La “palla” ora, come abbiamo già avuto modo di raccontarVi anche da queste parti è passata di mano, ed è responsabilità dell’onorevole Martella, eletto nella fila del Partito Democratico. Cominciamo dunque, prima di “sbobinare” l’incontro di giovedì 27 giugno 2019, tenutosi presso la sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e intitolato: “Giornali e nuove sfide dell’informazione, tra presente e futuro”; dal presente e non dal passato seppure prossimo il nostro ragionamento odierno sui motivi della crisi del settore. Diamo dunque un’occhiata alle ultime dichiarazioni dell’attuale sottosegretario con delega all’editoria. In un’intervista al quotidiano La Nazione, Martella ha tracciato in sintesi le linee guida dell’intervento che il suo dipartimento sta mettendo a punto per “salvare” il settore. In sintesi ecco alcune delle dichiarazioni del sottosegretario che ci paiono significative; non giuste o sbagliate, ma rilevanti:
“L’informazione non è solo un settore economico rilevante, ma un bene collettivo primario indispensabile per il funzionamente delle istituzioni.
Occorre un approccio integrato e sistemico che vada dall’editore fino all’edicolante.
Bisogna incentivare la domanda di informazione di qualità , ma anche sostenere tutti i soggetti della filiera nel loro percorso di innovazione.
La pirateria è un fenomeno odioso che dobbiamo contrastare con ogni mezzo. L’Italia recepirà al più presto la nuova direttiva europea sul copyright.
I social stanno travolgendo il sistema delle mediazioni professionali ed è nato il fenomeno delle fake news. Un problema serissimo per la stessa qualità della democrazia”.
Non commentiamo per il momento, e rinnoviamo l’impegno a tenerVi informati costantemente sugli sviluppi della vicenda. Confidiamo che l’onorevole Martella tenga nel giusto conto le molte suggestioni, alcune davvero utili – a nostro avviso - emerse durante gli Stati generali. Noi intanto continuiamo nel lavoro di disamina degli atti. Al convegno di cui ci occupiamo oggi hanno preso parte, in qualità di esperti, assieme all’ex sottosegretario Crimi e al capo del dipartimento Ferrucio Sepe, l’ex direttore dell’agenzia di stampa Agi, Riccardo Luna, e il professor Alberto Marinelli, presidente del corso di laurea in comunicazione pubblica e d’impresa dell’Università la Sapienza di Roma. Ed è proprio dall’intervento di Luna che il convegno prende avvio:
Riccardo Luna: Le fake news non le ha inventate internet, purtroppo le abbiamo pubblicate tutti, e nella storia ci sono sempre state. Però certamente internet è uno strumento per diffonderle, e ha reso tutti costruttori di fake news. Questo fenomeno adesso è esponenziale e questo è un problema. Abbiamo visto che è un problema per la democrazia. Abbiamo visto l’elezione di Trump, la brexit e tutto il resto. La rivoluzione digitale per noi giornalisti è l’opportunità più grande che potremmo cercare. Io credo che noi abbiamo l’opportunità , come giornalisti, come direttori, di combattere per i fatti. Siamo gli unici che sanno come farlo e che possono farlo. Ripartire dalla A: spiegare le cose difficili. Il citizen journalism è stata un’illusione nella quale molti di noi, innamorati del web, sono cascati. Il cittadino non è un giornalista, può aiutare i giornali. Noi possiamo e dobbiamo fare la ricerca dei fatti, l’accertamento dei fatti, il giornalismo è roba nostra. Abbiamo perso la fiducia dei lettori : è questo il tema, non la tecnologia. Questo è il Paese dove è più grande la distanza fra la realtà dei fatti e la loro percezione. Pensiamo e percepiamo cose che non sono vere. Non so cosa debba fare il Governo, ma so che cosa possiamo fare noi, tornare a fare giornalismo, su questa strada i risultati ci sono.
Vito Crimi: Le nuove tecnologie, gli strumenti, se individuati come tali e non come fini, possono essere utili a fare un buon giornalismo. Oggi la comunicazione è virale, la comunicazione è disponibile a tutti, tutti possono comunicare qualcosa con foto, video, parole; il compito dei giornalisti è quello di fare qualcosa in più, di raccontare storie, di raccontare cosa c’è dietro, di verificare i fatti, di costruire quella cornice informativa che consente al lettore di interpretare una foto, un articolo, un fatto. L’elemento chiave di tutto questa è la credibilità .
Alberto Marinelli: Noi studiosi osserviamo il mondo in una maniera differente. Lo osserviamo a partire dalle piattaforme. Perché le piattaforme? Perché le piattaforme non riflettono il sociale ma producono le strutture sociali in cui viviamo. Non è un problema che riguarda solo le news o il modo di vedere i film, riguarda la nostra vita. E’ un problema di modalità con cui è organizzata la nostra esistenza. Il mondo dopo Google maps, è un mondo in cui le persone si muovono con le modalità di ingaggio della piattaforma. La prima digital transformation era una cosa che ai nostri occhi adesso risulta banale. Perché sostanzialmente era la dematerializzazione del prodotto e la sua pubblicazione. In un sistema del genere io prendo un giornale nell’edizione cartacea e lo clono in quella digitale. Cambiano le modalità . Digital circulation. Una parte del potere di definizione del mondo è affidata al fatto che i contenuti una volta che entrano in rete hanno una vita digitale, in cui le audience cioè i pubblici, hanno una componente assolutamente fondamentale. Le news quelle prodotte ufficialmente, certificate, gestite da una comunità professionale e giustamente retribuita per il lavoro che fa, vanno insieme in un contesto e in un ecosistema comunicativo in cui esistono altri flussi di informazione totalmente disintermediati che si sovrappongono. Fake, satira, memi, girano insieme alle altre notizie. Siamo in un ambiente in cui conta prevalentemente il gatekeeping secondario, non quello primario. La maggior parte del flusso di notizie arriva alle persone non secondo la gerarchia, secondo l’ordine che ha stabilito con criteri razionali, di valore, di professionalità , l’editore e il direttore di giornale; arriva in maniera totalmente disintermediata e vincolata da meccanismi di amicizia. E’ l’amico che ti suggerisce, ti posta qualcosa che ti raggiunge. Questo meccanismo andrà sempre più avanti. Già metà della popolazione arriva in questo modo alle notizie. Il ruolo delle piattaforme è di stare fra chi produce contenuti e gli utenti che li utilizzano. E queste si prendono funzioni – si arrogano diritti, avocano a sé attività – che prima erano differenziate. E vengono percepiti e lavorano come se fossero media tradizionali. Le piattaforme hanno caratteristiche strutturali. Il filtraggio. E’ evidente, lo fa l’algoritmo da solo. Come mi dice mia figlia, papà ma se non riesci a vedere alcune cose dei tuoi amici su Facebook, metti alcuni like o alcuni cuoricini sulle persone, e poi aspetta che l’algoritmo faccia il resto. Bisogna allevare l’algoritmo. Le echo chambers. L’algoritmo crea una condizione per cui tu ti trovi magicamente ad essere in sintonia con le persone che la pensano come te. Il problema è che questo meccanismo è generalizzato e produce un processo di costruzione della realtà drammaticamente importante: la teoria della coltivazione. Sappiamo da 60 anni da 70 anni che i media costruiscono la realtà . Il fatto è che questo meccanismo avviene qui ed ora: cento volte al giorno per alcuni, e su piattaforme rispetto alle quali ci rendiamo dipendenti. L’accesso all’informazione già avviene – dati del 2017 - da fonti algoritmiche. E’ sbilanciato dal punto di vista generazionale. I millennials sono i protagonisti di questo nuovo modo di vivere. L’accesso alle notizie avviene sempre più da mobile e va verso i social network. E’ necessario che gli editori organizzino la propria presenza sulle piattaforme. Non stiamo parlando di utilizzare Facebook per portare traffico sul sito del giornale, dell’agenzia, dell’editore. Qui si tratta di presenza editoriale specifica sulle piattaforme. Presenziare con i propri contenuti tutte le piattaforme. Per esempio il New York Times in sette giorni utilizza nove piattaforme e produce 1660 post. La Cnn in sette giorni presidia 11 piattaforme e produce 2814 post. Sono prodotti, contenuti informativi auto conclusi, non sono link al sito, sono oggetti destinati alla piattaforma in modo specifico e molto spesso anche differenti nel confezionamento per ciascuna di esse.
 Il New York Times usa Spotify per diffondere i propri podcast di notizie. Ci sono tanti giornali su Instagram però – se lo posso dire – ci sono in maniera sbagliata. Il formato video da Instagram o il formato stories da Instagram o lo si coltiva con l’attitudine culturale dei soggetti che stanno su Instagram oppure si perde. La funzione di intermediazione delle piattaforme non è eliminabile. Vincono loro, non perché sono potenti, ricche, e famose, ma perché ci sono indispensabili nella vita. A mio parere è possibile ragionare su dati condivisi e controllati dagli utenti in piattaforme alternative. Una sfida molto importante a cui io personalmente dedicherei tempo e attenzione. La regolamentazione delle piattaforme può avvenire solo a livello sovranazionale.  Le piattaforme sono entità sovranazionali. Se non si vuole perdere contatto con gli utenti più giovani e disabituati ai formati tradizionali è un obbligo – e se posso dirlo – è anche un imperativo etico se crediamo nella funzione del giornalismo, diffonderlo anche nei formati che sono utilizzati e compresi dalle persone giovani. (Che nel frattempo, aggiungiamo noi, si stanno costruendo i propri media, non solo perchè noi non parliamo loro con il giusto linguaggio, ma perchè non credono e non si fidano dei media mainstream ). E infine: si può stare sulla piattaforma, ma se non si parla il linguaggio della community e delle persone che stanno sulla piattaforma non vi vedono, non ci vedono. Prendiamo sul serio questa sfida oppure ci separeremo più o meno definitivamente da una parte delle persone che compongono la nostra società . E questo dal punto di vista etico e anche dal punto di vista funzionale, come società , è un bel problema.
Interventi del pubblico
Carlo Alberto Tregua direttore del Quotidiano di Sicilia: Internet è stato sicuramente un grande progresso, ma consentitemi, per l’età che ho, di dire che è anche stato uno strumento che ha cominciato a fare ritornare l’ignoranza. Perché tutta la gente pensa di sapere, in quanto clicca e trova l’informazione. Ma internet ha un grande, grandissimo difetto, che è estremamente breve. Deve essere lapidario, volante, che è il contrario dell’approfondimento dell’informazione.
Maurizio Molinari direttore de La Stampa: Ci sono tre fronti molto differenti ma tutti importanti. Il primo riguarda la responsabilità delle industrie di contenuti. Serve un coordinamento reale. Scambiare fra di noi le esperienze per far sopravvivere l’industria individuando il nuovo modello di business. Il secondo: servono nuovi contratti per assumere in redazione le persone di cui abbiamo bisogno e che non possiamo assumere con gli attuali contratti. Il terzo: serve una governance digitale. Una responsabilità esclusiva e urgente del nostro Governo.
Ivan Zazzaroni direttore del Corriere dello Sport-Stadio: Io credo che sarebbe molto importante cercare di dare una mano, soprattutto ai giornali, che ancora oggi sono secondo me, lo strumento più importante, pur se non letto, di informazione credibile e autorevole. Poi ognuno può avere le sue opinioni. Le crisi portano anche a crisi di contenuti, crisi di opinioni, perché sopravvivere in emergenza fa male a tutti e in certe situazioni ti porta anche a scrivere cose che non vorresti scrivere. Quindi io pongo questa domanda: c’è l’interesse reale da parte del Governo in carica a dare una mano alla carta? Se c’è, ben vengano gli Stati generali. Sono una cosa fondamentale. Se non c’è questo interesse, trovo che queste riunioni di alto livello su valori e contenuti siano inattuali. La cosa più importante oggi è capire da che parte bisogna andare, e da che parte si vuole andare. Spero veramente che arrivino risposte concrete.
Salvatore Cannavò vice direttore de Il Fatto Quotidiano: Se oggi pensassimo che il futuro della nostra professione è leggere il giornale sulla carta, e avere i contributi per l’acquisto della carta, non faremmo altro che perpetuare quella che è stata la politica degli ultimi 20/30 anni, anzi l’unica politica editoriale perseguita in Italia, che è stata: contributi per l’acquisto della carta e prepensionamenti, che sono stati una disgrazia. Sappiamo tutti che nelle redazioni quei pre-pensionati lavorano e i giovani non entrano. Noi abbiamo una questione culturale in questo Paese. Dipende da noi giornalisti, dipende dai quotidiani, dipende dalle testate giornalistiche, dipende dalla politica. Il lavoro giornalistico deve tornare a essere una professione importante, un mito, un obiettivo da raggiungere. Quindi credibilità e serietà del lavoro giornalistico credo che siano importanti. Noi dobbiamo partire da un punto forte, culturale e anche sociale: il lavoro giornalistico, la mediazione giornalistica è importante. Bisogna aggiornare il contratto di lavoro della categoria. Capisco bene chi vuole la differenza tra un giornalista e un social manager ma spesso il social manager se usa “una testa giornalistica” mi serve di più, mi è molto più utile. Ma se gli faccio una richiesta “giornalistica” mi dice, non sono pagato come un giornalista, e questo per i giornali è un problema. Nel nostro lavoro Il cittadino va riportato al centro del nostro operato. Premiamo chi si compra un giornale in qualche forma, in una qualunque forma. Perché non possiamo aiutare anche chi acquista un giornale invece di aiutare solo chi guarda la tv? L’indipendenza del giornalismo è garantita anche dal fatto di non ricevere più querele temerarie. Non se ne può più di vedere richieste di risarcimento da milioni di euro, che dopo una lunga causa, quasi sempre si risolvono in un nulla di fatto, per l’infondatezza della richiesta stessa.
Francesco Ognibene vicedirettore di Avvenire: Io non voglio diventare in futuro un istruttore di algoritmi. Ricorrere a stratagemmi per cercare di acciuffare i lettori, cercare di circuirli in qualche modo, di avvicinare con qualche blandizie, oppure appunto utilizzare questi strumenti informatici digitali nel modo più massiccio possibile, cosa che è già in atto. Vorrei continuare a fare fino in fondo il nostro mestiere. Continuare a credere nel prodotto giornale, che sarà cartaceo, io continuo a credere nella carta, ma ovviamente sarà anche digitale, lo è già . Molti lettori stanno passando all’abbonamento digitale ma si abbonano a un giornale, non ad un flusso di notizie. Un giornale che è un prodotto. Il giornale è lo strumento attraverso il quale viene attivata una cittadinanza consapevole, un vero pluralismo, il fatto di sentirsi partecipi di una comunità , il fatto di sentirsi attivi spinti a partecipare, informati a leggere e rileggere, a tornare sull’argomento a tenersi da parte l’articolo, a criticare, a cambiare giornale il giorno dopo.
Ferruccio Pallavera direttore de Il Cittadino di Lodi: Il problema dei giornali locali è che sono, a tutti gli effetti, l’unica informazione del territorio. Siamo l’istituzione, siamo qualcosa che si identifica con la realtà locale. Il taglio definitivo e totale dei finanziamenti pubblici all’editoria così come è stato congegnato, per molte delle nostre testate, innescherà un problema di sopravvivenza.
Vincenzo Ferrari direttore di Buonasera Taranto: Il giornale che dirigo è l’unico giornale della città . In qualche modo ci sentiamo dei sopravvissuti. Negli ultimi anni c’è stata una moria di testate cartacee, radiofoniche e televisive a Taranto, e mi chiedo, senza la presenza di un giornale territoriale locale, cosa sarebbe l’informazione nella città dalla quale provengo? I giornali restano un filtro a mio modo di vedere fondamentale tra opinione pubblica e istituzioni, altrimenti lasciamo il campo ad una pirateria informativa che si sviluppa attraverso siti gratuiti del copia incolla, e lo spontaneismo del cittadino che senza essere adeguatamente formato e preparato spara notizie che poi magari si rivelano del tutto inattendibili. Non possiamo restare ancorati ad un passato che non è più riproducibile perché la tecnologia ci offre degli strumenti innovativi. Però dobbiamo anche capire che queste fasi di transizione vanno governate. Il web non basta come mezzo di sostentamento. Il web esiste in quanto esistono le versioni cartacee, altrimenti non ci sarebbe neanche la versione web i per giornali cartacei.
Luca Ubaldeschi direttore del Secolo XIX: Io chiedo al Governo, e spero, che gli Stati generali dell’editoria si concludano con la possibilità di studiare, di aiutarci a completare questa transizione. Nessuno di noi vuole essere sostenuto per un diritto naturale o divino, sappiamo che bisogna stare sul mercato ed essere competenti e competitivi, attraverso le proprie capacità . Però bisogna che in questa transizione, da una fase di difficoltà , a quella in cui dobbiamo e vogliamo poter competere, ci sia data la possibilità di arrivare al tornare ad essere competitivi. Perché quello che rischiamo e che in questo tragitto, in questa fase di transizione, si perdano troppe risorse, troppe realtà . E questo sarebbe un impoverimento grave per tutto il Paese.
Marco Bencivenga direttore de La Provincia di Cremona: Se io come giornale locale riuscissi a vendere diecimila abbonamenti a 9 euro al mese, che sarebbe un trionfo, con 90mila euro non so quanti giornalisti riuscirei a pagare, con i contratti che ho. Però ci sono invece i siti pirata, quelli che fanno copia incolla, quelli che ogni mattina copiano le nostre notizie. Quelli che regole rispettano? Che tipo di controlli fa il Governo, e il responsabile dell’editoria che controlli fa a questi siti? Per 35 anni ho lavorato a BresciaOggi giornale in cooperativa. A Brescia ci sono due quotidiani e la costola locale del corriere, ma il sito più visto è un sito pirata abusivo che copia gli articoli fatti dagli altri giornali e che ha il doppio di followers dei giornali di carta, ed è fatto da due ragazzotti, con il massimo rispetto per i ragazzotti, ma che contratto hanno quei giornalisti?
Pier Francesco Bellini direttore de La Voce di Rovigo: La buona informazione, l’informazione verificata, ha un costo. Nella nostra piccola società editoriale abbiamo sette giornalisti, che rappresentano un costo, ma che sono anche la nostro ricchezza. Ci consentono di fare un giornale di carta che vende in maniera dignitosa,  – dove riesce a vendere perché le edicole non ci sono più - e un portale internet con i suoi social che sta ottenendo risultati buonissimi, Peccato che questi risultati, non riescano, al momento, ad essere monetizzati. Il futuro ci riserverà delle grandi sfide ancora più interessanti, penso solo al 5g. Quando ne leggi ti viene anche un pò di timore un pò di paura. La cosa che spero e che chiedo è di riuscire ad arrivarci vivi al momento in cui troveremo il modello di business.
Mauro Ungaro direttore della Voce Isontina: Noi abbiamo una fascia di lettori che non sono nativi digitali, che hanno i capelli bianchi e che se le notizie non le trovano su carta, non vanno a cercarle da altre parti. Noi vorremmo chiedere al Governo di aiutarci ad assumere giornalisti. Trovare il modo di favorire queste assunzioni, in qualche modo, rivedendo i contratti, trovando nuove strade. Però credo che questo sarà molto importante.
Alberto Marinelli reprise: Io lavoro all’università per far crescere la competenza digitale. Significa far sapere alle persone, che sono inglobate in un modo di costruire la realtà , che è dettato dagli algoritmi. Mi limito a questo, non posso fare altro che insegnare come funzionano gli algoritmi. Il tipo di valore che attribuiamo all’informazione, è qualcosa di differente dal tipo di valore che attribuiamo al libro. Il problema del supporto di carta è un problema di comodità o scomodità rispetto alle abitudini di consumo. Se la carta durerà o non durerà , è un problema legato alle modalità di consumo e accesso all’informazione. Penso che durerà a lungo la carta che ci fa riflettere, che ci dà indicazioni aggiuntive, rispetto alle news che invece arrivano come flusso immediato. Ma è un problema di valore aggiunto. Non a caso c’è un grandissimo mercato di prodotti informativi a valore aggiunto, che non brucio in due ore o in tre ore, e che sta trovando una splendida collocazione su carta anche nell’editoria locale. Modelli di business. Ci sono molti esempi diversi. Sony, ad esempio, ha imparato che deve guadagnare con i talent show. Dietro Xfactor c’è Sony music. Sony guadagna anche perché realizza dischi di soggetti del mondo musicale che provengono dai talent – che l’industria giapponese stessa realizza – e non sono già personaggi affermati della musica. Noi cittadini o attraverso il modello free + advertising, oppure con il modello pay, sostanzialmente abbiamo smesso di fare i pirati del web. Non c’è più alcuna necessità . Nel caso delle news è evidente che esiste la possibilità di creare un ecosistema nazionale, ma bisogna accettare alcune regole. Dovremmo arrivare ad un modello in cui con un abbonamento da 10 euro si possano leggere tutti i quotidiani. Ovviamente un modello del genere è molto difficile da fare entrare. Ma è quello su cui stanno andando – per sopravvivere - tutti gli altri settori della produzione di contenuti. Io, da lettore, sono stanco di dovermi assoggettare alla gerarchia delle notizie che decide il direttore, sono oramai abituato a costruirmi in proprio la mia dieta informativa. Le persone si approcciano alle news dall’unità di contenuto, non a partire dalla testata. In seguito guardano la testata, e dicono: bene l’ha detto il Daily Telegraph, ha questo valore; l’ha detto il Sunday Times, ha quest’altro valore. Questo sistema si può fare in totale autonomia, si può fare su una piattaforma totalmente italiana, – suggerirei - in accordo con chi controlla i telefoni, per creare una sorta di canone. Se l’informazione è un bene comune, ed è un lubrificante necessario dei sistemi democratici, allora è anche giusto che come comunità ci facciamo carico di questo costo, operando se necessario delle scelte. Qualcuno mi deve spiegare per quale motivo si dà un intero canone alla Rai – lo dico da sempre - e non si dà  parte di quel contributo a chi fa informazione locale. Questo l’ho sempre trovato assurdo, da cittadino. Il presidio del territorio è una di quelle cose che andrebbero tutelate dal punto di vista strutturale. Ci sono lettori della carta da tutelare? Ok li tuteliamo e li accompagnamo nelle loro abitudini di ascolto di visione, ma non sono quelli che ci fanno da driver. Le persone al di sotto dei 40 anni non leggono su carta o leggono su carta quando sono al mare: un romanzo. Siamo molto vicini, se si acquista la necessaria consapevolezza, a pensare ad un modello alternativo, rispetto a quello che stiamo facendo.
Conclusioni
Prima di cedere la parola al padrone di casa, Vito Crimi, ci inseriamo per provare a suggerire, e a sottolineare, alcuni dei passaggi davvero utili – a nostro avviso - usciti durante le relazioni di alcuni degli ospiti di questo panel. In particolare l’intervento del professor Marinelli dedicato alla piattaforme, ha portato alla luce alcune problematiche fondamentali per comprendere il momento in cui viviamo, e le ragioni della crisi dell’editoria. Suggerendo interventi e strategie che potrebbero davvero aiutare tutti i soggetti coinvolti a risolvere alcuni dei gravi problemi incombenti o in atto. Ma anche da altri interventi sono arrivati spunti interessanti, vediamoli in breve:
Le piattaforme non riflettono il sociale ma producono le strutture sociali in cui viviamo. E’ un problema di modalità in cui è organizzata la nostra esistenza.
Le news, quelle prodotte ufficialmente, vanno insieme ad altri flussi di informazione totalmente disintermediati che si sovrappongono.
La notizie arrivano alle persone in maniera disintermediata e vincolata da meccanismi di amicizia. E’ l’amico che suggerisce, posta.Â
Il filtraggio. E’ evidente, lo fa l’algoritmo da solo. Questo meccanismo è generalizzato e produce un processo di costruzione della realtà drammaticamente importante: la teoria della coltivazione.
E’ necessario che gli editori organizzino la propria presenza sulle piattaforme.  Prodotti, contenuti, non link al sito, oggetti destinati alla piattaforma in modo specifico e molto spesso anche differenti nel confezionamento per ciascuna di esse.
La funzione di intermediazione delle piattaforme non è eliminabile. Vincono loro, non perché sono potenti, ricche, e famose, ma perché ci sono indispensabili nella vita.
La regolamentazione delle piattaforme può avvenire solo a livello sovranazionale.  Le piattaforme sono entità sovranazionali. (Alberto Marinelli)
Serve un coordinamento reale. Scambiare fra di noi le esperienze per far sopravvivere l’industria dell’informazione individuando il nuovo modello di business. (Maurizio Molinari)
Nel nostro lavoro Il cittadino va riportato al centro del nostro operato. Premiamo chi si compra un giornale. (Salvatore Cannavò)
Io non voglio diventare in futuro un istruttore di algoritmi. (Francesco Ognibene)
E se il futuro che vogliamo sarà quello di città nelle quali l’informazione venga fatta dal singolo redattore del sito online. Il futuro sarà un terreno di devastazione dove quasi non esisterà più la figura del giornalista. Sarà un futuro nel quale le notizie saranno prodotte da chi ha i mezzi per raccontare la sua verità , senza nessuno che potrà controllare se quello che dice sia vero. Partiti politici, grandi industrie, società multinazionali. (Pietro Caricato)
Vito Crimi: Il tema dei contratti non è una competenza diretta del Governo. Il lavoro dei pensionati nelle redazioni ha un costo più basso perché tanto c’è l’Inpgi che paga quelle pensioni che magari sono anche elevatissime, e quando dico “issime” intendo fuori scala normale, in alcuni casi, però sono le grandi firme che portano lettori e quindi li pago per continuare a fare quel tipo di lavoro. Intanto lo Stato finanzia con 20 milioni di euro l’anno l’Inpgi, per quei prepensionamenti. Qui forse un ragionamento andrebbe fatto, anche in termini legislativi. Se c’è un’informazione che deve avere un sostegno, che deve essere tutelata, è quella locale. L’informazione locale è l’unica che funziona, l’indagine recente dell’Agcom dice che ancora c’è tanta domanda. L’Ordine dei Giornalisti la sua battaglia l’ha già persa. Non ha più senso. Non perché io lo voglia abolire, ma perché nel momento in cui ad esempio l’Inpgi, la cassa dei giornalisti apre ai comunicatori per salvare i propri conti. Il 90% dell’Inpgi sarebbe composto da non giornalisti e solo il 10% da iscritti all’Ordine. Mi chiedo se vedo solo io la contraddizione, se solo per me c’è qualcosa che non quadra? Non sono io che voglio abolire l’Ordine dei Giornalisti, è già inefficiente, non fa quello che deve fare. E’ superato, non è Crimi che lo vuole abolire. E’ superato dal fatto che oggi il giornalismo non è solo quello fatto da chi appartiene all’Ordine dei Giornalisti. Lo Stato accompagna questo periodo di crisi, da più di vent’anni, ma la crisi rimane. Evidentemente è sbagliato il modello di accompagnamento. Abbiamo dato un taglio a questo a modello. Le modalità dovranno cambiare e insieme cercheremo di costruire il futuro. Non ho le risposte, non ho tutte le risposte. Ma ho delle idee e delle proposte.