Leggere questo articolo per comprendere lo stato dell’arte: La Stampa, cdr disperato: “La nostra nave affonda, moriremo sulla tolda?â€
https://www.professionereporter.eu/2020/08/la-stampa-cdr-disperato-la-nave-affonda-moriremo-sulla-tolda/
E cosa si è fatto per queste persone? Come è stato variato il contratto nazionale della categoria giornalistica? Quali tutele, quali facilitazioni, quali ammodernamenti, sono stati aggiunti ai vari contratti del giornalismo. Quali nuove figure professionali sono state inserite nei contratti? Come dite? Tutte domande retoriche? E’ vero, scusateci! Speravamo in qualcosa di meglio dopo sette anni dall’uscita di questo libro. Ma così non è stato. Del resto a questo servono i libri e gli incontri per presentarli, e tutte le discussioni che giustamente i libri sollevano e alimentano. A cambiare, o almeno a provare a porre le basi, per cambiare le cose. Se poi questo riuscirà o meno, saranno i nostri amici “posters” a dircelo. Si scherza, lo sapete, ma c’è davvero poco di che essere allegri.
Nel nostro incontro del 17 settembre del 2013 presso l’Auditorium di Santa Apollonia in Firenze, abbiamo avuto il piacere di intrattenerci assieme a Silvia Bencivelli, anche con Claudia Dani, autrice assieme a Daniele Chieffi e Marco Renzi di un libro dedicato ai nuovi mestieri del giornalismo e della comunicazione in epoca “digitale”: “Working on web”; e con Angelo Cimarosti, che dalla sua esperienza di co-fondatore e gestore della piattaforma di video You Reporter – venduta al gruppo Rcs Corriere della Sera – aveva tratto il libro “Te la do io la notizia“; a Roberto Zarriello, giornalista esperto in brand journalism, autore di “Social media marketing“, e a Lillo Montalto Molella, all’epoca giovanissimo giornalista digitale, autore di un testo rimasto ancora rivoluzionario nel giornalismo praticato, a distanza di sette anni, intitolato: “Real Time Journalism“, in cui introduceva temi come il “live blogging”, o la “second screen experience“. Tutti temi ancora molto – forse troppo - moderni, nel giornalismo. Di citizen journalism e di tanti altri argomenti abbiamo parlato a lungo proprio in quella occasione con tutti i nostri relatori. Ma lasciamo a loro la parola, estraendo come sempre alcuni passaggi da quell’incontro dedicati in particolare all’analisi del lavoro giornalistico nell’ambiente digitale e alle forme di sopravvivenza dei free lance e più in generale del settore dell’editoria di informazione, in questa nostra epoca, post rivoluzione digitale:
Angelo Cimarosti: in Italia c’era bisogno di YouReporter. Dal punto di vista tecnico, innanzitutto: c’erano un sacco di file, tanti videomaker, tanti elaborati che giravano in qualsiasi formato possibile. In quel periodo, il punto di vista del giornalista era quello di trovarsi a far fronte con molte testimonianze, di qualsiasi evento possibile, dall’incidente al fatto di cronaca, ma con l’impossibilità tecnica di recuperarle. Una piattaforma in cui potessero essere messe delle immagini, un luogo in cui si potesse caricarle e condividerle, a quell’epoca non c’era. C’era YouTube, che ancora oggi è però tutta un’altra cosa: un immenso mare, dispersivo e senza alcuna logica. Era necessario guardare a come il citizen journalism veniva utilizzato nel resto del mondo, a cosa attingere e al modello a cui ispirarsi. Era il 2008 e ci venne l’idea di far nascere una piattaforma che raccogliesse foto e video realizzati dai cittadini e ne regolasse il flusso. Siamo nati e sopravvissuti senza un business plan. Ed è stato un bene, per noi.
Lillo Montalto Molella: Rob Fishman di Buzzfeed dice che ogni reporter ora lavora per twitter e questa affermazione mette i social media editor in panchina. Non serve investire su figure capaci di scrivere tweet o post su facebook; il giornalismo ha bisogno di figure professionali capaci di creare coinvolgimento, di saper pensare una storia, e prima ancora di iniziare a scriverla nei vari formati e compreso anche il formato social. Saper raccontare la storia anche grazie al coinvolgimento della propria comunità di lettori, e poi sapere successivamente stimolare un dialogo a posteriori. Non serve comportarsi e agire nella vecchia logica: il giornalista mi fa il pezzo per la sera, e il social media editor twitta e ci mette magari un hashtag. In questi casi  si prova a rincorrere il traffico. Provare a muovere la community di twitter, portarla a venire a guardare il pezzo. Un sempre molto autoreferenziale e soprapassato. Sono poche le persone che hanno il coraggio di twittare fonti esterne, di riprendere link esterni al sito del proprio giornale. Colossi come il New York Times, ma anche giornali meno famosi nel mondo, stanno invece puntando su professionisti che di concerto e lavorando spalla a spalla con il giornalista, fin da quando la storia viene ideata, sappiano portare al coinvolgimento in tutto il processo della community del giornale. Sappiano lavorare in tempo reale per riuscire ad intercettare la comunità di lettori fin dall’inizio e portarla a seguire i fatti insieme ai redattori fino alla fine della discussione. La battaglia per la sopravvivenza e la monetizzazione dell’audience digitale che è quella per cui tutti noi siamo qui va realizzata ripensando l’intero castello di costruzione della notizia.
Claudia Dani: non ho una risposta su un modello di business per sopravvivere in questo nostro mondo del giornalismo e della comunicazione da free lance. Penso che l’unica strada sia investire su noi stessi dal punto di vista della formazione e dell’aggiornamento professionale.  Non credo ci siano altre vie. E poi sicuramente ci vorrebbe anche un po’ di fortuna. Riuscire ad avere un minimo sicuro per il proprio sostentamento, e poter utilizzare il resto del tempo per fare ricerca; per confezionare prodotti di qualità , prodotti nuovi che magari, prima o poi, verranno visti da qualcuno. Verranno notati da qualche editore o qualche investitore. Il modello che suggerirei, è un modello molto personale. E’ il mio modello.
Silvia Bencivelli: mi chiedi del modello di business direi è un po’ la mia piccola ossessione insomma dover campare con il lavoro, mi stupisce che non sia un’ossessione anche per tutti i miei colleghi, ma ogni tanto trovo persone che antepongono la passione al vivere; e in nome di questa passione in genere rinunciano anche a farsi pagare. E questo è un po’ il senso della mia battaglia. E’ forse il caso che mi presenti, mi chiamo Silvia Bencivelli e faccio la giornalista freelance ma sono una giornalista scientifica. Questo fa di me un animale un po’ strano perché il mio mercato è un mercato un po’ diverso da quello degli altri giornalisti. Nel senso che io per campare posso fare forse un po’ più cose rispetto ad altri colleghi.  E probabilmente, noi giornalisti scientifici, abbiamo anche una rete più solidale tra di noi. Insomma abbiamo anche delle piccole fortune. Una premessa che va fatta. Lavorando nella scienza io posso lavorare tanto anche con le scuole, con i festival culturali, con l’editoria scolastica, ed altri. Le modalità di sopravvivenza sono un pochino più varie e più ampie rispetto ad altri colleghi. Come si fa a sopravvivere? Per me è una delle risposte è specializzarsi. Io mi sono specializzata in scienza. Va detto che ho seguito un percorso contrario a quello normalmente intrapreso dai giornalisti. Io nasco scienziato e poi sono diventata giornalista. Sono un medico ancora regolarmente iscritta all’ordine dei medici, per dire, nonostante sia dieci anni che faccio questo mestiere e che non entri in ospedale nemmeno da malata. Il punto è questo per me: avere una specializzazione forte e saper stare un po’ al passo con la scienza. Nel campo scientifico le cose cambiano in fretta e in questi dieci anni di professione molte cose sono cambiate anche nel mercato della scienza. Quando ho cominciato questo lavoro, in edicola c’erano molte riviste scientifiche ad alta tiratura. Scienze, dal 1968 con le sue 80 mila copie, c’erano Newton, Quark, La macchina del tempo. Un sacco di riviste che sono andate via via scomparendo. C’era una pubblicistica molto più vivace c’era un mercato più vivace. Focus, da solo, arrivava ad oltre il milione di copie. Noi giovani free lance, con una laurea scientifica, avevamo delle possibilità in più. Poi all’epoca c’era anche una normativa europea che era abbastanza nuova, per lo meno nuova nel suo recepimento italiano che imponeva alle istituzioni che facevano ricerca di occuparsi anche della comunicazione. Adesso è prassi comune. Adesso lo scienziato che realizza un progetto di ricerca deve considerare anche la comunicazione con il grande pubblico. Ma lo fanno spesso in proprio oramai. All’epoca i giovani giornalisti scientifici, quelli che avevano un po’ meno di 30 anni, venivano assorbiti nella macchina della comunicazione istituzionale. Nel frattempo le cose sono cambiate e sopravvivere è diventato effettivamente più difficile anche per noi scientifici. Se ci pensate anche il libro scolastico adesso ha tutto un altro tutto un altro aspetto rispetto a dieci anni fa, è anche grazie, o per colpa del web, quindi oltre a specializzarsi che oggi non è più sufficiente, io credo che sia anche necessario a un certo punto metterci un po d’orgoglio e rendersi conto anche del proprio ruolo sociale e cominciare a farsi pagare per quello che si fa. Non è così ovvio. I giornali pagano sempre meno, le università pagano sempre meno. Per guadagnare decentemente alla fine dell’anno c’è bisogno di farne tante di cose. Accettando di lavorare gratis si danneggia il mercato. Diventa una questione di responsabilità nei confronti dei colleghi ma anche nei confronti del pubblico, perché un mercato che gioca al ribasso, si squalifica. Se io accetto che la mia università mi paghi sempre meno un giorno dirò di no. Allora loro prenderanno uno che prende quanto io ho rifiutato. Un giorno anche lui dirà di no e così via quella mansione lì verrà affidata sempre più facilmente a persone che magari non hanno tutta quella qualifica e la competenza che sarebbe necessaria. Questo non danneggia soltanto noi che abbiamo perso una fonte di reddito ma danneggia anche il pubblico e spesso il pubblico non lo sa soprattutto il pubblico dei giornali quando legge un articolo. Si tratta, secondo me, di una questione di onestà intellettuale oltre che di sopravvivenza. Il mercato è fatto da noi e quindi noi dobbiamo essere i primi a difenderlo e a difendere la nostra integrità e l’integrità di questo mercato. Si sopravvive rendendosi conto che noi abbiamo la responsabilità del mercato in cui vivono tutti gli altri e tutti gli altri fanno anche il nostro mercato. Cerchiamo quindi di fare un pò rete. Fare azioni comuni, insieme, collettivamente, anche sapendo che siamo tutti in concorrenza.  Serve maggiore lungimiranza, per sopravvivere non solo oggi, ma anche nei prossimi anni. Dipende molto da come ognuno di noi si comporta e si comporterà nei confronti degli altri.
Scusate se lo ribadiamo, ma fa impressione, pensare che le cose che abbiamo appena letto siano state dette un’era geologica fa – digitalmente parlando – ben sette anni fa, nel 2013. Lieti di averVi avuto con noi anche oggi, Vi ringraziamo per l’attenzione e Vi rimandiamo alla prossima settimana. ;)