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Agricoli o digitali, sempre braccianti siamo

Questa è la Rotonda di Melito di Napoli. Quando Aboubakar Soumahoro giunse in Italia gli amici con cui divideva la casa gli spiegarono che per andare a lavorare era necessario svegliarsi alle cinque del mattino per raggiungere la rotonda di Melito, a piedi o in bicicletta, e poi aspettare che passasse qualcuno “in cerca di braccia”. Guardando questa immagine ho visto Aboubakar arrivare in bicicletta a quella rotonda, contento della prima giornata di lavoro e impaurito delle macchine che gli sfrecciavano vicino lungo la Circumvallazione Esterna di Napoli. Ho pensato a quante volte abbia fatto quel tragitto e quante altre persone lo abbiano fatto con lui.

 

Quella raccontata da Aboubakar Soumahoro in questo libro, “Umanità in Rivolta”, è anche la storia di quelli che non sono riusciti ad arrivare in Italia e di quelli che, una volta arrivati, sono morti ammazzati dal lavoro. Lavoratrici e lavoratori che hanno perso la vita nello svolgere le loro attività o nelle battaglie per difendere compagni che hanno perso il lavoro o per la conquista di diritti.

 

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–> 25 Dicembre 1996: muoiono 283 persone a Portopalo di Capo Passero.

–> 3 Ottobre 2013: 366 morti a poche miglia da Lampedusa.

–> Nel 2018 in totale sono morte 2000 persone.

–> Nel solo mese di Gennaio 2019 ci sono state 170 vittime di naufragio

Quasi 3000 morti, molti senza nome.

 

E poi c’è Jerry Essan Masslo, morto il 25 Agosto 1989 nel ghetto di Villa Literno; ucciso durante una rapina nel capannone dove dormiva insieme con altri braccianti.

Ci sono le 34 persone uccise il 16 Agosto 2012 in Sudafrica; la polizia spara contro gli operai della miniera di platino di Marikana che scioperano pacificamente per ottenere un aumento salariale e migliori condizioni di lavoro dalla società londinese LonMin, proprietaria della miniera. 68 persone rimangono ferite.

E poi ancora Paola Clemente, morta sul posto di lavoro il 13 Luglio 2015; era nelle campagne pugliesi di Andria a raccogliere uva. Alla donna “morta di fatica”, vittima del caporalato, il regista Pippo Mezzapesa ha dedicato un cortometraggio intitolato “La giornata”.

E ancora Abd Elsalam Ahmed Eldanf travolto 15 Settembre 2016 da un tir durante il picchetto per il reintegro di alcuni lavoratori licenziati. 

E Soumaila Sacko, sindacalista, ammazzato da un colpo di fucile, il 3 Giugno 2018, mentre era con alcuni suoi compagni, nei pressi di una fabbrica abbandonata per cercare materiale di risulta.

E Alberto Piscopo Pollini, investito da un’auto il 1 Dicembre 2018 durante una consegna di cibo da asporto.

 

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La bussola di Aboubakar Soumahoro per non perdersi in queste storie che sembrano raccontate dall’inferno è Giuseppe Di Vittorio sindacalista, politico e antifascista italiano, fra gli esponenti più autorevoli del sindacato italiano del secondo dopoguerra. Di Vittorio si chiedeva:

 

“E’ giusto che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangono che le briciole? E’ giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie, delle loro creature? E’ giusto questo? Di questo dobbiamo parlare, perché – concludeva Di Vittorio – è il compito del sindacato”.

 

Oggi Aboubakar Soumahoro è un attivista sindacale e sociale impegnato nella difesa dei diritti dei lavoratori e degli esclusi. Soumahoro è un uomo che, avendo vissuto il fenomeno migratorio ed essendo stato dentro il mondo degli sfruttati, ha le carte in regola e la credibilità per poter proporre delle soluzioni che, rinnovando il messaggio di Giuseppe Di Vittorio, fanno leva sui basilari diritti degli esseri umani e dei lavoratori e, soprattutto, su una idea di mondo socialmente e umanamente sostenibile.

 

Chi sono i responsabili delle morti in mare?

I responsabili non sono gli scafisti, osserva Soumahoro, ma le scelte politiche di chiudere le frontiere sull’onda emotiva di una emergenza che non c’è. Un percorso culturale, che Soumahoro definisce di “razzializzazione istituzionalizzata” (da far risalire a oltre trenta anni fa), basato su tre principi:

il naturalismo razziale (esiste una naturale gerarchia secondo cui quella bianca e la razza dominante)

la storicizzazione razziale (la storica supremazia coloniale dei bianchi) 

la razzializzazione culturale (la impossibilità di coabitazione tra persone che esprimono culture diverse e plurali).

 

Un percorso, che, attraverso gli anni, a partire dal 1990 con la Legge Martelli (erano ancora i tempi del pentapartito), attraverso la Turco-Napolitano (1998, governo di centrosinistra), la Bossi-Fini (2002, centrodestra), il Pacchetto Sicurezza (2008, centrodestra) e la Minniti (2018, centrosinistra), è giunto, con incredibile nonchalance, al Decreto Sicurezza del 2018 (Movimento 5 Stelle e Lega): una evidente escalation di erosione dei diritti umani sanciti dalla Costituzione Italiana operata (art. 3, pari dignità ai cittadini; art. 13, inviolabilità della libertà personale; art. 24, tutela dei diritti) con una azione che non ha subito soluzioni di continuità .

 

“Perché le merci possono circolare liberamente e le persone no?”, si chiede Soumahoro.

 

E’ a causa della cultura razzista e della contemporanea necessità del mercato di braccianti a basso costo che ci sono morti; ci sono morti sul lavoro, ci sono morti in mare, ci sono morti di africani e morti di italiani.

 

E’ possibile – si chiede Aboubakar Soumahoro – immaginare un’alternativa alle due strade politiche per la gestione dei processi migratori date dalla cultura della paura e dalla tolleranza solo per chi si vuole integrare? Occorre – prosegue – una coscienza collettiva che metta insieme pensiero e azione e agisca a livello internazionale contro ogni discriminazione (anche, ma non solo su base razziale) nella garanzia dei diritti, intesi anche come diritti dei lavoratori. Aboubakar Soumahoro infatti, il 4 Giugno 2018, nella manifestazione per Soumaila, parla a nome di lavoratori braccianti, lavoratori della logistica, lavoratori dei servizi, lavoratori della grande distribuzione organizzata, lavoratori italiani e migranti, giovani senza presente né futuro. A nome di tutti.  

 

Chi comanda?

Soumahoro sostiene che i problemi delle morti e delle mancate garanzie dei diritti e salari da fame non possono essere solo una questione “penale” tra caporale e lavoratore. Il problema è che si continua a negare e nascondere il fenomeno dell’aumento dei profitti del capitale e dei salari sempre miseri. Il problema non è il caporalato, cioè l’intermediazione tra domanda  e offerta di lavoro, ma il sistema (quello della Grande Distribuzione e delle multinazionali) che genera la necessità di abbassare i prezzi per stare sul mercato.

 

“L’esempio della provincia di Foggia è significativo: si registra – racconta Soumahoro – la presenza di più di 50.000 braccianti a cui, in alta stagione, vanno aggiunti altri 5000 lavoratori definiti “migranti”. Dobbiamo aver il coraggio di cogliere l’elemento che accomuna gli uni e gli altri, ovvero il lavoro sottopagato nei campi rispetto al quale la provenienza geografica è evidentemente inessenziale.

Se vogliamo comprendere il nostro obiettivo dobbiamo individuare con precisione il nostro avversario. Per esempio, è strano che nessuno si interroghi sugli enti che certificano la qualità etica delle imprese della filiera e che ogni giorno stabiliscono che non vi sono casi o episodi di sfruttamento. Il controllato, che è in realtà il committente, paga il controllore per certificare il processo di produzione”

 

Ecco, il messaggio di Aboubakar Soumahoro è tutto in questa riflessione. Ed è un messaggio che acquista ancora più senso quando Soumahoro lo allarga ai braccianti digitali, ai riders, a chi – esattamente come capita ai lavoratori dei campi a 2€/l’ora (a dispetto di un contratto che ne prevederebbe molti di più, circa 8) – grazie alle scelte delle Imprese e del Legislatore – acquista lavoro con diritti e dignità (no, non è un errore: è proprio questo che succede: il lavoratore paga per il lavoro che fa!)

 

Proposte

Il valore aggiunto di questo saggio è nella sintesi di alcune misure, direi immediatamente applicabili:

  1. ripartire dal protagonismo delle braccianti e dei braccianti, in una prospettiva di alleanza con i contadini e gli agricoltori da un lato e i consumatori dall’altro per chiedere uguale lavoro, uguale salario, cibo sano e vita degna
  2. ripartire dal codice etico per l’intero settore agricolo perché siano rispettati i diritti di tutti
  3. ai consumatori bisogna dare prodotti che tengano conto delle condizioni di lavoro di chi li produce
  4. un pilastro programmatico deve essere l’abolizione della Bossi-Fini
  5. andando ancora di più nel concreto:
    • istituire un tavolo permanente interministeriale e inter-istituzionale (datori di lavoro, lavoratori e ispettorato del lavoro)
    • coinvolgimento dei centri per l’impiego contro il caporalato
    • condizionare l’accesso ai fondi al rispetto da parte dell’azienda dei diritti umani
  6. internazionalizzare la lotta sindacale
  7. unire, come detto, donne e uomini, che lavorano nei campi o per le aziende tecnologiche e ad essi unire le lotte di tutti i precari (curioso e interessante che, tra le tante categorie, Soumahoro citi quella dei giornalisti)

Difendere il lavoro oggi – chiude così questo saggio che è anche un piccolo manuale – significa partire da due istanze che viaggiano insieme:

  1. difendere i bisogni materiali e
  2. garantire i bisogni immateriali delle persone

 

Si tratta di fare un percorso condiviso dopo aver creato una coscienza collettiva della condizione umana in cui – per l’appunto – riscoprire il concetto di umanità che vuole politiche giuste ed eque il cui successo non si misuri più solo su indici quantitativi come il PIL.

 

***

 

Mi sono trovato di fronte ad un lavoro  disarmante per la sua chiarezza. In esso è contenuta una idea di mondo che dobbiamo definire rivoluzionaria solo perché momentaneamente sconfitta da una logica che misura la vita in termini quantitativi. Voglio dire che rivoluzionaria, in un mondo normale, non lo sarebbe affatto: si tratta infatti di una idea “normale” di mondo.

 

Vi ho ritrovato il principio per cui il benessere è un percorso che non ha alcun senso se non è realizzato insieme agli altri, che i cinque gradini di Maslow sono il modello buono, e che – come lo stesso Maslow diceva – la base di tutto rimane la conoscenza (non sarà certamente un caso che Soumahoro, tra le tante categorie dei precari abbia citato proprio  quella dei giornalisti).

 

La sfida che Soumahoro pone non è banale: federare le lotte è infatti ciò che non sembra più riuscire alla politica (nel senso di quelli che si candidano ad amministrare la cosa pubblica), ma è ciò di cui c’è bisogno. In questo tempo credo che sia necessaria l’azione degli attori sociali, delle associazioni e dei sindacati ai quali è rimasto – più che ai partiti – il ruolo aggregante e rappresentativo dei bisogni.

 

Penso in particolar modo al Sindacato, non solo perché Soumahoro è un sindacalista, ma perché mi sembra – almeno nelle cause che riguardano il mondo del lavoro – il soggetto in grado di mettere a fattor comune le vertenze perché le conosce, o almeno dovrebbe. E anche perché, da quello che osserviamo da qui, sembrano molto più di altri “gruppi istituzionali” essere vicino a ciò che accade ora, ai nuovi paradigmi e alle idee di possibili futuri (penso ai Riders Union di Bologna e alla CGIL). Sarebbe interessante, per esempio, riuscire a declinare nel mondo dei “braccianti digitali” ciò che Soumahoro indica per la condizione dei braccianti agricoli.

 

Un lavoro – apro una parentesi che penso sia utile per sostanziare il pensiero – che può contare su alcune inchieste già disponibili, penso per esempio a quello di Riccardo Staglianò nel suo “Lavoretti”. Un’altra è quella di Massimo Gacci sul Corriere, un interessante pezzo del Corriere dello scorso 26 Maggio dal titolo “I braccianti digitali al servizio dei robot”: alle categorie individuate da Staglianò, aggiunge quella degli sharecropper (che letteralmente vuol dire proprio coltivatore, mezzadro): si tratta di lavoratori invisibili, un po’ come quelli che fanno da content moderator (di cui in effetti Staglianò aveva parlato evidenziando anche le patologie traumatiche di cui possono rimanere vittime), che etichettano le immagini per istruire al riconoscimento con i meccanismi del machine learning le intelligenze artificiali. La loro dinamica di retribuzione li rende assolutamente al pari livello dei braccianti agricoli descritti da Aboubakar Soumahoro: le società di etichettatura – dice Gaggi, nella sua corrispondenza da New York – sostengono di pagare i loro collaboratori da 7 a 15 dollari l’ora, ma in realtà le retribuzioni medie sono molto inferiori, anche perché gran parte di queste mansioni elementari sono affidate a lavoratori a basso costo africani e asiatici. Attualmente, ricorda Gaggi, i maggiori bacini per il labeling sono in Kenya e Malaysia dove le retribuzioni in genere vanno dai 3 ai 5 dollari l’ora.

 

Questo fenomeno, come già un anno fa raccontava Alan Krueger, marcherà ancora di più le disuguaglianze perché allargherà la forbice dei redditi. La consapevolezza da parte dei lavoratori di vivere in questo contesto pare svilupparsi se è vero, come racconta ancora Gaggi, che sono iniziati scioperi degli autisti di Uber o Lyft o che i dipendenti di Amazon hanno inviato lettere a Bezos (in Italia, Gaggi non lo riporta, per citare i fatti più recenti, abbiamo avuto lo sciopero dei ciclofattorini di Glovo – l’immagine è stata presa dal profilo Facebook dei Riders Union); ma non basta.

Aboubakar Soumahoro la strada la indica.

 

Con questi elementi un primo esercizio di declinare l’eptalogo di Soumahoro può essere questo:

  1. ripartire dal protagonismo dei riders e dei lavoratori delle piattaforme digitali, in una prospettiva di alleanza con i proprietari delle piattaforme da un lato e i consumatori dall’altro per chiedere uguale lavoro, uguale salario, cibo sano e vita degna
  2. ripartire dal codice etico per l’intero settore digitale perché siano rispettati i diritti di tutti (qui potremmo citare la “Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali nel contesto urbano” firmata a Bologna)
  3. ai consumatori bisogna dare prodotti che tengano conto delle condizioni di lavoro di chi li produce (e.g. alzare il prezzo del cibo consegnato per alzare la paga oraria)
  4. un pilastro programmatico deve essere l’abolizione della Bossi-Fini (di fatto la Bossi-Fini, che espelle chi perde il lavoro, taglia fuori tutti i riders immigrati semplicemente perché i riders non sono lavoratori dipendenti e non hanno un contratto di lavoro. E’ una questione da indagare)
  5. andando ancora di più nel concreto:
    • istituire un tavolo permanente interministeriale e inte-ristituzionale (datori di lavoro, lavoratori e ispettorato del lavoro) – perché non nel campo dei lavoratori digitali e, allargando il perimetro, per tutti i casi di sostituzione tecnologica del lavoro?
    • coinvolgimento dei centri dell’impiego contro il caporalato – già, i centri per l’impiego; vediamo come funzioneranno anche per il carico di lavoro dovuto all’erogazione del reddito di cittadinanza
    • condizionare l’accesso ai fondi al rispetto da parte dell’azienda dei diritti umani. Qui penso alla fiscalità.
  6. internazionalizzare la lotta sindacale. Per i lavoratori digitali questo potrebbe essere anche più semplice anche in virtù di azioni online già molto incisive, penso ai Riders Union Bologna
  7. unire, come detto, donne e uomini, che lavorino nei campi o per le aziende tecnologiche e ad essi unire le lotte di tutti i precari (curioso e – a  nostro avviso – doveroso che, tra le tante categorie, Soumahoro citi proprio quella dei giornalisti). Da una parte la categoria dei giornalisti è una delle maggiormente sfruttate, malpagate e non protette. Dall’altra il lavoro dei giornalisti potrebbe fungere da vera e propria bussola per orientarsi al meglio dentro al caos digitale (la sempre più immensa mole di dati da comprendere) della nostra società.

 

Questo messaggio rimane così, è universale, come universale (cioè condivisa) deve essere la battaglia sui diritti.

 

Al lavoro!

Marco Dal Pozzo

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