologie in classe, la scuola ha molto margine per insegnare a studiare le complessità non solo teniche ma anche sociali e cognitive del design tecnologico”. Ecco quindi un esempio: non il copia-e-incolla di una voce di Wikipedia ma la scrittura di una voce. Le informazioni, così, oltre che subite, possono essere, come dire, anche “agite”. Verso la conoscenza.

Se ci si pensa, in effetti, anche quella relativa alla scuola è una questione di design: di spazi fisici e di spazi mentali. In questi termini, quindi, la responsabilità di noi utilizzatori si fa più grande. Più grande, quindi, la responsabilità della didattica nelle scuole: non bisogna, cioè, approcciarsi criticamente soltanto al design del desktop e delle applicazioni – da quelle di Social Networking a quelle di lettura dei libri, e così via – che ci mettiamo sopra, ma pensare bene anche al design degli spazi (fisici e non) della scuola in cui insegnare come, da quelle macchine e applicazioni, non ci si deve lasciar sopraffare, insomma, serve uno spazio opportuno: fisico e mentale! Un percorso di consapevolezza da intraprendere insieme: insegnanti e allievi. In uno scenario così complesso, sono sicuro che gli uni avrebbero da dire qualcosa agli altri.

Ma queste pratiche, benché applicate, non eliminano l’effetto più subdolo del design, quello del “Filter Bubble”, che ci espone senza difese alle “solite” informazioni, imbrigliandoci nel reticolo ben congegnato degli algoritmi delle applicazioni che usiamo quotidianamente allontanandoci dalla conoscenza – quella che si fa mettendo insieme più pezzi di informazione, ragionando su nuclei anche contrastanti – e ci rende vittime di comunicazioni commerciali più che liberi di essere informati. Qui Casati, secondo me, si fa creativo: il suo suggerimento, più romantico che pragmatico, è infatti di approfittare della stupidità degli algoritmi – anche qui l’approccio è speculativo – facendo ricerche casuali, per istruirli a non farci vivere sempre nello stesso ambiente.

“Ho suggerito – conclude Casati – che si possano e si debbano cercare nei contesti educativi delle occasioni per sottrarre alle nuove tecnologie l’aura di normatività automatica: riciclandole, usandole in modo diverso da quello immaginato dai loro progettisti e produttori evitando di soccombere a interessi economici poco trasparenti. Non c’è ragione per cui si debba subire la novità tecnologica, e non c’è nessuna ragione di rifiutarla a priori; si tratta, in primo luogo, di fare un compromesso e di negoziare, inizialmente con se stessi, tempi e modi di utilizzo; secondo: bisogna progettare nuovi percorsi approfittando degli indubbi vantaggi che la tecnologia è in grado di dare.