La verità non sta dentro le gabbie

Il gran parlare che si fa oggi  sulla verità, sull’aggettivo diventato improvvisamente sostantivo “post-verità”, e sulle fake news di Trumpiano esempio, ha creato, a nostro modestissimo avviso, prima una lieve distorsione fra la natura del dibattito e il suo significato. In seguito e a stretto giro di posta la distorsione si è andata via via ampliando,  e ora sta assumendo sempre più le dimensioni di una voragine, enorme, cosmica.

 

 

Come spesso accade, soprattutto nel BelPaese, ci siamo subito dimenticati del significato e del motivo della contesa, e ci siamo suddivisi in mille rivoli sparsi che commentano ad ogni piè sospinto questa o quella posizione più o meno autorevole, più o meno politicamente schierata, più o meno utile alla soluzione del problema.

 

 

Come dire: tanto rumore per nulla, ma anche, alla toscana: ” Tanto tonò  che piovve! “. Alla fine infatti “dibatti che ti dibatti”, qualcuno ha pensato bene di alzare il tono e dalla sua privilegiata e potente posizione, legittimata peraltro da pubbliche elezioni e quindi da un voto popolare democraticamente espresso, di presentare un disegno di legge –  addirittura di respiro internazionale – per imporre nuove norme alla libertà di espressione. (ddl Gambaro)

 

 

Qualcun altro da una posizione ancora più alta e visibile, per non far nomi la Presidente della Camera Boldrini, ha dato avvio ad una iniziativasicuramente in buona, anzi buonissima fede –  per mettere altre norme, anzi farle mettere direttamente ai proprietari del social media più popolato della storia dell’uomo – circa 2 mld di invidui secondo le ultime stime – che si chiama Facebook, dentro il medesimo social. Norme che limitano, appunto, la libertà di espressione. E chiedere ad un non editore –  e che tale si è sempre definito negli anni, fino a quando gli ha fatto comodo – di farlo, è un modo ben strano di porre rimedio a fake news o linguaggi violenti, trolls o hate speech, non trovate? E non legittima lo stesso “non editore” a pensare che forse è il momento di diventarlo?

 

 

Numerose altre iniziative si rincorrono ogni giorno, fuori e dentro la rete, scritte o a voce in spazi pubblici, televisivi e radiofonici o sul web stesso. Tutte o quasi ci vedono boccheggiare alla ricerca di risposte ma senza aver posto le giuste domande, o peggio dare risposte sbagliate, peggiori dei comportamenti disonorevoli che vorremmo censurare.

 

 

E’ un momento storico questo, a nostro avviso, davvero importante, davvero utile per noi tutti, visto quanto è rilevante l’argomentazione in oggetto nel dibattito pubblico. Bisognerebbe però riuscire ad uscire dalla chiacchiera da bar e soprattutto dalla strumentalizzazione politica del medesimo, per rimettere la discussione nei giusti binari della comprensione, dell’arricchimento culturale, della consapevolezza dei propri comportamenti.

 

 

Sono passati trent’anni dall’avvento della rivoluzione digitale, le cose sono avvenute, altre  stanno accadendo, molto di quello che è capitato  ha già radicalmente cambiato i nostri comportamenti, ma spesso non ne siamo nemmeno coscienti.  Vogliamo continuare a far finta di vivere nello stesso mondo di prima. Non è così e le nuove catene che ogni giorno ci inventiamo servono solo ad allungare quelle arrugginite e sepolte nel fondo limaccioso di una visione del mondo limitata e antistorica che ci impoverisce – tutti – ogni giorno di più.

 

 

Abbiamo provato, grazie alla collaborazione degli amici esperti di analisi di mercato e di statistica di Quorum, (gli stessi che hanno inventato You Trend) a porre alcune semplici domande in relazione a questa voglia di nuove leggi e norme sulla libertà di espressione ad un campione rappresentativo di italiani. Come hanno risposto gli intervistati ce lo racconta Salvatore Borghese di Quorum nel suo pezzo qui sotto.

 

 

E quando conosciuti i risultati scopriamo che la maggior parte di noi è convinta che limitare la nostra libertà di espressione sia il male minore come dobbiamo reagire? A questa domanda prova a rispondere un grande giornalista e studioso di queste problematiche come Mario Tedeschini Lalli, nella parte conclusiva di questo articolo a sei mani. Buona lettura!

 


La questione delle “fake news” e della “post-verità” è entrata nel dibattito pubblico in modo graduale. Il termine “post-verità” è divenuto di uso comune soprattutto in occasione della vittoria elettorale di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi, in seguito ad una campagna elettorale in cui il candidato repubblicano aveva ripetutamente fatto affermazioni palesemente esagerate, spesso senza alcun riscontro nella realtà, cavalcando in più di un’occasione proprio quelle “fake news” che impazzano su internet, spesso prodotte da siti specializzati nella produzione di contenuti virali ma spesso inventati di sana pianta. E la questione è divenuta di attualità anche in Italia, quando si è assistito a una levata di scudi contro le “bufale” che contribuiscono a diffondere rabbia e sfiducia, poiché hanno molto spesso come bersaglio gli immigrati e i politici. Per questo, nel dibattito pubblico si è incominciato a parlare di un possibile intervento legislativo per scoraggiare, o addirittura vietare, la diffusione di “fake news”. Una proposta di legge, presentata dalla senatrice Adele Gambaro (eletta con il Movimento 5 stelle e da questo in seguito espulsa), va proprio in questa direzione. Il ddl si fonda sull’assunto che la libertà di informazione non può essere assoluta, ma deve rispettare il criterio di attinenza alla verità: più precisamente, nell’introduzione si legge. Si tratta di un’affermazione molto forte, in quanto si fa espressamente riferimento a un “controllo” dell’informazione, che in un sistema democratico deve essere quanto più possibile libera.

 

 

Abbiamo quindi testato quanti italiani sono d’accordo con questa affermazione, ponendo loro la seguente domanda:

 

 

«Può dirmi quanto è d’accordo con la seguente affermazione? “La libertà di espressione non può trasformarsi semplicemente in un sinonimo di totale mancanza di controllo, laddove controllo, nell’ambito della informazione, vuol dire fornire una notizia a tutela degli utenti”»
A questa domanda si poteva rispondere “molto d’accordo”, “abbastanza d’accordo”, “poco d’accordo” oppure “per nulla d’accordo”. Le interviste, realizzate nell’ambito di un’indagine più ampia (intitolata “Tra piazza e palazzo – L’Italia nelle opinioni dei cittadini e dei parlamentari”) sono state raccolte con metodo misto CATI (telefonico, 450 casi) e CAWI (online, 150 casi), per un totale di 600 rispondenti tra il 17 e il 20 marzo scorso.

 

 

Dal sondaggio è emerso che una maggioranza molto netta degli italiani (quasi 3 su 4) concorda con l’affermazione contenuta nel ddl Gambaro. In particolare, il 24,7% (quasi uno su 4) è “molto d’accordo”, il 49% è “abbastanza d’accordo”, il 22,9% è “poco d’accordo” e solamente il 3,5% “per nulla d’accordo”. Una volta appurato questo, però, è interessante vedere se vi siano differenze tra cittadini di diverso orientamento politico o caratteristica sociale, ed è ciò che abbiamo fatto incrociando le risposte a questa domanda con le risposte alle domande sul comportamento di voto in passato, sull’età, l’istruzione e la zona di residenza degli intervistati.

 

 

 

 

Cominciamo proprio dal voto. Un primo incrocio è quello con il voto espresso in occasione delle elezioni europee del 2014, ossia l’ultima tornata elettorale su scala nazionale. Per una questione di attendibilità del dato, conviene guardare soprattutto ai 4 partiti che in quell’occasione ottennero i consensi maggiori (per i quali i sotto-campioni sono quindi più numerosi): PD, M5S, Forza Italia e Lega Nord.

 

Gli elettori del PD 2014 sono quelli in cui è più frequente la risposta “abbastanza d’accordo” (ben il 55,5%, 6,5 punti in più rispetto al campione complessivo), ma allo stesso tempo presentano anche un numero di elettori in totale disaccordo non proprio trascurabile: il 4,4%. Il consenso più ampio lo si registra tra gli elettori di M5S e Lega Nord: nel primo caso, i favorevoli sono oltre l’85%; nel secondo, addirittura il 91%, con ben il 51,6% (oltre uno su due) che si dichiara “molto d’accordo”. Gli elettori di Forza Italia sono invece quelli in cui sono più numerosi coloro che sono “poco d’accordo” con il controllo dell’informazione. Ma, oltre che quello relativo ai votanti, è interessante guardare anche al dato di chi in quell’occasione non si recò alle urne (oltre 4 elettori su 10). Ed è in qualche modo significativo che tra questi ultimi il consenso verso l’affermazione sia sì maggioritario, ma decisamente inferiore rispetto al campione complessivo (58,8% contro 73,7%).

 

 

VOTO EUROPEE 2014 (% molto-abbastanza-poco-per nulla d’accordo)

PD: 27,3-55,5-12,7-4,4
TSIPRAS: 43,0-43,9-13,1-0
M5S: 39,3-46,5-13,4-0,8
FI: 37,0-35,2-26,6-1,1
LEGA: 51,6-38,7-8,9-0,8
NCD/UDC: 32,7-39,8-27,6-0
FDI: 60,1-39,9-0-0
VERDI: 19,5-59,3-0-21,2
SC.EU: 6,9-76,6-16,6-0
IDV: 17,0-83,0-0-0
SVP: 0-100-0-0
MAIE: 0-100-0-0
ASTEN: 11,1-47,7-36,0-5,3
MINOR: 27,9-64,9-7,3-0
TOT: 24,7-49,0-22,9-3,5

 

 

Una differenza piuttosto significativa si ritrova anche incrociando con il voto al referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre. In particolare, tra quelli che hanno votato Sì il livello di accordo con l’affermazione del ddl Gambaro è dell’83%, con quasi un terzo dei rispondenti (31,6%) che si dichiara “molto d’accordo”. La quota di favorevoli si riduce tra chi invece ha votato No (meno del 72%), mentre anche in questo caso gli astenuti sono il segmento che si dichiara meno d’accordo: oltre un terzo (34,5%) si dice “poco d’accordo”, e in generale i favorevoli sono “solo” il 59%.

 

 

VOTO REF COST
SI: 31,6-51,4-14,5-2,5
NO: 22,6-49,2-25,1-3,1
ASTEN: 16,0-43,1-34,5-6,5
TOT: 24,7-49,0-22,9-3,5

 

 

Vediamo ora le differenze sul piano delle variabili socio-demografiche. Un primo risultato interessante lo si ottiene incrociando con l’età dei rispondenti, che nel nostro caso sono stati suddivisi in tre fasce: giovani (18-34 anni), maturi (35-54) e anziani (55 anni e oltre). I più favorevoli al principio del controllo sull’informazione sembrano essere proprio i giovani, con oltre l’82% che si dichiara d’accordo. Gli “scettici” aumentano nelle fasce d’età successive, e in quella più alta si assiste ad una sorta di “polarizzazione”: rispetto alla fascia d’età intermedia, aumentano sia i “molto d’accordo” (28,4% – quasi 1 su 3) sia i “per nulla d’accordo” (4,5% contro 2,7).

 

 

ETA’
18-34: 21,5-60,8-16,2-1,5
35-54: 20,1-52,1-25,2-2,7
55+: 28,4-43,7-23,4-4,5
TOT: 24,7-49,0-22,9-3,5

 

 

Ma l’incrocio forse più significativo lo si ritrova con il livello d’istruzione. Sotto questo aspetto, è interessante notare come il livello di accordo con l’affermazione del ddl Gambaro cresca di pari passo all’aumentare del livello del titolo di studio. Se tra chi possiede solo una licenza elementare/media gli “scettici” sono oltre un terzo (35,1%), il livello di disaccordo tra chi ha almeno una laurea si riduce al 13,2%. Non è infrequente riscontrare orientamenti simili tra chi possiede un titolo di studio più basso e i più anziani – e, specularmente, tra i giovani e i più istruiti: le nuove generazioni possiedono mediamente un livello d’istruzione superiore rispetto alle precedenti. In questo caso i dati lasciano intendere che il disaccordo verso forme di “controllo” dell’informazione possa essere dovuto alla maggiore sfiducia nei confronti delle istituzioni (e del “sistema” nel suo complesso) che si riscontra regolarmente tra coloro che hanno titoli di studio inferiori.

 

ISTRUZIONE
BASSA: 24,2-40,7-31,8-3,3
MEDIA: 23,0-57,3-16,0-3,7
ALTA: 31,3-55,5-9,8-3,4

 

 

Quanto appena detto rende poco sorprendenti i dati relativi alla provenienza geografica degli intervistati. Tra chi risiede nelle regioni del Nord, infatti, la percentuale di chi si dichiara molto o abbastanza d’accordo si situa intorno all’80%. Tra chi risiede nel Centro vi è un picco di chi è “per nulla d’accordo” (9,6%), ma il dato rilevante viene dal Mezzogiorno, in cui ammonta esattamente a un terzo (33,5%) la quota di rispondenti che è poco o per nulla d’accordo con il principio del controllo sull’informazione.

 

 

ZONA
NW: 27,9-51,6-19,4-1,1
NE: 25,4-55,7-16,2-2,7
CENTRO: 31,6-39,4-19,4-9,6
SUD: 18,2-48,3-31,2-2,3
TOT: 24,7-49,0-22,9-3,5

 

 

Salvatore Borghese

 

 

***

 

  Mettiamola giù un po’ brutalmente: la maggioranza, anzi la stragrande maggioranza dei cittadini italiani sembra considerare ovvio che la libertà di espressione debba avere limiti ed essere soggetta a “controllo” da parte della legge. Di fronte alle sempre più pressanti e scomposte iniziative politiche che progettano una “regolamentazione di Internet” con serie conseguenze per la libertà di espressione, è utile prendere atto che l’opinione pubblica – ahinoi – è culturalmente sulla stessa lunghezza d’onda.

 

 

Guardate i risultati di un sondaggio condotto da Quorum : tre italiani su quattro sono pronti a sottoscrivere questa affermazione:

 

 

“La libertà di espressione non può trasformarsi semplicemente in un sinonimo di totale mancanza di controllo, laddove controllo, nell’ambito della informazione, vuol dire fornire una notizia a tutela degli utenti”.

 

 

A tre italiani su quattro, cioè, questa frase sembra semplice buon senso e non avvertono come un ossimoro costituzionale la presenza dei concetti di “libertà di espressione” e di “controllo” nello stesso periodo.

 

 

Il sondaggio è nato per iniziativa comune dell’associazione Libertà di stampa, Diritto all’informazione (LSDI) e del blog Giornalismo d’altri in seguito alla presentazione in febbraio del disegno di legge della senatrice Adele Gambaro che prevede nuove norme per l’informazione nel mondo digitale. Al di là delle critiche puntuali alle follie e alle incongruenze dell’articolato che già allora furono evidenziate da molti analisti (ad esempio Fabio Chiusi su ValigiaBlu:” La legge contro le fake news: un misto di ignoranza e voglia di censura“), ci è sembrato utile affrontare la questione – come dire? – culturale che il ddl Gambaro propone e abbiamo deciso di farlo partendo dalla “Relazione” che accompagna il progetto, che espone per così dire la filosofia dell’articolato.

 

 

E’ proprio in questa relazione introduttiva che la senatrice Gambaro (ex M5S, ora ALA) e i suoi 35 co-firmatari affermano un’idea della libertà di espressione impastata di controllo, impregnata dell’idea che l’autorità pubblica debba in qualche modo aiutare il cittadino a districarsi tra le informazioni anche contro la volontà o le intenzioni del cittadino stesso. L’idea – in sostanza – che la libertà di espressione, pur citata a ogni piè sospinto, non sia un bene in sé, ma solo in quanto il suo esercizio sia volto alla comunicazione del “bene”, della “verità”, genericamente definiti e immaginati come criteri oggettivamente riscontrabili e definibili dall’autorità dello Stato, al quale incomberebbe in particolare la responsabilità di garantire (a “tutela degli utenti”) che le informazioni siano “corrette”.

 

 

Riprendiamo, allora, la formulazione completa della relazione:

 

 

!…internet ha sì ampliato i confini della nostra libertà dandoci la possibilità di esprimerci su scala mondiale, ma la libertà di espressione non può trasformarsi semplicemente in un sinonimo di totale mancanza di controllo, laddove controllo, nell’ambito dell’informazione, vuol dire fornire una notizia corretta a tutela degli utenti!.

 

 

All’inizio di febbraio, in una discussione su Facebook dedicata al disegno di legge sostenni che “In questa tragica iterazione dei tentativi di ‘normare il web’, c’è qualcosa di più, c’è l’affermazione apertis verbis di un concetto, di una teoria” del controllo dell’informazione a tutela degli utenti e ipotizzavo che “stragrande maggioranza dell’opinione pubblica e anche istituzionale è pronta a sottoscrivere una affermazione di principio del genere – magari dividendosi sul ‘che fare’ “. Proponevo perciò che qualcuno mettesse alla prova questa ipotesi con un sondaggio.

 

LSDI e il suo presidente Marco Renzi hanno raccolto il suggerimento chiedendo aiuto a Quorum, che ha effettuato il sondaggio. I risultati di dettaglio e la metodologia di ricerca sono illustrati da Salvatore Borghese, ma la sostanza è che la mia ipotesi è stata purtroppo largamente confermata.

 

 

La domanda posta dai ricercatori ai loro interlocutori era di proposito de-contestualizzata, non c’era alcun elemento che indicasse che si trattava di un disegno di legge e chi ne fosse l’autore. E’ stato semplicemente chiesto loro: “Può dirmi quanto è d’accordo con la seguente affermazione?” cui seguiva la frase dalla quale era espunto il riferimento a internet. Le risposte possibili erano: “Molto d’accordo”, “Abbastanza d’accordo”, “Poco d’accordo”, oppure “Per nulla d’accordo”.

 

 

Il risultato è francamente sconfortante: il 24,7 per cento (quasi uno su quattro) si è detto “molto d’accordo” e il 49 per cento “abbastanza d’accordo”. “Poco d’accordo” si è scoperto il 22,9 per cento e solo il 3,2 per cento era “per nulla d’accordo”. Sommando: il 73,7 per cento degli intervistati era d’accordo con l’affermazione che la libertà d’informazione deve essere controllata per “a tutela degli utenti”; solo al 26,1 per cento questo crea dei problemi.

 

 

Gli esperti mettono da sempre in guardia i giornalisti dal trarre conclusioni affrettate dai sondaggi senza tenere conto del “margine di errore”. Bene, il margine di errore di questo sondaggio è del +/- 4%, ben al di sotto della differenza tra favorevoli e contrari. In altre parole, anche ipotizzando l’errore massimo nel senso che a noi interessa: se i “molto d’accordo” fossero tra i cittadini italiani “solo” il 20,7 per cento (-4%) e tra gli “abbastanza d’accordo” il 45 per cento, avremmo comunque il 65,7 per cento degli italiani favorevoli. Non c’è di che gioire.

 

 

Le interessanti suddivisioni per orientamento politico, età, collocazione geografica e status economico-sociale dei rispondenti le trovate nel pezzo di Borghese,  qui è importante il dato d’insieme e il dato d’insieme ci dice che in nessuna categoria i “contrari” arrivano neppure a sfiorare la maggioranza e solo due gruppi sociologici (gli astenuti alle elezioni europee del 2014 e gli astenuti al referendum costituzionale del 2016) vedono i favorevoli scendere di pochissimo sotto il 60 per cento.

 

 

Sappiamo che questi numeri potranno essere usati dai firmatari del disegno di legge e dagli analoghi rappresentanti della “cultura di controllo” – tra i quali non pochi giornalisti – come una conferma delle loro ragioni, ma essere parte del “senso comune” non è mai una buona misura quando si parla di libertà e di diritti civili.

 

 

Il problema – come dicevo nella discussione su Facebook – è che “il principio [del controllo dell’informazione a fin di bene] è considerato una ovvietà, come il Sole che gira intorno alla Terra… che come tutti sanno è una cosa che non ha bisogno di dimostrazioni, si vede a occhio nudo”, Santa Inquisizione permettendo. Continuando il paragone astronomico, siamo a una fisica pre-galileiana

 

 

No, i principi e i diritti non sono cose ovvie, sono anzi il più delle volte controintuitivi perché spesso riguardano le minoranze, non le maggioranze. Occorre affermare il principio che la libertà di espressione è un bene in sé, non solo quando esprime cose “buone” e che i limiti, quando vengano previsti, siano considerati un male necessario, una eccezione, non la norma. Ciò che questa frase invece rivela è che i limiti sono considerati intrinseci alla libertà, che la libertà – in fondo – è un pericolo da “controllare”.

 

 

E’ una cultura che viene da lontano, è la cultura di un Paese che nel suo complesso non ha ancora fatto completamente i conti la democrazia liberale. Nel tentativo di metter le braghe alla Storia e alle nuove libertà del mondo digitale, politici, intellettuali, magistrati e spesso anche giornalisti rischiano di legittimare e alimentare visioni autoritarie che in questo periodo stanno crescendo, in Italia come nel resto del mondo.

 

 

Possiamo, forse, trovare un po’ d’animo nel pensare che meno di un mese dopo la presentazione al Senato italiano del disegno di legge Gambaro, il Relatore speciale delle Nazioni unite per la Libertà di opinione e di espressione, il Responsabile per la Libertà dei media della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), il Relatore speciale per la Libertà di espressione dell’Organizzazione degli Stati americani e quello della Commissione africana per i diritti umani hanno sottoscritto a Vienna una dichiarazione congiunta che riafferma un principio molto chiaro:

 

 

…that the human right to impart information and ideas is not limited to “correct” statements, that the right also protects information and ideas that may shock, offend and disturb, and that prohibitions on disinformation may violate international human rights standards, while, at the same time, this does not justify the dissemination of knowingly or recklessly false statements by official or State actors.

 

 

per arrivare ad affermare solennemente, tra le altre cose:

General prohibitions on the dissemination of information based on vague and ambiguous ideas, including “false news” or “non-objective information”, are incompatible with international standards for restrictions on freedom of expression, as set out in paragraph 1(a), and should be abolished.

Amen.


Per una discussione in italiano della dichiarazione dei garanti internazionali vedi: Guido Scorza, “Fake-news: no ad ogni censura normativa o tecnologica“.

 

 

 

Mario Tedeschini Lalli

La proposta di legge da scaricare.