L’aggettivo che divenne sostantivo
La Postverità è un fatto, ma non era un aggettivo? Ora che l’ha usata il presidente del Consiglio, anzi l’ex, (sarebbe stato forse carino dire il “post presidente” ma in italiano significa un’altra cosa) questa parola si è ancora più impressa nelle menti di tutti noi. Noi audience alquanto social che molto commenta e notifica e “laika”: non inteso come non religioso e nemmeno come cagnetta nello spazio ma come tasto di approvazione ai commenti su faccialibro. “Le conversazioni sono notizie” recitava il tema di #digit16 e nelle conversazioni il lavoro della ricerca della verità diventa davvero molto più difficile da fare, più difficile di sempre anche per i professionisti dell’informazione. Quello che abbiamo capito in queste settimane in cui questa terminologia è diventata prepotentemente di moda è che: “della verità pare non importare più niente a nessuno”. Non è esattamente così, a nostro avviso, ma certo per la nostra professione – il giornalismo – l’epoca delle verità “discutibili”, o meglio ancora “ininfluenti” pone non pochi problemi.
Per interpretare al meglio il fenomeno vi invitiamo a leggere e, magari, condividere assieme a noi, il pensiero di alcuni compagni di strada assai utili come:
Marco Pratellesi: “…non possiamo demandare a piattaforme già estremamente potenti e pervasive il ruolo di arbitri cui delegare il giudizio su ciò che è vero e ciò che è falso. Gli algoritmi sui quali si basano queste piattaforme hanno già dimostrato di non funzionare sul piano della rilevanza della qualità del discorso giornalistico, non almeno per come sono stati impostati fino ad oggi… ”
e anche:
Anna Momigliano : “Esistono dati concreti, fatti, che dimostrino che mettere a nudo menzogne e inesattezze aiuti ad arginarle? Due anni dopo, è stato eletto presidente degli Stati Uniti un candidato le cui dichiarazioni sono state valutate sette volte su dieci false “ Â
E per aggiungere informazioni alla questione vorremmo inoltre segnalarvi un altro paio di fatti, avvenuti nelle ultime ore, e fortemente legati al concetto che stiamo provando ad esplorare.
La prima è questa: “L’informazione su internet deve rispondere alle stesse norme editoriali della comunicazione stampata o televisiva per evitare il diffondersi di notizie false che, nel mondo di internet, riescono pericolosamente a risultare credibili ” l’affermazione proviene da una senatrice del Governo italiano Adele Gambaro, ed è contenuta in una risoluzione parlamentare presentata al Consiglio d’Europa in cui viene chiesto dal Parlamento italiano ai deputati europei : “di impegnare i parlamenti nazionali ad affrontare, con leggi ad hoc, l’assurda situazione in cui ci troviamo con il giornalismo in declino e i media online, non conformi agli standard giornalistici professionali, in crescita esponenziale “.
Affermazione, per quanto parlamentare e di rango europeo, dalla quale vorremmo prendere le debite distanze in ogni sede opportuna e alla quale vorremmo associare alcune riflessioni del tutto nostre, contenute nei due rapporti che abbiamo presentato quest’anno alla Camera e al Senato della Repubblica, nel corso di due diverse audizioni cui siamo stati invitati per esaminare la “allora” proposta e oggi legge dello Stato sui contributi pubblici per l’editoria.
In estrema sintesi crediamo che non con gabbie, muri o nuove leggi si possa comprendere e valutare al meglio la potenza della “rivoluzione digitale” in cui siamo immersi da circa trentanni, bensì mettendo a disposizione di un numero sempre maggiore di persone (tendenzialmente tutti) la conoscienza di essa e gli strumenti per accedere in piena coscienza ad essa. Comprensione e cultura della rivoluzione digitale non limiti e paletti per vivere il presente in modo realistico e non apparente. Smettiamo di provare a riprodurre i modelli analogici nel mondo digitale e smettiamo sopratutto di demonizzare quello che non comprendiamo – la caccia alle streghe è così noiosa, dispendiosa e anche antipatica non trovate cari maccartisti d’antan?
Perchè non provare a fare come nel monopoli “tre passi indietro” e metterci nei panni di quelli che non sanno e vogliono sforzarsi di capire e far capire.
Il secondo fatto su cui riflettere proviene da uno studio realizzato negli States e in particolare da una ricerca condotta dagli analisti della Stanford University :
“The researchers showed hundreds of middle schoolers a Slate home page that included a traditional ad and a “native ad” — a paid story branded as “sponsored content” — as well as Slate articles.
Most students could identify the traditional ad, but more than 80 percent of them believed that the “sponsored content” article was a real news story.
“Some students even mentioned that it was sponsored content but still believed that it was a news article,” the researchers wrote, suggesting the students don’t know what “sponsored content” means
I ricercatori universitari hanno mostrato agli studenti una home page che presentava un articolo tradizionale di giornale e un articolo di native advertising - una storia incentrata su un’azienda e sponsorizzata da quella stessa azienda. La maggior parte degli studenti, oltre l’80% di quelli sottoposti al test, non ha riconosciuto l’articolo sponsorizzato. Alcuni studenti hanno rilevato la differenza fra i due articoli ma hanno anche continuato a ritenere l’articolo sponsorizzato una “notizia giornalistica” alla stregua dell’altra, dimostrando di non conoscere il significato di articolo a pagamento “.
In calce alleghiamo la ricerca integrale diffusa in 12 degli Stati Uniti e a cui hanno risposto quasi 8.000 sudenti.