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Silicon Valley: i signori del silicio – recensione

“[…] e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non v’è se non vulgo; e li pochi non ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi.”
Questo brano, tratto dal Capitolo XVIII de Il Principe di Machiavelli, penso sia un buon modo per introdurre il saggio di Evgenij Morozov, “Silicon Valley: i signori del silicio” .

Non me ne voglia lo studioso bielorusso, perché lo introduco con Machiavelli a dispetto del suo averlo definito ormai out opponendogli, argomentando sul linguaggio della burocrazia governativa, un più in Daniel Kahneman, psicologo comportamentale, vincitore del Premio Nobel per l’economia nel 2002.

 

Bene, dopo l’incipit a effetto con la citazione testuale, forse è meglio aiutarsi con la versione in italiano di Piero Melograni. Che fa così:  “Nel giudicare le azioni degli uomini, e soprattutto dei prìncipi – che non possono essere convocati in giudizio – non si guarda ai mezzi, ma al fine. Il principe faccia quel che occorre per vincere e conservare il potere. I mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e lodati da ognuno, perché il volgo bada sempre alla apparenze e al risultato. E nel mondo il volgo è da per tutto. Le minoranze non contano, quando le maggioranze hanno dove appoggiarsi.”



Lo scenario è esattamente questo: da una parte Morozov, nelle minoranze; dall’altra, invece, le maggioranze. Per le prime davvero non ce n’è se i mezzi utilizzati dal “principe” permettono il raggiungimento del fine, cioè – attualizzando, non senza sarcasmo, e citando dal saggio – se “l’internet delle cose, i Big Data e l’inevitabile rivoluzione dell’intero universo da parte di un manipolo di start up californiane produrranno abbondanza economica, emancipazione e prosperità globale”.



Era forse politica la strada che Machiavelli consigliava al Principe perché potesse “vincere e manterene lo stato”? Certamente no, o almeno non era prioritaria. 
Sono politiche le ragioni che rendono il digitale e tutto l’indotto l’unica soluzione possibile per i mali della società (la semplificazione è mia)? No, sentenzia Morozov. Proprio per niente. E gli argomenti utilizzati dal saggista bielorusso sono molto convincenti, soprattutto dopo le rivelazioni di Snowden.


La dirompente questione posta da Morozov è infatti questa: quando c’è da decidere se una soluzione tecnologica è buona o meno, non c’è argomento che tenga: il digitale vince perché il paradigma di Facebook e Google si è ormai imposto come l’unico applicabile. Il fatto, dice Morozov, è che si sta perdendo di vista il metodo con cui, invece, ogni problema dovrebbe essere posto e poi risolto: il metodo politico.

È questo, in effetti, che si dovrebbe intendere quando si dice che l’innovazione è in primo luogo questione culturale: i cittadini spenderanno di meno se avranno più soldi in tasca, non se qualche app avrà loro indicato “al momento giusto e al posto giusto” la pubblicità sul prodotto scontato; i cittadini razionalizzeranno il consumo energetico non tanto dotandosi di un termostato intelligente (o, almeno, non soltanto), quanto ristrutturando le loro abitazioni; le strade diventeranno meno trafficate non perché un’applicazione ci avrà consigliato di evitarle, ma perché saranno state riviste le scelte urbanistiche (gli esempi sono nel libro).
La redistribuzione della ricchezza, la riqualificazione energetica degli edifici, la rivisitazione delle scelte in ambito urbanistico sono questioni prettamente politiche.

(Le Smart City, insomma, sono prima scelte politiche, poi scelte tecnologiche. Sulle Smart City Morozov insiste parecchio).

 

L’obiettivo del “principe” che racconta Morozov è, così, assai inquietante: il controllo, per “mantenere lo stato” (ho usato di nuovo Machiavelli) e la “regolamentazione algoritmica” (qui invece è tornato Morozov) per fare a meno della politica: “se così tanta parte dei nostri comportamenti quotidiani già oggi è registrata, analizzata e sollecitata, perché – si chiede – fermarci agli approcci non empirici alla regolamentazione? Perché fare ricorso alle leggi quando ci sono i sensori e i meccanismi di feedback? Se gli interventi in termini di politiche devono essere – per usare le parole chiave del momento - evidence-based e results oriented, la tecnolgia può venire in aiuto.”

Altro che – citando di nuovo questo breve passo, con amarezza – “abbondanza economica, emancipazione e prosperità globale”!

Lo scenario, insomma, è molto più preoccupante di quello prospettato da Eli Pariser. I suoi consigli, alla fine, sono figli di un’analisi che guarda soltanto in superficie (nel senso che ne fa vedere solo un pezzo) un problema evidentemente senza dubbio più profondo: infatti, anche se (richiamando le riflessioni sul libro “The filter bubble” fatte in questi spazi) decidessimo di modificare la nostra dieta dando all’algoritmo più materiale su cui lavorare, di cancellare i cookie, di frequentare siti che ci dicono come funzionano i filtri, di avere una maggiore consapevolezza di come essi funzionano e di acquisire competenze basilari in materia di algoritmi e programmazione; anche se decidessimo di usare queste best practices, saremmo comunque complici del “principe”, come “vulgo” consenziente, perché – pur con tutte le accortezze – avremmo dato da mangiare agli algoritmi.



La regolamentazione algoritmica è la scelta (e, per me, quello di fare a meno della politica è un chiaro disegno politico!) di cui siamo vittime (più o meno) inconsapevoli, la sorveglianza il mezzo per poterla mettere in pratica. Detta quindi in modo brutale: a Eli Pariser che consiglia di usare i mezzi in modo consapevole, sento già Morozov rispondere che non c’è consapevolezza che tenga: il fatto stesso di usare le applicazioni autorizza l’utilizzo dei nostri dati, piatti succulenti e irrinunciabili per voraci algoritmi.

E, in una logica in cui la cessione dei dati, oltre che obbligo morale (perché morali sono le leve su cui agisce il ricatto della sicurezza nazionale), diventa scelta redditizia (quindi – per ampie fasce di popolazione – obbligata; certamente non etica), chi fa una scelta diversa diventa vittima di  interpolazioni e correlazioni di informazioni che non gli appartengono, con tutti gli effetti negativi del caso (l’esempio del redditometro italiano è illuminante).



Quali le vie di uscita individuate da Morozov? Dalle lettura del saggio ne emergono tre in modo chiaro.

Le riassumo unitamente a qualche altro spunto di riflessione, sicuramente da sviluppare:


(1) “una forma di reddito di base garantito, in cui alcuni servizi di welfare siano rimpiazzati da trasferimenti diretti di contanti ai cittadini.”

In questo modo si permetterebbe ai cittadini di uscire dai binari dell’algoritmo delegando ad essi, ai cittadini, le scelte che riguardano la propria stessa esistenza. Qui, in effetti, si aprirebbe un discorso molto ampio che, a mio modo di vedere, dovrebbe portare ad una ridefinizione non puramente assistenzialista del reddito di cittadinanza, forma attualmente abusata per pura propaganda.

 

(2) “Creare le condizioni giuste per l’emergere di comunità politiche intorno a cause e questioni che loro stesse ritengono rilevanti”

Una linea guida chiara è, secondo me, quella tracciata da Elinor Ostrom nel suo lavoro sui beni comuni: in Governing the Commons – si legge nell’articolo de lavoce.info che celebrava la consegna del Nobel per l’economia alla Ostrom – sviluppa una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione “comunitaria” possa rimanere sostenibile nel lungo termine”. Altro che algoritmi!

 

(3) “l’attivismo politico e una solida e ragionata critica all’ideologia del consumismo dell’informazione”

Morozov non auspica la nascita di un partito dei verdi dell’informazione, una formazione ecologista dell’informazione, perché sostiene – credo a ragione – che queste sensibilità debbano essere trasversali, componenti di una base comune.

Base che, evidentemente, almeno al momento, con la complicità – si diceva – più o meno consapevole del “vulgo”, è fatta di tutt’altri valori e pratiche.

Immaginiamo però cosa sarebbe se si pensasse davvero all’informazione come Bene Comune e se, in quanto tale, essa venisse gestita secondo i principi del lavoro dalla Ostrom che prima si richiamavano .

 

Ciò che rende credibili gli argomenti di Morozov è, oltre che ovviamente nelle rivelazioni di Snowden, nel suo non essere un tecnofobo. “La tecnofobia – dice – non è certo la soluzione: i progressisti hanno bisogno di tecnologie che si attengano allo spirito, se non alla forma istituzionale, dello Stato sociale, e che ne mantengano l’impegno a creare le condizioni ideali per il benessere dell’uomo.”

 

Già, il benessere dell’uomo. Da qui penso si debba ri-partire. E se per benessere deve intendersi il soddisfacimento dei bisogni di Maslow (e per me la questione va posta proprio in questi termini), considerato che Maslow pone alla base di tutto la conoscenza, non si può non fare una battaglia per la conoscenza, da acquisire come processo di attribuzione di senso all’informazione-bene comune.

 

Cosa fare, quindi, in pratica? Come applicare i consigli presenti nel libro?  Per esempio si potrebbe partire proprio da questo saggio/denuncia di Morozov e approfondire, cercando di comprendere meglio cosa Snowden ha davvero fatto emergere (quanti non “addetti ai lavori” ne sanno davvero qualcosa?).

E poi, con una base comune, iniziare a scalare la piramide.

 

In quale scenario muoversi? Traendo ancora spunto dal lavoro di Morozov, una possibilità è realizzare – su una scala che inizialmente potrebbe essere locale – una economia della condivisione in cui, al contrario della triste pratica rappresentata nel saggio (cessione dei dati personali come alimento per la regolamentazione algoritmica), vi sia un autentico scambio di risorse (tempo e competenze; termini, questi, da riempire di significati) mutuamente riconosciute (vale a dire non necessariamente o comunque non sempre cedute a titolo gratuito) con meccanismi che, andando oltre la mera misurazione quantitativa, punti anche a “forme di appagamento qualitativo” (“perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale”, come ammonivano ormai quasi dieci anni fa Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi a sintesi di un lavoro di ricerca a mio parere mai troppo considerato). In Maslow tutto questo ha un nome: autorealizzazione, che si colloca al vertice della piramide, raggiungibile – se necessario – anche con misure di reddito di cittadinanza (certamente ammesse dal modello del psicologo americano).

 

Il digitale, in un simile percorso, dovrebbe essere solo ed esclusivamente tecnologia abilitante; neutrale, cioè, rispetto ad un disegno che sia prima di tutto politico.

 

Come potremo capire se il percorso che stiamo facendo è quello buono? Morozov ci da una dritta: “Ogni volta che sentirete qualcuno dire “questa legge è sbagliata perché metterebbe dei limiti a internet” o “questo nuovo gadget è fantastico, è proprio quello che vuole la tecnologia” saprete di avere abbandonato l’ambito politico – in cui gli argomenti di solito sono incentrati sul bene comune – e di essere entrati in quello della pessima metafisica.”

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