Il passato non è passato

Ci sono questioni non rinviabili. La questione giornalistica è certamente una di queste. E non lo diciamo perché proprio qui,  sulle nostre colonne,  si discute per la maggior parte del tempo proprio di giornalisti e giornalismo. Lo diciamo per provare a rifondare del tutto,  il nostro lavoro futuro sul giornalismo,  e speriamo anche il lavoro di molti altri sul tema; in particolare il lavoro   di coloro che si occupano di libertà e diritti, in quest’epoca purtroppo buia, del nostro tempo attuale. Rifondare il lavoro giornalistico, significa molte cose. Nel nostro tempo, molte di più di quelle necessarie in epoche neanche troppo distanti dall’attuale, e che però oggi ci sembrano davvero remote. Molte delle cose necessarie per rifondare il giornalismo le discutiamo con regolarità da queste parti. Molti spunti per cambiare l’orientamento, li proviamo a diffondere da anni, attraverso i contributi qui riportati. Quest’oggi e in questo post che inaugura un nuovo anno di lavoro e di studio, vorremmo aggiungere altra linfa a queste narrazioni,  prendendo a prestito uno scritto di uno dei nostri fondatori e mentori: Raffaele Fiengo. Il grande giornalista e scrittore che ha proposto e ottenuto, assieme a Pino Rea nel lontano 2004, dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, di poter creare il nostro piccolo centro studi sul giornalismo che si chiama Lsdi; ci ha inviato una sua riflessione,  sul giornalismo del presente, che ha presentato alcune settimane fa durante un’audizione presso la Fondazione Paolo Murialdi. Ve la vorremmo proporre integralmente, intervallandola con alcune notizie aggiuntive,  che proveremo a prendere dalla quotidianità, per cercare di aggiungere informazioni e aggiornamenti sullo “stato dell’arte” del nostro comparto, così ben raccontato dal professor Fiengo nel suo scritto. Buona lettura e grazie dell’attenzione.  E per introdurre il pensiero del nostro mentore,  prendiamo in prestito le parole di un altro giornalista, Alberto Ferrigolo, intervenuto anch’egli all’audizione della Fondazione Murialdi, e che sintetizzano in modo preciso e in poche chiare battute, alcuni dei numeri dello stato di crisi in cui versa il  giornalismo italiano e più in generale l’editoria d’informazione ( non vogliamo fare un’analisi di questi numeri, che certamente potremmo trovare molto più precisi e aggiornati nei resoconti degli esperti di marketing editoriale, li prendiamo solo come suggestione, un’istantanea del presente) :

 

 

La realtà della carta stampata ad oggi, assomma a 5 milioni di copie in meno vendute complessivamente al giorno nell’arco degli ultimi 27 anni a partire dal 1992,  anno di massima espansione delle vendite con 6 milioni e ottocentomila copie vendute al giorno; oggi siamo a vendere intorno al milione e 800 mila copie al giorno di tutti i quotidiani che arrivano in edicola, a cui si deve aggiungere la contrazione dei profitti nella più generale moria delle edicole: 12 mila in dieci anni su poco meno di 40 mila, mentre altre 10 mila sono a rischio chiusura.

 

 

La realtà generale che viene descritta dentro al mondo editoriale è costruita da una crescente area di professione giornalistica fuori dal contratto di lavoro. Come se avessimo a che fare con dipendenti mascherati o finti giornalisti.

Specie nell’informazione locale. O in quella sportiva. O nella cronaca nera: presidiano le questure di mezza Italia ma non sono assunti. Sono invece inquadrati nei modi più fantasiosi. Partite Iva, Co.co.co., Collaborazioni occasionali,   coordinate e continuative, in un effluvio di formule giuridiche più diverse. Tanto che nell’ultimo contratto di categoria stilato tra le parti, che risale al 2014,  e oggi abbondantemente scaduto, sono state sottoscritte regole così larghe -  mi è stato fatto osservare da più parti – per cui chiunque di fatto oggi può fare il fornitore esterno di contenuti.

 

 

 

Fornitori esterni di contenuti, come li definisce Ferrigolo, che poi sono la “massa critica” del giornalismo del presente, costituita non più da contrattualizzati e assunti in azienda (i numeri dell’ultimo rilevamento dell’Inpgi fissano a poco più di 15.000 i giornalisti dipendenti in Italia), ma soprattutto da “autonomi”, “precari”, e in grande numero – sempre crescente -  da persone che producono “atti di giornalismo”. Lavoratori che per motivi vari, e non solo a causa della “crisi”, sono dentro,  a tutti gli effetti,  al mondo dell’editoria, e ai quali dobbiamo dare, in tutti i modi,  dignità e voce. Molti sono già tesserati e inquadrati secondo la normativa vigente,  che presuppone l’appartenenza ad un Ordine professionale – circa 40 mila autonomi, secondo gli ultimi rilevamenti, – “inquadrati nei modi più fantasiosi”, come sottolinea Ferrigolo, e molti altri, forse quasi altrettanti, che operano producendo e distribuendo giornalismo quotidianamente, e che però il sistema ignora, in modo più o meno colposo e doloso. Persone di cui parla, in modo chiaro e semplice nel suo intervento, il nostro decano Raffaele Fiengo. Persone che molto spesso lavorano dentro l’informazione digitale, – quella nata grazie alla rivoluzione digitale -  e che non sono contrattualmente inquadrabili,  per motivi molto spesso economici,  dai loro editori secondo i  modelli e i contratti esistenti.  Editori digitali che non sono tutti banditi senza terra e senza bandiera, ma  più semplicemente,  e molto spesso proprio nel locale e nell’iperlocale,  hanno meno risorse economiche dei grandi quotidiani o delle grandi televisioni e radio nazionali. Anche se è bene puntualizzarlo,  che persino dentro i numeri, non albergano certezze assolute,  quando si tratta di provare seriamente ad affrontare la “rivoluzione digitale”, come ci ricorda in suo scritto illuminante sul valore dell’informazione, un altro collega, Carlo Felice Della Pasqua, alcuni giorni fa:

 

 

2006: il 99,912% del capitale sociale di Gazzettino spa viene venduto alla Caltagirone Editore. Il valore complessivo stimato è di 194 milioni 590mila euro. Oltre al giornale (all’epoca con redazioni in tutte le province venete eccetto Verona, a Pordenone e a Udine), nell’operazione sono inclusi la concessionaria di pubblicità Area Nord, il centro stampa di Mestre e la società che lo gestisce, la maggioranza di Telefriuli e altre partecipazioni. Fonte: https://www.caltagironeeditore.com/wp-content/uploads/2017/12/bilanci_relazioni_2006_CED_FY_2006-1.pdf

2013: all’inizio di agosto Jeff Bezos, fondatore e amministratore delegato di Amazon compra il Washington Post e altri beni e partecipazioni del giornale dalla famiglia Graham per 250 milioni di dollari (cambio euro-dollaro dell’epoca intorno a 1,33, valore in euro circa 188 milioni di euro; se il cambio fosse quello di oggi, 1,11, si arriverebbe a 225,54 milioni di euro). Fonte: https://www.washingtonpost.com/business/economy/details-of-bezos-deal-to-buy-washington-post/2013/08/05/968a2bc4-fe1b-11e2-9711-3708310f6f4d_story.html

2019: all’inizio di dicembre è annunciato il passaggio del gruppo Gedi dalla Cir della famiglia De Benedetti alla Exor della famiglia Agnelli, guidata da John Elkann. Le cifre: il 43,78% è stato valutato 102,4 milioni di euro (il valore complessivo, pertanto, è di 233,89 milioni di euro). Il gruppo Gedi comprende la Repubblica, L’Espresso, HuffPost Italia, la Stampa, 13 quotidiani locali (regionali o provinciali), altre pubblicazioni (Limes, Le Scienze, National Geographic Italia, Mashable Italia ecc.), 3 radio (Capital, Deejay e m2o) e Manzoni pubblicità. Fonte: https://www.repubblica.it/economia/2019/12/02/news/cir_exor-242467396/https://www.repubblica.it/economia/2019/12/02/news/cir_exor-242467396/

 

 

 

Il problema, come spesso abbiamo provato a dire, anche attingendo all’ottimo lavoro del sociologo della complessità e nostro associato, Piero Domenici, è complesso, articolato, e variegato. Ed è un problema che non riguarda naturalmente solo il mondo del giornalismo e dell’informazione. Un cambiamento epocale e strutturale come quello che stiamo vivendo va affrontato con grande coscienza oltre che con le necessarie competenze. Non minimizzandolo o peggio ancora fingendo di capirlo. I dati non sono “dati di fatto”, per dirla sempre con Dominici:

 

 

Si parla generalmente del “mito  dell’evidence based” l’idea che nella società dei dati, questa straordinaria abbondanza di informazioni,  trasformi i dati in “dati di fatto”, che parlino da soli, che siano auto evidenti e che quindi la loro elaborazione sia trascurabile.

 

 

E la cosiddetta semplificazione, che spesso ci viene prospettata introducendo, anche a viva forza,  supporti, piattaforme o processi digitali, nella gestione della nostra vita; in realtà si rivela molto spesso un’inutile complicazione che non affronta e spiega per davvero la “reale”complessità del nostro quotidianito. E ora cediamo nuovamente la parola al nostro mentore e padre fondatore, Raffaele Fiengo:

 

 

 

Un punto acquisito da tutte le ricerche, soprattutto non italiane, (ne ho fatte anche io, per 17 anni di seguito, all’Università di Padova), è il seguente: il giornalismo, nello stato attuale, italiano in particolare, ma anche nelle altre parti del mondo dove la libertà della stampa c’è, non è in grado di fare la sua parte se non in misura limitata. Basta pensare a Instagram che in  Italia ha 19 milioni di contatti mensili. Diamo per noti i discorsi su Facebook, Twitter, Instagram, YouTube, in combinazione con i big data, le profilazioni individuali, il mercato della diffusione di “sentiment”, e la non trasparenza degli algoritmi, tutte cose che ipotecano fortemente la formazione dell’opinione pubblica. Il giornalismo strutturato copre una parte assai piccola del campo, riesce a malapena a tenere botta, a fare il proprio compito, dove il contesto sociale è ricco di informazione, di pluralità delle forme culturali, quasi sempre solo nelle grandi città. Vale per la Brexit, vale per Trump, vale per Erdogan, vale per l’Iran, per l’Europa.

 

 

Nelle aree metropolitane il giornalismo opera, nel bene e nel male: c’è la cultura, c’è il meccanismo dell’informazione digitale, chiamiamola così, che però non subisce la grande manipolazione veicolata attraverso il ”sentimento” diffuso facilmente e prevalentemente nelle periferie sociali e culturali, dove forma senza sforzo i consensi elettorali che stanno minando le democrazie. Si trova quello che sto dicendo in decine di ricerche. La rivista della Columbia University ha diffuso un testo dove si dimostra come il giornalismo stia perdendo addirittura la sua legittimazione di fronte ai meccanismi della pubblicità, nativa e dintorni, del marketing. Il giornalismo non è neanche più primario dove dovrebbe esserlo, nelle imprese editoriali, nei grandi media, nei giornali, nei siti, nelle tv.

Allora su tutto questo sommovimento avvenuto e operante, sto avanzando da tre anni ovvie e naturali proposte, in diverse forme capaci di avere più giornalismo, dentro e fuori. Il giornalismo non può sopravvivere senza allargarsi, andando a responsabilizzare in rete chi fa informazione, i comunicatori, i non comunicatori, quelli che fanno i siti. Diciamo almeno trentamila persone di cui dodicimila adesso, abbastanza presto, entreranno nell’Inpgi. Ma non basta che entrino nell’Inpgi e ci salvino il conto. Bisogna che questi siano in qualche modo riconosciuti dalla comunità senza intaccare la serietà e la struttura dell’informazione professionale, peraltro manchevole a sua volta.

 

 

A proposito di Inpgi e di editoria. Gli ultimi aggiornamenti ufficiali, dopo l’ approvazione da parte del Parlamento dell’ultima manovra Finanziaria del Governo in carica, vedono pronunciamenti di vario tipo da parte di alcuni dei più diretti interessati, pronunciamenti che è bene conoscere a  nostro avviso:

 

 

“Noi non abbiamo inteso commissariare” l’Inpgi, “abbiamo concesso ulteriori sei mesi di tempo per rispettare l’autonomia. A gennaio partirà un tavolo tecnico, è chiaro che il governo è disposto a fare la propria parte, ma anche l’istituto deve fare la sua, dobbiamo garantire stabilità finanziaria, i conti devono essere tenuti in ordine”. Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nella conferenza stampa di fine anno. Immediata la risposta del presidente dell’Ordine Carlo Verna: “I conti sono in ordine ma mancano i contributori, avremo modo di parlarne.  Sull’Inpgi sarebbe urgente un tavolo che definisca e anticipi l’allargamento della platea. Intanto, finanziando nuovi prepensionamenti, siamo ben al di là dell’omissione di intervento. Nel sistema a ripartizione, creando le condizioni per nuove pensioni da pagare piuttosto che quelle per il versamento di contributi, l’istituto già in difficoltà viene appesantito di un carico insostenibile. Nella legge di Bilancio -ha aggiunto Verna- c’è l’obbligo di sostituire due redattori con almeno uno, che può anche non essere giornalista. Lo troviamo illegittimo e impugneremo tale principio”. (fonte Adn kronos).

 

 

Al Presidente Conte e a Verna si è unito nei giorni scorsi anche il sottosegretario all’editoria Martella che ha confermato,  in una intervista al Sole 24 Ore, l’orientamento del Governo sull’Inpgi e sugli interventi pubblici a sostegno dell’editoria e del giornalismo:

 

 

“La legge di Bilancio -  ha detto fra le altre cose Martella -  ha introdotto un primo e importante pacchetto di misure urgenti per il settore editoriale, al quale nei prossimi mesi farà seguito un organico intervento legislativo di riforma di tutti gli strumenti, diretti e indiretti, di pubblico sostegno all’editoria, che abbiamo chiamato ‘Editoria 5.0′”, scrive il sottosegretario elencando poi alcuni elementi contenuti nella manovra, come il “congelamento” nel 2020 “della riduzione dei finanziamenti all’editoria”. Tra le altre misure lo stanziamento di 20 milioni di euro l’anno per promuovere la lettura di quotidiani nelle scuole, l’estensione “all’acquisto di quotidiani il bonus cultura per i diciottenni”, o la conferma e l’estensione del tax credit per le edicole”.

 

 

Ma riprendiamo a scorrere la nota di Raffaele Fiengo che a proposito di “allargamento” della base, non certamente soltanto contributiva, delle persone che svolgono “atti di giornalismo” nel nostro Paese, chiarisce in modo davvero efficace il suo pensiero nel passaggio successivo del suo intervento presso la Fondazione Murialdi:

 

 

 

Se questo non avviene noi andiamo incontro ai fenomeni che fronteggiamo tutti i giorni nei Paesi occidentali. È semplice, sotto gli occhi di tutti, la soluzione. Ma appena la dici diventa incerta, sarebbe meglio che venisse dal cielo. Magari da una autorità lontana, una istituzione, un governo. Ma attenzione, il potere mal tollera il giornalismo. Meno ce n’è, meglio si sente. La mia proposta è quella del ”giornalista per adesione”, l’ho chiamato così. Ma l’ho presa da Piero Calamandrei, non me la sono inventata! Perché Calamandrei, difendendo Danilo Dolci, (4 mesi di carcere nel 1956 per aver chiamato un centinaio di disoccupati edili a rimettere in sesto, con uno “sciopero bianco”, una strada, una vecchia “trazzera”, da tempo non più praticabile,  per raggiungere una frazione di Partinico) spalleggiato in giudizio da Norberto Bobbio e Carlo Levi, aveva dimostrato che la comunità, quando c’è una prestazione, la deve riconoscere.

 

Non so se il “giornalista per adesione” possa o debba entrare in un elenco speciale dell’Ordine. Forse basterà chiedere a chi vuole una responsabilità sociale e voglia anche tenersi lontano da fake-comunicatori, di sottoscrivere i quattro punti che ha suggerito la collega Rita Querze’ che si occupa di lavoro nell’ Economia al Corriere:

A) tutela dei minori, mai riconoscibili tramite nomi o immagini;

B) impegno a pubblicare notizie verificate almeno con una fonte;

C) nessuna forma di ricompensa o vantaggio dai soggetti citati nelle news che si firmano

D) niente denigrazione o toni che incitino a odio e violenza;

Potrebbe venirne la creazione di una sorta di “bollino”, un simbolo di cui si possa fregiare chi ha firmato questi impegni”.

 

 

Sul bollino, o qualunque altro tipo di attestazione e simbologia di rappresentazione di uno status, ci permettiamo di dissentire, con il nostro illuminato mentore. Non per voler affermare un altro punto di vista o per alimentare sterili polemiche. Ma solo per ribadire, sulla scorta del pensiero di molti studiosi di tutto il mondo sul tema della trasformazione digitale: che il cambiamento epocale che stiamo vivendo non riguarda soltanto il comparto dell’informazione. E che per riuscire a starci in modo corretto e definitivo, tutti noi – giornalisti e non – dentro a questo cambiamento, dobbiamo essere formati e informati a sufficienza e nel modo corretto. Non ci servono bollini, distintivi o tesserini. Nessuno – anche quando esercita una funzione, un servizio, o una professione – dentro all’agone digitale;  può “limitarsi” a rendersi  “riconosciuto e riconoscibile” grazie ad un espediente – un marchio, un adesivo, un simbolo – magari deciso da una qualche lobby,  da un qualche gruppo di potere. Ognuno di noi deve invece farsi riconoscere perché esercita nel modo corretto la propria funzione,  e soddisfa in questo modo le  aspettative di coloro che lo seguono/leggono/ascoltano/vedono. E’ un principio fondamentale, permetteteci di insistere, per comprendere il cambiamento e viverlo responsabilmente. Non ci sono regole che semplificano, né meccanismi di traslazione di un mondo dentro un altro. Il nostro mondo attuale è diverso, profondamente. E per questo bisogna studiarlo, comprenderlo, e costruirlo sulla base di reali meccanismi di conoscenza non di pressione di gruppi di potere per motivi di interesse. 

 

 

 

La Federazione della stampa e gli organismi che sono il cuore del giornalismo in Italia, ne sono la difesa storica. Lo sono anche gli attuali rappresentanti. Loro sono gli eredi, è loro il compito di creare le condizioni perché sia presente il miglior giornalismo dove ora non arriva, riempire di contenuti razionali quello che sta avvenendo nel peggiore disordine. Non possiamo chiudere gli occhi e dire “ci basta prendere i soldi dall’Inpgi e stiamo più tranquilli con le pensioni”. Perché questa è una questione drammatica e necessaria, urgente.

La Federazione della stampa, l’Ordine, chiunque sia, deve almeno incominciare a chiedere alle persone che stanno entrando nell’Inpgi, che si assumano precisi obblighi deontologici. Si può organizzare una “operazione conoscenza”, chiedere per sapere chi è interessato, che cosa fa nel campo dell’informazione, anche per incominciare ad avere una prima mappa, un inizio di censimento, per poi agire. Può darsi che pochi vogliano assumersi impegni.

La rai metallurgica

La nostra storia è piena di questi passi fatti con coraggio, pensate alla RAI. Adesso ci stupiamo a ricordarlo: ma la Rai, solo qualche anno fa non era una impresa giornalistica, ma eredità’ di quella metallurgica: non solo gli operatori, i fotografi (quasi mai riconosciuti giornalisti anche nella carta stampata) e molti altri, davano prestazioni in sostanza giornalistiche, ma erano trattati da tecnici, come i contratti, quasi tutti i contratti erano metallurgici. Poi piano piano sono diventati giornalisti seguendo i contenuti e le loro prestazioni, i cameramen, i dimafonisti e gli stenografi. Non possiamo non procedere con questa apertura, con questo spirito, in questo modo. Certo con tutte le prudenze del caso, senza intaccare i meccanismi solenni, formali e collaudati dell’accesso alla professione. Ma non possiamo non farlo.

Non sarà sufficiente inseguire le realtà affermate come Fanpage (dove dai 5 contratti iniziali si è arrivati a più di 30). Bisognerà trovare il modo di qualificare molto altro, pur tenendo regole di qualità verificata per chi vuol essere giornalista professionista.

Se non ci assumiamo la responsabilità del fatto che le democrazie non hanno il giornalismo e la libertà di stampa automaticamente e per sempre nelle proprie mani, avremo brutte sorprese. È la libertà di manifestare il pensiero alla base della democrazia, non viceversa.  Sotto i nostri occhi il giornalismo sta cambiando velocissimamente, non ce ne accorgiamo, perché anche dove sembra esistere in realtà non c’è. Il giorno della nascita del governo Conte II, Sky News24 ha trasmesso Salvini che faceva una conferenza stampa e le domande non si udivano in televisione. Questo vuol dire che il giornalismo lì non c’era, perché se vedo tutti i giornalisti che fanno le domande e sento solo le risposte, quella diventa una diretta Facebook.

Piccoli corrispondenti

Cinquant’anni fa, al Corriere avevamo i corrispondenti anche nei paesini. Quasi sempre non erano giornalisti con il timbro, talvolta erano dei professori, dei maestri, ma erano riconosciuti nella comunità come “”Corriere della Sera”. E non cascava il mondo. Dobbiamo rifarlo, prenderne mille, duemila, pagarli per le singole prestazioni, li facciamo corrispondenti del Corriere. Sono un antidoto alla manipolazione. Guardate che la manipolazione nella rete è totale, passa dagli algoritmi, passa dalle profilazioni, comprate e vendute insieme con i pacchetti di contatti. Trump ha comprato per le elezioni 180 milioni di profili individuali. Quando interveniva su una votazione in bilico e interveniva con la geolocalizzazione (lo spiega la Nieman Foundation for Journalism all’universita’ di Harvard) Trump aveva la certezza al 90% di ottenere il proprio risultato. Lui andava in Virginia occidentale, metteva la parola “carbon” e, a quelli che usavano cinque volte la parola “carbon”,  mandava il messaggio. “Io difendo l’industria del carbone“ diceva e i voti li ha presi. E ha così vinto. E se non bastasse, nel maggioritario, chi ha in mano il disegno dei collegi elettorali e lo può pilotare (Jerrymandering), oggi altera facilmente il numero degli eletti perché con i profili i voti si conoscono prima che siano dati.

Questa realtà c’è dappertutto e la possiamo contrastare, ma non solo con le leggi. Qualche cosa sta avvenendo. Dopo lo scandalo Cambridge Analytics, Facebook sta facendo marcia indietro, comincia a cancellare le fake news e il discorso razzista e violento). Ma non illudiamoci. Facebook non può cambiare natura. Dunque questo non basterà, e nemmeno la lotta per la trasparenza degli algoritmi (pur giusta).

Non dimentichiamo che il campo allargatissimo e velocissimo della comunicazione non ha solo virus cattivi e pilotati. Di tanto in tanto si manifestano effetti stupefacenti e meravigliosi. La settimana della Terra in pericolo, culminata in Italia venerdì 28 settembre con le manifestazioni “Friday For Future” dei ragazzi in 180 città con più di un milione in strada l’abbiamo vista con piacevole stupore. Per non parlare delle Sardine.

Questi lampi di coscienza generale sono abbastanza rari, ma ci sono. E aiutano a capire. Uno ci fu la sera dell’incendio a Notre Dame, con il canto di preghiera nelle strade intorno alla chiesa in fiamme, credenti e laici, cristiani e musulmani, avversari politici, forse anche nemici storici, profondamente insieme. E  il 13 febbraio 2011, quando donne di tutta Italia riempirono strade e piazze con le parole “Se non ora quando?”. Anche allora una imprevedibile prova di coscienza collettiva, poco immaginabile.

Tutti lampi rimossi e archiviati in 24 ore. Nelle reti dei nativi digitali anche le sensibilità buone diventano consapevolezza generale. Ma non si consolidano mai. Scompaiono dal quadro subito. Perché il giornalismo, quello con la sua connaturata autonomia, non ha la stessa ampiezza.

Può sembrare un po’ ruvido. La categoria strutturata deve saper vedere il giornalismo dove c’è nelle forme precarie e riconoscersi reciprocamente. Se non riusciamo a farlo, sarà un tradimento. Abbiamo paura di perdere consenso, perché la corporazione (e sbaglia), non vuole un allargamento? Lo capisco. Ma non dobbiamo farci prendere da piccole viltà che non ci appartengono. L’allargamento non può portare che bene a tutti, perché noi siamo -insieme- una cosa sola, il giornalismo.

Dove c’è, il giornalismo deve essere riconosciuto dalla comunità, a incominciare da noi. Al più presto. Il mio vuol essere un doveroso e amorevole “early worning”, un’allerta tempestiva.

 

 

Come non approvare le riflessioni di Raffaele Fiengo. Anche sulla scorta del pensiero di un altro grande esperto di giornalismo studiato e praticato,  e di mondi digitali: Mario Teschini Lalli. In un suo recente post su facebook a commento di un articolo di un altro giornalista – Andrea Garibaldi -  sullo stato della nostra professione,  Tedeschini Lalli scrive fra le altre cose:

 

 

La domanda che editori e giornalisti devono porsi è: cosa dobbiamo fare e come dobbiamo farlo perché una parte rilevante delle relazioni sociali passi attraverso di noi — anche se i cittadini non sono più costretti a passare attraverso di noi?

 

 

RingraziandoVi sentitamente, come sempre, per essere arrivati fino a qui, con pazienza e dedizione,  Vi lasciamo questa volta lanciando in chiusura dell’articolo, un piccolo sondaggio, su un tema, a nostra avviso, dei più importanti per giornali, giornalisti e più in generale per la libertà di stampa del nostro Paese. Ci piacerebbe davvero molto sapere come la pensate su questa proposta di legge, già approvata dalle competenti commissioni ministeriali,  e che adesso dovrebbe arrivare in Parlamento per la necessaria discussione e votazione. La proposta di legge è composta da un solo articolo che Vi riportiamo qui sotto e riguarda il tema – assai spinoso e controverso – delle cosiddette “querele temerarie” che fa il paio con un tema altrettanto spinoso e controverso per il settore dell’informazione che è quello della diffamazione. Ecco il testo:

 

 

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.1. All’articolo 96 del codice di procedura civile, dopo il primo comma è inserito il seguente: “Nei casi di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, delle testate giornalistiche online o della radiotelevisione, in cui risulta la mala fede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per risarcimento del danno, su richiesta del convenuto, il giudice, con la sentenza che rigetta la domanda, condanna l’attore, oltre che alle spese di cui al presente articolo e di cui all’articolo 91, al pagamento a favore del richiedente di una somma, determinata in via equitativa, non inferiore alla metà della somma oggetto della domanda risarcitoria”.