Molte cose sono accadute dalla crisi del Sole 24 ore, al recentissimo piano di riassetto/riordino di Sky con spostamenti di redazioni e ridimensionamento degli organici, dalla chiusura improvvisa e definitiva di un telegiornale nazionale su un’emittente minore, Canale Italia, che in ogni caso copre tutto il territorio nazionale e possiede una miriade di concessioni a trasmettere nel bouquet del digitale terrestre - una rivoluzione meravigliosa nell’etere televisivo che si è trasformata in breve nella catastrofe peggiore della storia della televisione, almeno in Italia – , con conseguente azzeramento della redazione e licenziamento di tutti i giornalisti, direttore compreso (ma non esistono/esistevano regole precise nelle leggi per l’editoria radiotelevisiva dalla Mammì in poi che obbligano le televisioni a produrre informazione per poter stare accese?). E poi la crisi dell’Unità , con scioperi, cambi di direzione multipli e l’ultimo atto – speriamo di no – con tanto di lettera “finale” del direttore Staino al segretario del Pd Renzi. E come non ricordare l’acquisizione de La Stampa da parte del gruppo L’Espresso e poi l‘acquisto da parte di Cairo editore del Corriere della Sera.
Un anno davvero “intenso” per l’editoria di informazione culminato proprio poco prima della fine nell’approvazione da parte del Parlamento della legge sui contributi per l’editoria, ancora non entrata in vigore – mancano i decreti attuativi. Una legge nata come provvedimento per garantire il pluralismo nel comparto informativo, baluardo decisivo in un paese democratico come recita l’articolo 21 della nostra Costituzione, che si è andata via via trasformando in una sorta di Legge Quadro sull’editoria e il giornalismo arrivando a contenere nell’ultima e definitiva versione approvata dalle Camere, anche una piccola ma sostanziosa riforma dell’Ordine dei giornalisti, quella che riduce di molto il numero dei componenti del consiglio nazionale facendoli passare da 156 a 60 come recita il testo: ” da stabilire nel numero massimo di sessanta consiglieri, di cui due terzi giornalisti professionisti, tra i quali almeno un rappresentante delle minoranze linguistiche riconosciute, e un terzo pubblicisti, tra i quali almeno un rappresentante delle minoranze linguistiche riconosciute, purche’ titolari di una posizione previdenziale attiva presso l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani “. Una legge che continua a elargire soldi senza grande precisione e senza nemmeno grande chiarezza a non meglio precisate cooperative di giornalisti, e non si ricorda di altre forme societarie e aziendali del comparto, oppure che nomina ma non gratifica quasi per nulla il sempre più presente e consistente segmento online dell’informazione, nativa e non solo.
Il giornalismo, in Italia, non va bene; lo leggerete fra breve nella presentazione del rapporto, scritta dal suo autore, Pino Rea, ma – come abbiamo sottolineato più volte – non dimentichiamoci che buona parte di questa crisi è dovuta alla mancanza di comprensione, studio, sperimentazione, di soluzioni e definizioni di nuovi assetti post-rivoluzione digitale. Gli editori mainstream, anche i più illuminati, sono ancora tutti arroccati su posizioni conservative e non provano, quasi per nulla, ad approfittare della miriade di novità che il cambiamento in atto – realizzato e incontrovertibile - ha messo a disposizione. Le novità positive arrivano tutte dall’editoria iperlocale, da esperimenti realizzati da giornalisti imprenditori ( esistono in barba alle leggi e al sistema) quasi sempre da soli e con pochissime risorse, oppure da aziende ( molte rientrano nel fenomeno più o meno fantasmatico delle start up) che operano nel segmento dell’informazione provenendo da settori diversi dal giornalismo e che rischiano di essere ignorate da esperti e istituzioni, e nel frattempo fare un sacco di soldi mentre la nave affonda e la gente si abbuffa di bufale e colonnine di destra che questi non giornalisti propinano loro ad ogni piè sospinto.
Giornalismo, la crisi della professione di Pino Rea
Continua ad approfondirsi la crisi della professione giornalistica, con la crescita intensa del lavoro autonomo sottopagato, diventato una grande sacca di precariato, come dimostra fra l’ altro il fatto che il reddito medio dei giornalisti dipendenti è superiore di 5,4 volte a quello della ‘’libera professione’’ (60.736 euro lordi annui contro 11.241) e il fatto che più di
8 lavoratori autonomi su dieci (l’ 82,7%) dichiarano redditi inferiori a 10.000 euro all’anno.
Intanto il quadro complessivo dell’ editoria giornalistica presenta delle forti criticità . Come ha rilevato infatti recentemente uno studio di Mediobanca in cinque anni – dal 2011 al2015 – i nove maggiori gruppi editoriali italiani – cui fanno capo i principali quotidiani del paese – hanno perso il 32,6% del fatturato (-1,8 miliardi), cumulato perdite nette per 2 miliardi e ridotto la forza lavoro di oltre 4.500 unità , scendendo a 13.090 dipendenti totali (da 17.645 del 2011) 3 . Mentre nello stesso periodo le vendite di quotidiani sono scese di un milione di copie: da 2,8 a 1,8 milioni totali (-34%).
Di questi 4.500 dipendenti quanti sono i giornalisti? Il Rapporto di Mediobanca non lo precisa, ma basandosi sui dati Inpgi si desume che i rapporti di lavoro registrati nel segmento dei quotidiani fra il 2011 e il 2015 sono calati di 1.151 unità , passando da 7.326 a 6.175, con una diminuzione del 15,7%.
Come segnalavamo anche nel Rapporto relativo al 2014, il peso dei segmenti giornalistici tradizionali – quotidiani, periodici e Rai – continua a calare: a fine 2015 era pari al 58,4%, rispetto al 76% del 2000. L’ occupazione cresce nelle aziende private (+7,7%) e nelle radio e tv nazionali (+4,9%), mentre cala in maniera rilevante in tutti gli altri settori.
Mancano però dati sull’ evoluzione e il peso dell’ editoria giornalistica digitale ‘’nativa’’, quella cioè che non fa capo a testate tradizionali e che potrebbe aver assorbito almeno una parte dei giornalisti ‘’espulsi’’ dalle grandi testate. Uno studio compiuto da un gruppo di lavoro del Consiglio nazionale dell’ Odg 4 ha stimato che la media dei giornalisti addetti alle piccole testate digitali è pari a 1,43 giornalisti per testata e si può calcolare quindi in poco meno di 2.000 il numero dei giornalisti a tempo pieno che fanno capo alle circa 1.300 testate (valutazione dell’ Anso) ‘’nuove’’. Lo studio rileva però che solo il 45% dei giornalisti dipendenti ha un contratto Fieg-Fnsi o Aer-Anti- Corallo e sono quindi iscritti all’ Inpgi.
Per i collaboratori (la media è di 7 giornalisti a testata) la situazione appare ancora più confusa e, sul piano contrattuale, lo studio mostra come prevalga largamente il lavoro gratuito o il rapporto di collaborazione occasionale. Insomma, il giornalismo digitale ‘’nativo’’ è un segmento dell’ attività giornalistica dai contorni ancora molto vaghi. Tornando all’ evoluzione della professione, anche per il 2015 l’ aspetto più rilevante è il progressivo allargamento della forbice fra lavoro dipendente e lavoro autonomo, che dal 64,6% del 2014 è salito al 65,5% nel 2015. Era il 62,6% nel 2013, il 59,5% del 2012, il 57,4% nel 2011 e il 55,7% nel 2010. In sedici anni la percentuale è cresciuta di dieci punti. Su 50.674 giornalisti attivi iscritti all’ Inpgi i lavoratori autonomi ‘’puri’’ (quelli cioè iscritti solo all’ Inpgi2) alla fine del 2015 erano 33.188 contro i 17.486 giornalisti dipendenti (il 34,5%). (Da notare che a livello di occupazione complessiva in Italia nel 2015 i lavoratori dipendenti erano invece il 76% contro il 24% di lavoratori autonomi: 17.361.000 contro 5.475.000).
Nel 2000 i giornalisti attivi ‘’effettivi’’ erano 21.373 (il 31,3% dei 68.253 iscritti all’ Ordine – esclusi stranieri ed elenco speciale -). Il numero degli attivi, in sedici anni, è cresciuto del 137%, mentre il numero degli iscritti all’ Ordine, nello stesso periodo, è salito del 54%.
Qui il Rapporto LSDI integrale.