La rete strappata

digital champions

 

C’è uno strappo nella realtà della rete italiana. Un prima e un post Italian Digital Day.

 

 

Lo spartiacque è l’evento promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri che si è tenuto alla Reggia di Venaria, coinvolgendo, di fatto, la realtà dei Digital Champions. È uno strappo che non ha a che fare solo con i contenuti emersi da alcune parole dei relatori riportate dai media di massa– ad esempio quelle controverse di Matteo Renzi sul taggare e “inseguire” le persone a partire dalle tracce che lasciano in rete – ma con una forma, quella dell’evento, a forte stampo comunicativo, che avrebbe promosso una narrazione di Governo sull’innovazione del Paese che a molti è parso puro storytelling nel vuoto di governance. E dicendo “molti” intendo una crescita nei profili Facebook e Twitter, in diversi blog e testate online di dissenso esplicito anche rispetto alla realtà dei Campioni Digitali. Uno strappo culturale che è una lacerazione personale.
È la rete che critica la rete, sono i friend che accusano i friend.
E la retorica sorta attorno ai Digital Champions, tra “luniani” e “gufi digitali”, ha fatto da cartina di tornasole per mostrare con tutta la sua potenza che abbiamo perso la nostra innocenza digitale. L’idea di una comunità digitale italiana – più sfondo mitico che realtà effettiva – è esplosa in un gioco di contrapposizione tra inclusione ed esclusione.

 
“Voi cosa state facendo per cambiare le cose visto che il vostro paese non vi piace?” chiede uno dei tanti DC in un thread in cui si parla di “una narrazione che banalizza il digitale”. Qualcuno nella discussione risponde: “c’è anche chi fa e non passa i tre quarti del tempo ad autoincensarsi”.
Occuparsi della diffusione e divulgazione del digitale non ha a che fare con l’appartenenza o meno ad una cerchia associativa. Tra gli esclusi – auto esclusi, visto che i DC sono auto candidature associative – troviamo molti dei soggetti che hanno fatto la rete italiana per come la conosciamo. Hanno partecipato a definirne una narrazione con la costruzione di una blogosfera prima e nei social network poi. Si sono occupati di innovazione tecnologica e di digital literacy sul campo. Hanno saputo tenere alto il livello critico rispetto alle molte sciocchezze e leggerezze che diversi governi hanno tentato di legiferare a proposito di Internet.

 
E allo stesso tempo tra i Digital Champions troviamo i loro compagni di viaggio, uomini e donne che hanno percorso un pezzo di strada fianco a fianco e che si trovano oggi ad essere immaginati o ad immaginarsi sull’altra parte di una barricata.
La rete tende a polarizzare le posizioni, lo sappiamo, e in una realtà come quella italiana, terra di campanili, la capacità di dividersi in tifoserie contrapposte è sport comune.

 
Così potrebbe essere vista, ad esempio, la scelta di molti attivisti del digitale italiano di auto nominarsi Digital Minions, in un gioco ironico – ma neanche troppo – di rimando ad un immaginario del fare che si contrappone a quello del dire.
Ma fin qui, mi pare, ci troveremmo ancora dentro i confini di una narrazione tutto sommato consolatoria, quella di tifoserie contrapposte o contrade che si sfidano, in un mix di competitività e leggerezza ma anche di scambi verbali forti e slogan denigratori dell’altro.
Temo che le cose siano più complesse di così, perché il racconto del digitale che si sta costruendo in rete sulla Rete mostra i problemi del produrre una voice nel momento in cui il potere politico si occupa in modo esplicito del tema. Questo Governo è forse quello che maggiormente si sta impegnando sul digitale e che ha un Premier che per sua natura si colloca, che vi piaccia o meno, all’interno delle contraddizioni di una cultura della rete che gli è affine. La narrazione top-down si miscela in modo complicato con quella bottom-up perché meno evidente è la distinzione tra una “conversazione dal basso” e una retorica di governo che poteva caratterizzare il panorama di media e social media fino a pochi anni fa. All’intreccio di questa complessità comunicativa troviamo con i Digital Champions l’istituzionalizzazione e un principio di rappresentanza applicato ad una realtà comunitaria e dal basso di “quelli della rete”. O almeno questo è quanto molti attivisti digitali percepiscono.

 
La conseguenza è nel rischio di una caduta della riflessione critica a discapito di una lettura di ogni posizione assunta attraverso il frame di un gioco delle barricate. E di una delegittimazione dell’altro in pubblico, rifiutando le argomentazioni a discapito della sottolineatura delle appartenenze. A leggere i post nei diversi social media sono molte le persone che si sentono ferite, accusate, denigrate. Sono diversi i nodi della rete che hanno spezzato le loro connessioni.
Abbiamo scoperto che quello del digitale in Italia è un tema divisivo, su cui si genera conflitto. Il che sarebbe un’ottima cosa se riuscissimo ad essere duri con un problema senza essere duri con le persone. Ma, forse, la drammatizzazione è un’altra delle dinamiche che la rete acuisce, la conversazione fra i teen docet, come ci spiegano le ricerche.

 
Invece ci sono cose di cui dobbiamo parlare e diversi articoli su blog in queste giornate hanno posto domande centrali sul rapporto tra aspettative suscitate e realizzazioni effettuate o sulla natura dei Digital Champions. Così come è vero che esiste una visione critica anche all’interno dell’associazione, senza fare di tutt’erba un fascio. Ma nel gioco delle contrapposizioni diventa poco evidente.

 
Il vero dato però è che mentre in rete ci si scontrava a partire da Venaria nei media se ne parlava poco e male. L’unica sintesi dell’incontro sull’innovazione digitale del Paese che abbiamo letto sui quotidiani o ascoltato nei telegiornali aveva a che fare con le parole di Matteo Renzi sul taggare i potenziali attentatori. È questo lo storytelling che vogliamo?

 
Il dibattito sul digitale è assente nei nostri media e, quindi, nell’opinione pubblica. È trattato in modo superficiale e con pregiudizio negli ambienti scolastici e di lavoro. Una realtà come quella degli attivisti digitali – champions, minions o liberi nodi che siano – ha la capacità di produrre un racconto collettivo di micro realtà che innovano giorno per giorno con il digitale. Un racconto che le proprietà di propagazione ed amplificazione di una rete riesce a rendere più visibile e percepito nella quotidianità dei cittadini non addetti ai lavori ma presenti online. Un racconto che riesce a farsi rinarrare nei media di massa sottraendosi alle nicchie, che ha bisogno di farsi discorso pubblico, di trovare un suo lessico e una sua retorica. Perché abbiamo bisogno di costruire una narrazione come terreno di cultura per il fare. E sono le connessioni tra i nodi a produrre una voce in grado di farsi sentire in modo penetrante e costante. Spezzarle non ci aiuterà. Divisi cadiamo*.

 

 

* “Divisi cadiamo” è un riferimento a una saga degli Avengers versione Ultimate che vede una condizione in cui gli stati si ribellano, sorgono guerriglie ovunque, ci sono potenti arricchiti che si proclamano padroni e gli eroi vengono trattati come traditori. Possiamo leggerla anche con venatura ironica, per alleggerire.

 

Giovanni Boccia Artieri è professore ordinario di Sociologia dei media digitali e Internet Studies all’Università di Urbino Carlo Bo

2 commenti

  1. Molto interessante e un buon punto. Un paio di note fuori dai denti. 1 – Sarei curioso di capire se questo strappo dipenda da visioni diverse del digitale o da visioni politiche diverse. 2 – Sarei curioso di capire quanto che ruolo giochi la sindrome dell’esperto, che quando non partecipa ad un processo ne trova tutti i buchi possibili, reali o immaginari.

    Infine uno spunto di riflessione sul merito: in un Paese illetterato dal punto di vista digitale, la banalizzazione non è semplicemente uno strumento di semplificazione? Porto un esempio “altro” per spiegarmi meglio. Faccio il giornalista in una radio e devo quotidianamente cercare di rendere comprensibile una realtà complessa. Per esempio, se dico che il confronto tra sciiti e sunniti è una componente importante delle vicende internazionali di questi anni e dell’ascesa dello jihadismo, sto banalizzando in maniera mostruosa, ma sto anche fornendo uno strumento di comprensione “di massima” di quello che si sta muovendo. Sto twittando il titolo e fornendo un link: puoi ritwittare senza leggere (come fa un’ampia percentuale degli utenti) o cliccare sul link e approfondire.

    La narrazione che semplifica serve anche ad invogliare all’approfondimento, a rendere un argomento più digeribile: proprio noi, che di tutto questo ci occupiamo quotidianamente, sembriamo pretendere un racconto pomposo, trombonesco o ex cathedra.

    Si prenda atto che da qualche anno il digitale non è più roba da nerd, ma è l’ambiente stesso nel quale ci muoviamo e viviamo tutti giorni, un’estensione della realtà e per raccontarlo ci vogliono forme nuove, anche più “leggere”. Non c’è bisogno di spiegazioni complesse perché il digitale – qualsiasi cosa voglia dire – è una realtà molto complessa, ma al contrario bisogna partire da narrazioni leggere per arrivare a quelle più pesanti. A patto che non si dicano cazzate. Ecco fatto, ho scritto troppo.

    DISCLAIMER: non sono un digital champion e la definizione, sia detto per inciso, mi ha fatto sempre ridere

  2. Provo a rispondere fuori dai denti e ti ringrazio per la franchezza nel commento.
    Sicuramente il meccanismo inclusi/esclusi gioca in modo significativo nel dibattito che si è aperto. Anche se molti dei commenti letti non sono da ricondurre a “lagnosi” che sono stati emarginati ma da voci critiche in senso pieno. Quello che mi sembra debba essere allontanato è un falso dibattito tra entusiasti e detrattori (di che poi?), utile solo a delegittimare l’altro (“tu vedi il bicchiere mezzo pieno”, “tu sei capace solo di criticare per invidia”). Ma credo che dai toni, chi lo fa, sia riconoscibile.
    Così come la mia non vuole essere una critica al concetto di “storytelling” o di racconto sul digitale che dir si voglia. Abbiamo sicuramente bisogno di semplificare, di raggiungere strati più ampi della popolazione. Ma con quale racconto? Con quale tono? Celebrando chi o cosa? Qui, mi pare, spesso manchino i link per approfondire. E un tweet che celebra, lasciato solo, senza possibilità di approfondire, resta orfano.
    Un’ultima osservazione: una cosa è il racconto un’altra la struttura che lo sostiene. Trasparenza su natura ed obiettivi, visto che parliamo di una natura pubblica del soggetto, sarebbe opportuna.

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