Era il 2016, e la ricerca aveva occupato circa tre anni della nostra attività . E già allora era molto evidente tutta una serie di temi e narrazioni, che avrebbero via via avuto sempre maggior evidenza nell’esistenza di ciascuno di noi, sino a condizionare in modo forte molti dei nostri comportamenti quotidiani. In ambito giornalistico, anche tre anni fa, erano chiare le tematiche e anche gli interventi - almeno alcuni di essi – che dentro le redazioni avrebbero dovuto mettere a punto, per arginare il fenomeno, e produrre nei fatti quel cambiamento, quella “transizione digitale”, che in ogni caso, si andava, comunque, configurando.
Nella nuova dimensione digitale il lavoro giornalistico non si conclude con la stampa/diffusione del pezzo; il lavoro prosegue nel seguire il flusso delle conversazioni; si esplicita in molti e diversi modi; dal cercare riscontri e pareri da parte degli utenti attraverso la lettura dei commenti al pezzo; dal cercare interazioni con gli stessi utenti rispondendo o facendo rispondere alle parti interessate ai commenti espressi; raccogliendo spunti e tracce per elaborare giornalisticamente nuovi approfondimenti giornalistici; dall’ascolto e lettura e valutazione delle conversazioni che si originano online a seguito della pubblicazione del pezzo stesso. Bisogna dichiarare subito e in modo esplicito e trasparente su ogni bacheca pubblica o pagina d’accesso ad un sito di informazione, le regole di accesso e di partecipazione alle conversazioni. Una procedura scandita e condivisa con la propria community per definire l’accesso alle bacheche di conversazione e regolamentare la gestione di tali conversazioni. In modo che l’eventuale violazione del regolamento, il commento di incitamento all’odio, o ancora di più l’azione di trolling manifesta e scientemente predisposta online, possano essere pub-blicamente rimosse sino ad arrivare a bannare l’utente o gli utenti irrispettosi o ancora oltre, fino alla denuncia alla pubblica autorità nel caso ci si trovi di fronte a veri e propri reati. Tali passaggi progressivi necessitano di personale competente e adeguatamente formato. Meglio se giornalisti che affianchino alle proprie competenze professionali tutte quelle capacità necessarie a governare in modo adeguato il flusso digitale.
Anni dopo, queste parole, suonano più come una sorta di presa per i fondelli, che un monito e un invito, quali erano, non trovate? Sono passati eoni - se misurati con il calibro delle trasformazioni tecnologiche - eppure quei discorsi, non solo non hanno avuto alcun seguito, ma la sensazione diffusa, la percezione dei più - pandemia compresa – è che si sia tornati parecchio indietro. Che le cose successe dopo, abbiano riportato indietro, il cosiddetto “progresso”; e che l’Umanità – ora più che mai - digitale; non abbia aggiunto alcun valore al proprio cammino; e che la corsa sempre più vorticosa, alla scoperta di nuove e diverse tecnologie, non stia portando verso un reale ascesa all’emancipazione e al benessere collettivo, bensì  ad una sempre più marcata e sostanziale omologazione sociale, in chiave “digitale”. In questo desolante panorama, un’iniziativa come quella di un documentario d’inchiesta sul tema dei discorsi d’odio, non può che essere registrata con favore; e divulgata, anche sui nostri canali, ad ogni piè sospinto. In nome di quell’emancipazione e di quel progresso – veri e non fittizi - in cui proprio la nostra categoria professionale, quella dei giornalisti, dovrebbe essere attiva e partecipe protagonista più di altre. La docu-inchiesta si intitola “I fili dell’odio”, è stata diretta da Valerio Nicolosi, sulla base delle idee e dei materiali prodotti da tre giornalisti: Tiziana Barillà , di cui abbiamo già parlato anche qui in occasione di un articolo dedicato a Mimmo Lucano e al libro intervista che la stessa Barillà ha dedicato proprio al sindaco di Riace:
Daniele Nalbone, che abbiamo avuto modo di ospitare su queste colonne, quando ci siamo occupati degli stati generali dell’informazione, e in particolare della giornata di lavoro dedicata proprio ai progetti dei giornalisti:
e Giulia Polito, di cui - sorry - per ora, non c’era traccia nei nostri archivi, ma che in rete trovate, eccome, ad esempio sul Blog InVisibili del Corriere.
Il documentario, rifiutato dalle reti generaliste, è stato presentato e poi diffuso online a partire dal 2 dicembre scorso, attraverso il canale youtube, di Michele Santoro, che alla realizzazione dell’opera, ha offerto la propria collaborazione. Il video, integrale, sempre che rimanga accessibile a tutti,  lo troverete anche allegato in calce a questo pezzo. Un’iniziativa importante, anni dopo che il fenomeno è stato reso pubblico ed evidente, da pubblicazioni e ricerche scientifiche, e – sigh – dal moltiplicarsi esponenziale di questi comportamenti online; racconta – attraverso le testimonianze di vittime, esperti e personaggi pubblici coinvolti a vario titolo in queste tematiche - quali siano state le dinamiche di sviluppo di questi comportamenti nel corso degli ultimi anni. I temi affrontati nelle interviste sono principalmente tre: quello politico, quello sociale e quello più tipicamente dedicato alla “cultura digitale”. Qui a bottega – come immaginerete facilmente – è il terzo tema ad appassionarci maggiormente, soprattutto sulla base dei nostri specifici studi sull’argomento, sviluppati in questi anni, qui e a digit, proprio a partire dalla ricerca internazionale sull’hate speech a cui abbiamo preso parte dal 2013. Estraiamo dunque alcuni passaggi tratti dal documentario, che a nostro avviso pongono l’accento su alcuni particolari contenuti, su cui vale la pena di riflettere ancora e ancora, magari provando ad approfondirli ulteriormente. Prima di tutto, fanno davvero male, – non c’è un altro modo di dirlo - le parole di “Mark” estratte dalla celeberrima udienza del patron di facebook, davanti alla commissione del Congresso americano, allo scoppio dello scandalo di Cambridge Analityca:
non ci basta mettere le persone in connessione dobbiamo far sì che tutti si esprimano in maniera correttaÂ
non bisogna solo fornire alle persone un controllo delle informazioni ma bisogna proteggerle cosa che non siamo riusciti a fare
è chiaro adesso che non abbiamo fatto abbastanza per prevenire i danni
vale anche per le fake news, per le interferenze straniere sulle elezioni, e per l’incitamento all’odio
non ci siamo assunti le nostre responsabilità e questo è stato un nostro grande errore, un mio errore
me ne scuso
Come diceva la nonna? Lacrime di coccodrillo:Â Â
Un passaggio davvero interessante del documentario – facilmente attribuibile allo stile Santoro – è quello in cui viene riportato
Arriviamo, accendiamo un programma che attiva una sorta di pagina interna a facebook dove visualizziamo i contenuti segnalatiÂ
ne passiamo circa 350/400 al giorno
l’algoritmo riconosce le immagini e alcune parole come troia, negro, scimmia e altreÂ
non puoi scrivere gli africani mi fanno schifo perché la razza è completamente protetta
però puoi scrivere i migranti mi fanno schifo, sono stupidi o hanno una bassa morale
 e questa è una regola che molti – haters – hanno imparato ad usareÂ
il nostro contratto contiene delle clausole ferree, non posso rivelare nulla di ciò che faccio, e neppure dire che lavoro per facebook, se mi licenzio poi sono obbligata al silenzio per altri 10 anni
vediamo donne drogate, uomini ammazzati, suicidiÂ
questo lavoro spegne ogni mio desiderio di comunicare con il resto del mondo, perché a furia di sorbirmi questo genere di contenuti mi pare che tutto il genere umano sia così
Cara Marina, il genere umano non è cosi – per fortuna – le persone sono meglio e, purtroppo, alcune, anche peggio di così;  ma nessuno – nessuno – è, e mai dovrebbe rischiare di essere,  il risultato di un piano algoritmico di riscrittura, di modellazione programmata e ri-programmabile della realtà . Il tuo lavoro – e il lavoro delle migliaia di persone in carne e ossa – assunte continuamente dai colossi del web, e del “capitalismo della sorveglianza”, come Facebook, sta lì a dimostrare, fra le altre cose, dove sia il “conquibus”, dove si possa ancora agire, dove il sistema sociale ipotizzato e costruito attorno a noi dalle techno corporation sia fallace e non praticabile, se vogliamo restare “umani”, liberi e artefici del nostro destino. Un sistema che nasce solo da una logica di profitto, non può e non deve essere un modello per la nostra società . Un sistema di questo tipo produce aberrazioni – vedi l’hate speech – e non benessere comune e distribuito.
Le parole hanno un significato preciso, ogni termine, ogni avverbio, aggettivo, nome proprio o comune. E non possono essere distribuite nell’etere, su un foglio, o dentro la rete, come dadi shakerati a caso prima di un lancio sul tappeto verde. Parole e illuminanti esempi di vita, come – aldilà da ogni convinzione, credo, e distinzione razziale – quella di Liliana Segre. Esempio raro, quasi unico, di martire – scampata alla tragedia - della libertà , condannata a morte certa, ma rimasta caparbiamente in vita, e che, nonostante le violenze subite, è riuscita a trasformare la propria terribile esperienza in una testimonianza a perenne monito contro la malvagità dell’uomo e inno supremo alla bellezza della vita. Parole come pietre - certo – , come monito per non indulgere mai più in simili bestiali comportamenti, ma anche, raggi di sole, isole di pace e felicità , foriere di stimoli e speranze per costruire e ricostruire scenari dove sono: il bene comune e la gioia di vivere, gli unici a trionfare. Grazie signora Segre, grazie Senatrice Liliana:
eravamo giovani ma sembravamo vecchi, senza sesso, senza età , senza seno, senza mestruazioni, senza mutande,
non si deve aver paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità a una donna
io avevo allora 13 anni, ed ero operaia/schiava nella fabbrica di munizioni union, fabbrica che c’è tuttora, e dove facevamo bossoli per mitragliatrice,
e venne il comando immediato dalla fabbrica stessa, di cominciare quella che fu chiamata la marcia della morte
perché io non fui liberata il 27 di gennaio dall’armata rossa, io facevo parte di quel gruppo di più di 50 mila prigionieri ancora in vita, obbligati in quelle condizioni fisiche, senza parlare di che cos’erano quelle psichiche, a partecipare a quella marcia che durò mesi
e noi non volevamo morire, noi eravamo pazzamente attaccati alla vita qualunque fosseÂ
per cui una gamba davanti all’altra, buttarci sui letamai, mangiare qualunque schifezza, qualunque cosa, mangiare la neve dove non era sporcata dal sangue e non domandarci di più
nient’altro che andare avanti, camminare e camminare
nella marcia della morte non potevamo appoggiarci al compagno vicino che si trascinava sulla neve coi piedi piagati come noi, e che veniva finito dalle guardie della scorta se fosse caduto
come si fa in quelle condizioni
perché la forza della vita è straordinariaÂ
è questa che bisogna trasmettere ai giovani di oggi che sono mortificati dalla mancanza di lavoro mortificati dai vizi che ricevono dai loro genitori molli
c’era qualcosa dentro di noi che ci diceva: avanti, avanti, avanti
(Liliana Segre)