L’ Ordine che vorremmo
L’Ordine che vorremmo non esiste, ci riferiamo al nostro ordine professionale quello dei giornalisti italiani. L’anomalia tutta o quasi solo italiana che costringe chi vuole svolgere questo mestiere non ad intraprendere un percorso di studi specifico che nel BelPaese non esiste, ma invece un percorso che porta ad un’improbabile gavetta a distanza negli organi di informazione ufficialmente riconosciuti per conseguire un’altrettanto improbabile piccola o media o grande retribuzione per poter dimostrare nell’arco di un periodo più o meno lungo di collaborazione con uno o più organi delle medesima informazione e altrettanti direttori responsabili (regolarmente iscritti all’Ordine medesimo) di aver svolto questo mestiere, quello del giornalista, in forma non univoca ma ugualmente retribuito e quindi aver diritto ad essere iscritto all’Ordine nell’albo dei pubblicisti. Oppure ancora meglio, essere assunti – per davvero e sul serio – in uno e uno soltanto di questi fantomatici organi di informazione e venire retribuiti a contratto per mesi diciotto in modo da poter dimostrare di aver svolto il “praticantato†e quindi aver diritto a potersi presentare all’esame di Stato per poter ottenere la qualifica di giornalista professionista.
Poi ci sono le deroghe a questi percorsi autorizzati (?!?). Quelle che tutti conosciamo ma che nessuno nemmeno sussurra se non a mezza bocca e con gli amici più fidati. Quelle che ti permettono di diventare pubblicista anche se non lavori per nessun editore e soprattutto quelle che se anche lavori come un matto per accumulare materiale pubblicistico ti permettono (?!?) di conseguire il tesserino solo se trovi un direttore responsabile compiacente che avvalla la tua documentazione anche se nessuno ti ha pagato per scrivere quei pezzi, o per produrre quei servizi radio televisivi; e che ti sei autopagato versandoti la ritenuta d’acconto in modo da poter dimostrare un rapporto di collaborazione “vero†che gli editori sovente non si possono/vogliono permettere, obbligandoti a cominciare così, di certo non nel modo giusto, la tua carriera da giornalista.
Squilli di tromba (please) rulli di tamburi (ri-please).
Oppure i praticantati d’ufficio. Quelli che l’Ordine della tua regione riconosce tali quando si trova difronte una documentazione copiosa, a volte torrenziale, di lavoro dipendente svolto in forma esclusiva e regolarmente retribuito (anche se magari davvero poco) per anni e non riconosciuto – mai e poi mai dall’editore – se non davanti ad un giudice in un procedimento legale come lavoro dipendente e quindi non ascrivibile in modo incruento ad un tranquillo e formativo periodo di praticantato giornalistico che poi porterebbe, secondo la legge, ad un corridoio legittimo per poter diventare giornalista professionista.
E poi? E quando si diventa in modo più o meno rocambolesco un professionista del dorato (?!?) mondo dell’informazione cosa cambia per le nostre dinamiche professionali? Cosa cambia soprattutto – permettetemi di essere veniale – per le nostre finanze? Siamo tutelati in qualche modo dal nostro Ordine professionale? Esistono delle liste attive e ragionate di professionisti specializzati in questo o quel settore che vengono aggiornate, tenute vive e in buona forma e soprattutto utilizzate quotidianamente per segnalare alle aziende editoriali la forza lavoro da reperire in caso di sostituzioni, pensionamenti, campagne di assunzioni? Assunzioni? (ahahahahahaha)(scusate ma è difficile rimanere seri).
L’Ordine che vorremmo non esiste. Perchè trentanni dopo l’avvento della rivoluzione digitale ci sono ancora presidenti nazionali di tale ordine che quando si parla di informazione digitale non accettano di parlarne in pubblico, declinano gli inviti ai convegni, se accettano, quando si accenna a questo tema prendono commiato dall’assemblea, o meglio ancora si prendono una pausa ristoratrice.
Da queste colonne abbiamo spesso sostenuto una tesi, centrale a nostro avviso, una tesi che ora dopo anni di dibattiti sembra finalmente aver preso piede anche nelle polverose stanze del nostro ordine professionale. << Giornalista è chi il giornalista fa >>. Una tesi che sembra quasi ridicola nella sua ingenuità e che invece qui ed ora ha ancora una potenza e una valenza quasi rivoluzionaria.
Una tesi che appare ancora oggi – anzi – forse proprio a partire da oggi, valida e sostenibile. Oggi che grazie ad una legge sui contributi per l’editoria, varata dal Governo nell’ottobre dello scorso anno, si è finalmente messo mano ad una prima necessaria piccolissima ma utilissima riforma dell’ordine dei giornalisti che ha ridotto il numero dei consiglieri dell’ordine medesimo da 150 a 60. E dunque? E dunque non è il numero ridotto che fa la differenza ma il fattore rappresentatività che ne consegue che porta ad un sostanziale cambio di passo nella gestione del nostro ordine professionale che per qualche strano e non riassumile motivo – non da noi e non in questa sede – nell’assetto a 150, quello pre-riforma, veniva controllato non dai professionisti – quelli che per legge non possono svolgere nessun altro lavoro pena la perdita della propria abilitazione professionale – ma dai pubblicisti. (?!?)
Accipicchia e allora? Allora niente di male, quel che è fatto è fatto, ma ora basta, da oggi si cambia pena l’estinzione della categoria. Vabbè ma non è certo qui che stanno i veri problemi dei giornalisti e del giornalismo! Certo che no! Ma è anche vero che un’istituzione ingessata – e che tale rimane anche dopo questa prima riforma, intendiamoci bene – che non è in grado nemmeno di autogovernarsi efficientemente, non può, evidentemente, nemmeno provare a riformarsi: questa cosa è letteralmente impossibile.
Adesso le condizioni per avviare la riforma ci sono. I pubblicisti rimangono – e a nostro avviso a ragione – una figura importante della nostra professione. Un giornalista può essere bravissimo avere fonti cristalline ed esclusive oltrechè molto efficienti ma la fonte interna è sempre la migliore. Il geometra del comune che è anche pubblicista vedrà cose e toccherà carte che un giornalista, anche il più bravo, difficilmente potrà mai consultare. Quello che poi deciderà di farne – il pubblicista in questione – di queste carte sarà una sua personale, professionale e deontologica scelta; ma questo è un altro capitolo.
Dunque sebbene in zona Cesarini, sebbene con la testa quasi completamente sott’acqua e in forte debito d’ossigeno, sebbene con le tasche vuote e senza prospettive di occupazione: la nostra professione oggi potrebbe finalmente aver trovato i presupposti di legittimità e di forma per poter essere “riformata” a cominciare proprio dal nostro Ordine professionale.
E quindi cosa fare?
Intanto andare a votare, domenica prossima in tutta Italia per eleggere i nuovi vertici delle nostre istituzioni professionali. E poi chiedere davvero che la professione venga riformata. E con essa la legge costitutiva dell’Ordine che regola la nostra professione.
Dove, come e perche?
Intanto nell’accesso che deve diventare non una formalità ne un percorso a ostacoli verso il nulla, ma un vincolo indispensabile, sempre più legato alla formazione professionale qualificata e al mondo del lavoro. Che tradotto significa non creare posti di lavoro dove non è possibile fare altro che – realisticamente – tagliare, ma accettare finalmente in modo cosciente e coerente l’avvenuto cambio di passo grazie alla rivoluzione digitale e alla non rimandabile esigenza di popolare questo nuovo mondo sempre più di professionisti dell’informazione – professionisti veri non persone che si nascondo dietro ad un tesserino – per riuscire a sbrogliare la matassa dell’overload informativo che non può che continuare a crescere a dismisura.
Siamo delle piccole bussole viventi, sappiamo usare il metodo giornalistico – almeno si spera – e in questo modo possiamo adempiere sempre di più e meglio alla nostra funzione precipua che è quella di informare. Intorno a noi il mondo è profondamente cambiato e per questo motivo mentre è necessario sottolineare la sempre più importante nostra funzione specifica – quella di informare - dobbiamo anche riconoscere che questa funzione deve essere esercitata in un sistema imprenditoriale totalmente diverso dall’esistente e che va completamente ripensato o in molti casi ancora pensato, ideato o nel migliore dei casi costruito ex novo dalle fondamenta.
Le urne si aprono il primo ottobre, il resto sta a Noi.