C’è un aspetto della vicenda di Facebook e Cambridge Analytica che, a mio avviso, rischia di passare sotto la traccia del mainstream. La questione della violazione della privacy, per quanto delicata, credo stia prendendo il sopravvento su ciò che con la violazione della privacy si realizza.
Mi spiego: se la cessione dei dati personali è cosa che può ritenersi più o meno al livello medio di consapevolezza di utilizzo delle piattaforme (nella sua installazione, thisisyourdigitallife avrà pur chiesto agli utenti il collegamento al proprio account Facebook, no?), al di sotto di tale livello vi è con buona probabilità la cognizione di ciò che di questi dati si può fare.
Molto candidamente Facebook nella sua newsroom dichiara che l’applicazione di Kogan  “offered a personality prediction, and billed itself on Facebook as “a research app used by psychologists. Approximately 270,000 people downloaded the app. In so doing, they gave their consent for Kogan to access information such as the city they set on their profile, or content they had liked, as well as more limited information about friends who had their privacy settings set to allow it.” Quella della privacy, insomma, è roba assodata: “Ma di che parliamo” sghignazzerebbe quasi Zuck!
La questione che pongo è un’altra e si chiama “vizio dei percorsi cognitivi”, inteso come output di processi il cui input è il set dei dati personali con cui si paga l’accesso alle piattaforme online. Con l’aggravante che questi processi non sono (più) solo gli algoritmi di funzionamento della piattaforme, ma anche l’insieme di azioni che, pur contando sui dati raccolti per mezzo di esse, fuori da esse poi si compiono. In uno scenario che, stando a quanto si legge in queste ore, esce decisamente fuori da ogni binario di moralità .
Questa vicenda, quindi, oltre che riattizzare il fuoco della sicurezza e della privacy, deve porre in modo drammatico la questione della trasparenza dei metodi di utilizzo dei dati personali.