E’ tempo di freedom on information act (ne sapremo approfittare?)
Per chi vorrà o saprà approfittarne è giunto anche per il BelPaese il tempo di applicare il F.O.I.A. Quanti sono i ragazzi che girano per strada con un coltello tascabile? Si parla tanto di bullismo (e di cyberbullismo, in particolare), e sarebbe quindi utile conoscere quanti sono i minori che dispongono di un arma da taglio “da passeggioâ€; così come sarebbe utile capire se questo comportamento è oggetto di controlli da parte delle forze dell’ordine, se il fenomeno esiste, è in crescita, se è correlato con le aggressioni tra minori, e così via.
A queste domande si può rispondere in vari modi: basandosi sulla “percezione†dei cittadini (e si fa un sondaggio), oppure sul sentito dire (due chiacchere con le forze dell’ordine). Ma si può anche tentare di partire dai dati della realtà , così come disponibili. È quanto ha fatto di recente il Bristol Post, che dalle informazioni emerse a seguito di una richiesta Foia ha dato il via ad una inchiesta che tocca questi argomenti (ed altri ancora).
È solo uno dei molti esempi che si potrebbero portare di un giornalismo che sa giovarsi di un oculato e consapevole esercizio del right to know. L’Italia, come forse non è abbastanza noto – anche tra gli addetti ai lavori, è buon ultimo tra gli ordinamenti soi-disant civili e democratici ad aver introdotto il diritto a conoscere, ossia il diritto di accedere alle informazioni detenute dai poteri pubblici senza dover giustificare tale pretesa (“conosco perché voglio conoscereâ€). L’introduzione del #Foia, per altro, è stata anche oggetto di vivaci polemiche, perché in molti hanno denunciato i limiti e le incongruenze di una disciplina che – in effetti – non si presenta come tra le più avanzate nel garantire pienezza ed effettività alla pretesa conoscitiva esercitata nei confronti dell’amministrazione (l’iter di approvazione della legge e il dibattito che lo ha accompagnato è meritoriamente raccolto qui).
Tuttavia, la fase di elaborazione e perfezionamento del diritto di accesso “generalizzato†si è oramai conclusa (con l’adozione delle linee guida applicative dell’Autorità nazionale anticorruzione), e attardarsi sulla sua perfettibilità (che nessuno mette in dubbio, a partire da chi scrive) rischia di diventare un po’ ozioso. Adesso è il tempo di agire, cioè di mettersi in gioco, usare veramente questo strumento di libertà come fonte di informazioni utili ad indagare, analizzare e raccontare la realtà .
Le ragioni per accettare la sfida – per chi fa giornalismo – sono molteplici, e provo qui a sintetizzarle.
1. In primo luogo, perché si tratta di uno spazio di libertà . Raccogliere informazioni utili (notiziabili, come si dice) è più spesso il frutto di processi negoziali, del tutto fisiologici, nei quali tuttavia il giornalista è costretto a consumare parte della sua libertà . Diversamente, la pretesa – giuridicamente protetta – ad ottenere dalle amministrazioni le informazioni richieste può aprire spazi di libertà inediti: una “risorsa†che merita – dunque – di essere coltivata, anche solo per saggiarne l’ampiezza effettiva.
2. In secondo luogo, perché se è vero che l’esercizio in concreto del diritto (a conoscere le informazioni detenute dalle amministrazioni) soffre di molte eccezioni (su cui le stesse amministrazioni potranno “giocare†per negare accesso ai documenti), è pure vero che lo scopo di “promuovere la partecipazione al dibattito pubblico†costituisce fondamento esplicito della libertà di accedere a tali informazioni (si veda l’art. 5, comma 2 del d.lgs. 33/2013). Il diritto di accesso “generalizzato†(il cd. Foia) è dunque configurato dallo stesso legislatore come strumento specifico e “dedicato†per il perseguimento della mission caratteristica del giornalismo: promuovere ed alimentare il dibattito pubblico.
3. In terzo luogo, perché anche ricevere un rifiuto da una pubblica amministrazione può essere una notizia, altrettanto “succosa†rispetto a quella che si intendeva ricavare mediante la richiesta di accesso. Pertanto, anche solo individuare una richiesta significativa può risultare utile, a prescindere dal suo esito. Inoltre, occorre considerare che per le amministrazioni non è così semplice giustificare un rifiuto, se si prendono sul serio le indicazioni formulate dall’Anac. E le motivazioni del rifiuto possono rappresentare anch’esse una notizia, o fornire lo spunto per una ulteriore indagine. Magari, perché no, su oggetti un po’ più interessanti per l’opinione pubblica rispetto agli scontrini di questo o quell’onorevole.
4. Infine, il Foia rappresenta il necessario completamento del datajournalism d’inchiesta (e qui su Lsdi lo diciamo da tempo). La massa di dati (già ) resa disponibile dalle amministrazioni fornisce materiale per strumenti di analisi di grande qualità (qui e qui, per fare solo due esempi). Tuttavia, alcune informazioni (anche a partire dalle analisi open data driven) possono essere ricavate solo con richieste specifiche, e mirate. Come di recente è stato sottolineato da uno dei campioni del movimento open data “ il diritto assicurato dal Foia di richiedere le informazioni resta essenziale, come risorsa di ultima istanza â€. Di più, occorre riflettere sul fatto che una delle ragioni della difficoltà incontrate dal datajournalism, in Italia, risiede anche nella carenza (fino a ieri) di un vero right to know. A conferma, si noti che invece laddove il diritto a conoscere era già riconosciuto (come nel caso del diritto di accesso alle informazioni ambientali), è stato possibile realizzare inchieste importanti, e di grande impatto politico e sociale.
Insomma, ci sono spazi di libertà da andarsi a prendere, miniere di conoscenza da scavare e da sfruttare, informazioni da individuare, scovare, trattare e diffondere. C’è del giornalismo da fare, ed il Foia offre uno strumento nuovo, inedito (per il nostro contesto nazionale) che merita di essere “provato†fino in fondo, credendoci. Invece di attaccare – a prescindere – con il lamento per cui “L’è tutto sbagliato (e, quindi, che) l’è tutto da rifare!â€.