L’impianto mi pare corretto. Al momento mi sembra scritto in un burocratese troppo spinto, al limite del criptico, bisognerebbe spiegare meglio. Diciamo che da parte dei giornalisti potrebbe essere fatto un lavoro -Â ad esempio -Â di organizzazione dei concetti e della lingua che renda chiaro l’intento.
Quindi nel documento si dice: non esiste più una sola figura professionale ma un network, più o meno locale, più o meno contestualizzato, che svolge l’attività informativa. Per farlo servono strutture che prevedano: raccolta, aggregazione e pubblicazione. E’ importante - a mio avviso - che i ruoli siano legati alle funzioni svolte da ciascuno. Quindi se pubblichi sui social serve un social media manager, se lavori con i dati serve un data analyst, se fai info-grafiche serve un grafico/architetto magari anche giornalista etc. etc.
In estrema sintesi: bene che si sia messo mano ad una inevitabile e necessaria riforma, ma c’è molto da lavorare sulla pulizia dei concetti perchè si possa rendere migliore come forma e più diretta e comprensibile come strutture proposte.
Non è chiaro che possano accedere al lavoro figure ben qualificate professionalmente ma non in possesso di particolari titoli di studio, mi riferisco ad esempio agli iscritti all’Ordine dei giornalisti non laureati. In passato la maggior parte dei concorsi per accedere a posti da comunicatore per la pubblica amministrazione aveva (e ha tutt’ora ) barriere di questo tipo, in genere immotivate, a mio avviso.
Le figure professionali proposte nel testo sono troppo vaghe, secondo me. Manca un capitolo sulla certificazione delle competenze al di fuori della formazione canonica. E poi su quello che queste, più o meno fantomatiche, figure professionali, andranno a fare nel concreto, vige l’incertezza più assoluta.
C’è molta attenzione al funzionamento interno alla PA, del meccanismo di riforma, e poco o nulla a quello esterno. Mi riferisco alla crisi pesantissima in cui siamo come professione, noi giornalisti, e alla ridefinizione mondiale delle varie funzioni e dei vari settori dell’informazione e della comunicazione. Non ci sono riferimenti certi, non ci sono modelli a cui fare riferimento, non ci sono esempi concreti. In pratica senza queste indicazioni “quadro” ogni pubblica amministrazione potrà fare come gli pare e questo non è certo un segnale di reale volontà di riforma. Se ognuno deciderà in proprio, ad esempio, i formati di catalogazione dei dati, tanto per citare un esempio concreto, le PA continueranno a non poter dialogare con regolarità e uniformità nella gestione di database comuni e di conseguenza non saranno in grado di fornire servizi realmente efficienti alla cittadinanza. Bisogna mettere da parte i personalismi, gli inutili particolarismi, in funzione di una reale crescita della capacità di soddisfare le effettive esigenze delle persone. Pensate a quanti passaggi cartacei sono ancora necessari oggi, nella maggior parte degli uffici pubblici del Paese, prima di arrivare ad ottenere una qualsiasi certificazione digitale. Sembra una sciocchezza, oltre che una contraddizione nei termini, ed invece è la regolarità del servizio offerto in molti comuni.
In sintesi, il documento, offre spunti utili, forse una buona base di partenza, ma molto, molto incompleta. Si capisce che sia stato preparato all’interno per l’interno. Le stesse figure “nuove” della comunicazione pubblica che vengono prospettate, non sono reali aperture verso nuove professionalità , da far entrare negli uffici pubblici. Per come la vedo io, si tratta di più funzioni, da pretendere, e su cui formare, una figura unica, sovrapponibile e intercambiabile. Una figura professionale molto ben qualificata, e conseguentemente, altrettanto bene remunerata. In caso contrario, non solo non risolviamo nulla, ma creiamo ancora più confusione, precarietà e molta meno meno trasparenza, nelle Pubbliche Amministrazioni.
Del documento ho capito davvero poco. Ho capito poco, quale sarà l’assetto dell’informazione e comunicazione nella PA, dopo tutte quelle proposte.
L’uso di strumenti digitali, come l’identità digitale SPID, oppure la posta elettronica certificata, detta confidenzialmente PEC, o ancora il ricorso massiccio nella PA, ai front office virtuali, meglio conosciuti come “call center”; potrebbe non essere solo un modo per aggiungere inutili complicazioni alle nostre già aggrovigliate vite. Al contrario un uso attento, scrupoloso e puntuale, di questi supporti, potrebbe invece realmente facilitare il nostro rapporto con la funzione pubblica. Uno degli enti pubblici con il quale collaboro con la mia agenzia di comunicazione, ha buone interfacce online. E grazie ad un uso responsabile di questi strumenti, riesce a gestire una considerevole mole di richieste, domande, e pratiche.
La cosa che ritengo più necessaria è che ci sia uno sforzo enorme – sottolineo enorme – di comprensione delle dinamiche comunicative da parte delle amministrazioni. Cosa che spesso non accade.Sulle figure professionali proposte e sulla riforma in discussione, sono molto scettico. Lo dico per inciso, credo che l’ufficio stampa per un’amministrazione, in futuro, servirà solo per i casi di crisi; il resto della comunicazione sarà completamente digitale.Sulla sanità ci sarebbe da fare un discorso a parte. In Italia quasi nessuna PA comunica bene. C’è qualche eccezione, che però, come recita il proverbio, conferma la regola.
Se l’idea è quella di riformare davvero la funzione pubblica nel comparto dell’informazione e della comunicazione - comparto sempre più centrale in questo nostro mondo digitale e online – forse sarebbe il caso di formare le persone – i professionisti del caso – a preparare prodotti ad hoc per gli ambienti informativi che si decide di utilizzare per comunicare. Mi riferisco ad una comunicazione/informazione studiata, costruita e realizzata, in modo preciso e specifico per i social, ad esempio, o meglio, il singolo ambiente sociale, che si vuole utilizzare. E mi riferisco anche allo studio di realtà comunicativo/informative già al lavoro. Ad esempio, citerei il caso di Will, un “giornale” - ammesso sia questo il modo giusto per definirlo – appena uscito su Instagram. Si tratta di un esempio da seguire? Certamente da studiare, se non altro. Se facciamo una verifica veloce, fra gli organi di informazione mainstream, non troviamo segnali interessanti, di questo tipo.Si parla ad un certo punto di quali debbano essere le competenze e i titoli necessari a giornalisti e comunicatori per poter entrare a far parte di un ufficio comunicazione della PA. Servirebbe a mio avviso maggiore chiarezza. E aggiungerei, visto che in seguito viene ipotizzata anche la riforma degli organismi previdenziali cui debbano essere iscritte tali figure professionali, che forse la nostra ipotesi di riforma Fiengo, potrebbe essere ancora la migliore in assoluto. L’idea del nostro grande mentore, di allargare “il campo da gioco”, a tutti coloro che producono atti di giornalismo, nel rispetto vincolato delle regole deontologiche della professione. E’ un bel punto di partenza, e screma da subito, da tutte le dietrologie e da tutte le storture, di una riforma fumosa e a vantaggio di questo e/o quello. O sbaglio?
Leggendo questa complicata ipotesi di riforma della funzione comunicativo/informativa nella PA, da cittadino mi chiedo, se esista, ma certamente dovrebbe: un metodo veloce per tutti, di verifica dei piani implementativi di qualsiasi tipo di funzione pubblica. Ad esempio: a che punto è l’implementazione della Banda Larga? A chi mi devo rivolgere, da cittadino, per fare questo tipo di richieste, e ottenere velocemente una risposta? Come si accede ai documenti pubblici, come si usano le procedure FOIA? Sulla gestione dei dati. La PA che raccoglie i dati del cittadino, deve poterli rimettere a disposizione, (in forma anonima), ai cittadini stessi. E poi li deve rimettere in uso in una forma comprensibile e in modo che siano riusabili. Questo deve essere previsto in un piano di comunicazione pubblica: io chiedo dati a te cittadino, ma poi te li rimetto a disposizione, anche grazie all’opera di un giornalista/comunicatore. Gestione degli archivi. Come sono gestiti i database pubblici?
Ecco, questa parte, la metterei come preminente in qualunque ipotesi di riforma della PA, e in particolare degli uffici di comunicazione.
Stabilire per legge i profili professionali di questo e di quello, per me non sta in piedi. Non è che non comprenda la logica in base alla quale si addiviene a questa scelta, ma non la condivido.
Dopo di che, posto che questa sia la logica, la cosa che mi sembra più folle è la previsione del comunicatore digitale – o come lo chiamano – come figura distinta, benché trasversale alle due macro-categorie “giornalisti†e “comunicatori†pubblici. Questo è culturalmente e politicamente dannosissimo, l’idea cioè che nell’ambito della comunicazione e delle relazioni con il pubblico, il “digitale†sia concepibile come una funzione a parte, è semplicemente demenziale.
Non saprei che dire di altro…
Non capisco molto bene l’impianto del documento. Sinceramente mi provoca molti dubbi. In particolare vorrei capire in base a quali criteri si decide chi è esperto di comunicazione digitale? Anche perchè, da quello che leggo, le competenze per i vari ruoli – tutti di grande responsabilità – sono davvero molto vaghe. Di sicuro se le decisioni nella catena di comando - come credo di aver letto, ma forse sto sbagliando – sono competenza, in ultima analisi, del capo-ufficio cui afferisce il dipendente? Credo di poter dire, con una certa precisione, che non ci stiamo muovendo nella giusta direzione.
In chiusura e sulla scorta delle indicazioni ricevute dai nostri esperti e associati, e pubblicate qui sopra, proviamo a mettere in evidenza alcuni punti, a nostro avviso fondamentali, per avviare una riforma così importante e strutturale, nel comparto della comunicazione e informazione della funzione pubblica, soprattutto adesso, nel bel mezzo di una rivoluzione epocale come quella digitale, e in un periodo di crisi profonda e inarrestabile del comparto professionale dell’informazione, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Una crisi molto vera, nei numeri e negli effetti sull’occupazione e sui singoli, ma poco, pochissimo reale, nella funzione del giornalismo nel nostro tempo. La società dei dati, la società dell’informazione, come da più parti viene definita, dai massimi esperti e scienziati di ogni disciplina, non può che essere un’epoca d’oro per il giornalismo e per tutti i professionisti del settore. Se questo non sta accadendo, forse abbiamo un problema Houston, e se non riusciamo a vedere quale sia tale “problema”; la voragine non potrà che diventare sempre più ampia e profonda. Ma torniamo all’ipotesi di riforma del comparto comunicativo/informativo della PA, e alle nostre considerazioni finali, intanto grazie di essere arrivati fino a qui e alla prossima:
L’idea di fondo della riforma: “mettere il cittadino al centro” è senza dubbio utile e moralmente ineccepibile. Però cozza con un uso a dir poco “scarso” , che la stessa PA sta facendo sino ad ora, dei supporti digitali e online. Obbligare i cittadini a pagare le tasse solo attraverso la rete, ad usare lo SPID, o a dotarsi per legge di una PEC, purtroppo, non significa “soddisfare le esigenze delle personeâ€, non significa nei fatti semplificare, ma solo ridurre sistematicamente le possibilità del cittadino di trovare un’interfaccia (fisica, digitale, mista) con cui confrontarsi per ottenere il servizio o le risposte che cerca. La chiusura dei front office (provvedimento sistematico nel pubblico e nel privato) e l’apertura dei call center, di numeri verdi, la creazione di app, sono – come ben sappiamo tutti per esperienza diretta - solo procedure per sviare, per allungare il brodo, per dividere la folla dei ricorrenti. Smistare il dissenso in mille rivoli, affinchè la frantumazione di un fronte comune, impedisca un attacco massiccio contro le inefficienze croniche del sistema. Lo dice bene e da sempre il nostro associato e sociologo specialista della complessità Piero Domenici:
False dicotomie. Saper fare senza sapere. La ricerca senza la teoria. Competenze senza conoscenze. La lettura dei dati diventa una sterile dimostrazione dell’esistente.
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Sulla centralità dell’informazione ovviamente niente da dire. Su questa ancora, purtroppo, molto diffusa tendenza, a dividere: analogico da digitale, costruendo gironi, scaglioni, e infine professioni differenti; siamo in totale disaccordo. Nel giornalismo, ma anche in tutte le altre professioni del comunicare, esistono certamente nuove competenze da acquisire. Ma non si può far fare ad un macellaio il mestiere del cerusico: Così come non si può far fare ad un informatico il mestiere del giornalista. E non si tratta di tutela della casta, bensì di riconoscimento della necessaria professionalità , per svolgere un compito, rispetto ad un altro. Errore grave è non ribadire l’assoluta necessità di acquisire competenze, mischiando invece le carte per aprire tutto a tutti. E lasciando la PA sempre più in balia di se stessa.
La rivoluzione digitale è compiuta da oltre 30 anni e i suoi effetti se guardiamo la nostra società e magari il funzionamento delle OTT, sono piuttosto visibili. Nella riforma della comunicazione e dell’informazione dentro la PA, serve l’inserimento di reali competenze e professionalità – e quindi di professionisti di comprovata capacità – a fronte di un’adeguata remunerazione, per ciascuno di questi; solo e soltanto se dimostreranno inequivocabilmente,  di possedere tali competenze. Conosciamo tutti, credo – noi giornalisti di sicuro - i compensi da fame previsti nei bandi della PA, per l’assunzione – quasi sempre a tempo determinato – di responsabili degli uffici stampa e comunicazione, o dei portavoce, o di altri addetti del comparto. Nel caso in cui, infine, un’amministrazione sia troppo piccola, e non in grado di reggere da sola ai costi di un “professionista”, è decisamente utile, come prevede il testo della bozza di riforma, aggregare piccole realtà della PA, per gestire in forma collegiale l’assunzione del responsabile dell’ufficio stampa.