Stati e strati dell’informazione (appunti per non dimenticare) pt.3
Ad aprire il terzo e conclusivo nostro pezzo di riassunto e sottolineatura dedicato agli Stati generali dell’editoria (gialloverdi) – per distinguerli da eventuali altri Stati generali similari e diversamente colorati politicamente – vorremmo presentarvi un lavoro, che da solo vale tutti gli incontri, e forse qualcosina in più. Una ricerca realizzata direttamente dagli esperti del dipartimento editoria e informazione del ministero, guidati da Ferruccio Sepe, che partendo da uno studio oramai vecchiotto del Reuters Institute, ha analizzato l’Europa in lungo e in largo, per capire quale sia - se c’è - il Pubblico supporto al settore dell’editoria d’informazione.
Uno studio accurato e aggiornato, che si trova scaricabile per intero sul sito del dipartimento, e che il capo del dipartimento, Ferruccio Sepe, ha presentato per sommi capi durante l’incontro degli Stati generali dedicato alle “imprese editoriali nell’epoca di internet”. Nell’ultima serie di incontri pubblici degli Stati generali si è parlato di editoria, provando a definire il comparto nella sua accezione più attuale, mischiando – come appare inevitabile - le vecchie logiche produttive e industriali, con l’economia delle piattaforme, e tenendo conto della scomparsa, quasi totale, degli introiti pubblicitari in editoria, a beneficio dei nuovi grandi player. I proprietari di quelle piattaforme, che sono diventati piano piano, gli unici gestori di tutto “er cucuzzaro”, per dirla in modo colto e informato; spodestando di fatto, e forse senza volerlo per davvero: editori, giornali, giornalisti, edicole, industrie di stampa, governi, stati, politica e finanza. La fotografia che questi numerosi e ricchi incontri dedicati al comparto dell’informazione, ci consegnano, è quella di un settore diviso, sempre più frammentato. In cui ognuno pensa solo al proprio orticello. Incrementando, in questo modo, situazioni già di per sé compromesse anche se ci fosse ancora una parvenza di unità e coesione fra le parti in causa. Il ruolo degli Stati e dei Governi dentro a questa stringente crisi dell’editoria d’informazione potrebbe, forse, proprio essere quello di fungere da cabina di regia, in nome di un interesse meno di parte, più trasversale e teso al raggiungimento dell’universale “bene comune”. Utopia o mera necessità ? Questo nessuno può affermarlo con certezza oggi. Certamente tutti abbiamo ben chiaro davanti a noi il presente e il futuro più prossimo del settore ma più in generale del sistema mondo post rivoluzione digitale; e tutti sappiamo piuttosto bene che se non saremo in grado di difendere la “funzione del giornalismo”, sopra a tutte le molteplici sfumature e partigianerie, nessuno ci guadagnerà e tutti drammaticamente, perderemo.
Per introdurre le nostre ultime analisi sugli Stati generali e gli estratti che riprodurremo di seguito, Vi proponiamo alcune considerazioni di un grande giornalista e studioso di giornalismo, cui da sempre ci ispiriamo qui a bottega. Stiamo parlando di Jeff Jarvis. Lo studioso anglosassone ha portato negli anni grande valore aggiunto agli studi di settore, basti ricordare su tutto, la sua idea di introdurre nelle imprese editoriali un “reversed paywall”. Un modo originale e molto concreto, di ribaltare in ottica di piena comprensione della transizione digitale, il concetto di “modello di business” in editoria. Ma in realtà , a voler ben guardare, un modello utilizzabile, non solo in campo editoriale. Il reversed paywall proposto da Jarvis, se regolarmente applicato, potrebbe – a nostro avviso - seriamente fornire una base stabile per riavviare la pesante, ma anche potente, macchina del giornalismo professionale. Anni fa in collaborazione con lo stesso Jarvis, pubblicammo su Lsdi, una serie di anticipazioni del suo lavoro e dei suoi studi, sotto forma di documenti tradotti. Da quella documentazione estraiamo oggi un passaggio che ben si abbina al lavoro degli Stati generali nonostante gli anni trascorsi. Grazie come sempre dell’attenzione, e buona lettura ;)
Jeff Jarvis
Cos’è quindi quella cosa che chiamiamo giornalismo ma che non propugna impegno sociale o difende i princìpi, che non è a servizio dei bisogni del pubblico? Nel peggiore dei casi è sfruttamento (esca per lettori, vendite o clic). Nel migliore dei casi è intrattenimento. Il primo è peggiorativo, il secondo può non esserlo, perché l’intrattenimento – che sia narrativa giornalistica o un libro, uno spettacolo, un film – può sempre informare e spiegare. Ma se non offre informazioni che la gente possa usare per gestire meglio la propria vita o società , direi che non può considerarsi giornalismo rispetto ai risultati e all’impatto sociale.Il giornalismo come impegno sociale è stato messo insieme al giornalismo come intrattenimento per motivi economici: l’intrattenimento può attirare la gente verso un certo medium e contribuire a sostenerne le spese. È stato forse un errore metterli in un’unica categoria? Se un quotidiano fa informazione, va considerato giornalismo tutto ciò che producono suoi redattori? No. Corollario: chi non è giornalista può comunque fare giornalismo. Ciò riguarda il valore distribuito, non una qualifica professionale.Perché non sposare quindi la causa dell’impegno sociale e assicurarci di farne buon uso?
Perché non misurare i risultati e l’impatto di tutto il nostro lavoro in base a quanto si riesce a ottenere? Perché non fare partnership con le comunità e usare le nostre competenze per aiutarle a raggiungere loro obiettivi (e impegnarsi a tutelarli)? Se facciamo così, poi il nostro successo sarà misurato dall’apporto concreto offerto alla comunità per raggiungere i suoi obiettivi, ripensando adeguatamente la definizione del nostro lavoro e i requisiti necessari. Dobbiamo usare o creare piattaforme che permettano alle comunità di esplicitare e identificare i propri obiettivi. A un livello elementare, l’hashtag #occupywallstreet era solo una piattaforma senza grande significato fino a quando sono stati gli stessi membri della comunità nata attorno a quell’hashtag a riempirlo di significato. Grazie a piattaforme più complesse, i vari gruppi potrebbero raggiungere obiettivi di maggior portata. C’è un altro ruolo da mettere in elenco: forse i giornalisti dovrebbero vedersi come degli educatori. Ovviamente questo non vuol dire che siano dei relatori intenti a trasmettere dal palco un flusso unidirezionale verso un pubblico passivo. Un vero educatore spinge gli studenti a sperimentare, a condividere e costruire in autonomia, in base a proprie abilità ,desideri e bisogni. Dopo aver individuato le necessità individuali o collettive, i giornalisti e le annesse testate potrebbero così insegnare loro come soddisfarle. Concetto che, come per buona parte di quanto esposto finora, non è affatto nuovo. Da tempo il giornalismo come servizio va suggerendo ai lettori come raggiungere i loro obiettivi: trovare un nuovo lavoro o ottenere il mutuo sulla casa, usare una nuova tecnologia, capire meglio un problema. La novità è che oggi Internet offre chiari riscontri per vedere se siamo riusciti a far progredire la conoscenza e la comprensione. Come un buon insegnante, dobbiamo chiederci se il nostro lavoro fa sì che gli utenti e le comunità siano meglio informate, più sagge e capaci di raggiungere i loro obiettivi, di sviluppare il proprio potenziale.
Le imprese editoriali nell’epoca di internet
Ferruccio Sepe capo dipartimento editoria e informazione
Il pluralismo va sostenuto perché altrimenti se affidato solo al mercato non sempre regge.
Una ricerca europea sul pluralismo realizzata dal dipartimento editoria e informazione nel 2019 e basata su dati ricavati da uno studio del 2011 del Reuters Institute che si chiama: Public support for media
Due categorie di interventi a sostegno dell’editoria:
Interventi diretti:Â quando il Pubblico trasferisce risorse direttamente ad un soggetto privato.
Interventi indiretti: tutti i crediti di imposta, oppure forme di defiscalizzazione, fiscalità di vantaggio.
- L’Austria ha forme di contribuzione diretta e indiretta a sostegno del pluralismo.
- La Danimarca eroga direttamente a sostegno del pluralismo dell’informazione 48 milioni di euro.
- La Finlandia sostiene l’informazione, poco in forma diretta, e più in forma indiretta, attraverso il finanziamento di un fondo per l’innovazione del settore.
- La Francia che dispone di un fondo di 1 miliardo e seicento milioni sulla cultura, mette in campo molte forme di sostegno diretto e indiretto all’editoria.
- La Germania, non ha risposto alle nostre domande, si sono limitati a dirci che sostanzialmente la loro Costituzione non vieta queste forme di aiuti. Al momento non ce ne sono in atto. Ogni lender ha le proprie autonomie in ambito di produzione normativa e può intervenire con leggi apposite in ambito territoriale. Anche in Germania c’è l’iva agevolata sui prodotti editoriali (al 7%).
- L’Italia ha forme di contribuzione diretta pari a sessantasei milioni di euro nel 2018 e l’iva agevolata e le tariffe postali agevolate.
- La Norvegia ha misure dirette e indirette per il sostegno al pluralismo in una quota rilevante.
- In Inghilterra, totale esenzione dell’Iva che vale, 1 miliardo e ottocento milioni di euro. inoltre 29 milioni di euro dedicati all’acquisto da parte dell’autorità locale di informazioni per i cittadini sulla carta stampata tradizionale e poi misure per il finanziamento e l’assunzione di giornalisti.
- La Svezia ha una presenza rilevante di contribuzione diretta, Iva e tariffe postali agevolate.
Matteo Bonelli, avvocato esperto in diritto societario
Che cosa è oggi un’impresa editoriale? Se noi oggi ci dovessimo basare sulle vendite pubblicitarie dovremo effettivamente considerare Google e Facebook un’ impresa editoriale al pari delle altre.
Microsoft è il terzo venditore di pubblicità on line al mondo. Amazon vende pubblicità ed è più grande di qualunque impresa editoriale al mondo, ma molto più grande.
Ci troviamo in una situazione di monopolio naturale. Facebook è un monopolio nel settore diciamo dei social network. Google è invece il monopolista nel mondo del web-surf.
Oggi vediamo che le prime cinque società per capitalizzazione di Borsa sono quelle che gli americani chiamano le internet big five ciascuna delle quali è una società  che vende pubblicità . Nessuno di questi può essere considerato un editore, ma di fatto, ciascuno di essi vende pubblicità come gli editori tradizionali.
La normativa Gdpr è una normativa molto figlia della mentalità dei burocrati europei, molto poco adatta a risolvere il problema dei contenuti, perché alla fine si concretizza in procedure e regole che stabiliscono dove devono essere i dati, ma senza effettivamente dare al cittadino una vera e propria capacità di controllo per la gestione dell’informazione che lo riguarda.
Per i dati personali il sistema pubblico dovrebbe incominciare a pensare ad un registro unico dei dati personali. Un registro gestito da un ente pubblico o da una società autorizzata dal Pubblico.
Quando parliamo di algoritmi dovremmo cominciare a parlare di diritti di accesso. Se noi cominciamo a concepire questi player (Google e Facebook ad esempio), come dei monopoli naturali, allora forse varrebbe la pena di trattarli, nello stesso modo in cui vengono trattati i servizi di rete. Per esempio il servizio ferroviario, oppure le reti elettriche. Dove ad un certo punto la regolamentazione è quella di garantire agli operatori un accesso a questo monopolio naturale,  in modo da potere creare una competitività tra imprese. Piuttosto che cercare un’impresa che possa competere contro qualcuna di queste,
Ruben Razzante professore di diritto della comunicazione per le imprese e i media e di diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano
Il declino dell’impresa editoriale rischia di essere un declino che va a detrimento anche di quelli che sono gli interessi dele OTT. La perdita di credibilità complessiva dei contenuti in rete va a detrimento del business di questi soggetti. Colossi che possono stritolare anche in termini numerici le aziende editoriali, ma che non sono interessati a farlo, e non lo faranno perché hanno invece tutto l’interesse a valorizzare quello che a fatica le imprese editoriali continuano a fare nel nostro Paese.
Giovanna Barni presidente CulturMedia di Lega Coop
L’impresa culturale deve stare sul mercato, per carità , ma non è possibile. Non facciamo quello che è successo per il turismo. Il nostro Paese non ha tutelato alcuni pezzi del turismo, tipo i presidi territoriali, come le agenzie di viaggio. E oggi si ritrova che del nostro patrimonio culturale guadagnano grandi player internazionali e non ci guadagna per niente l’economia locale, molto spesso, o comunque guadagna molto meno e troppo poco. Non c’è innovazione e non c’è creatività senza la cultura e senza l’ informazione. Consideriamo inoltre che anche i giganti del web non saprebbero più dove andare a rubare le loro informazioni se non ci fossero più le testate locali.
Maurizio D’Adda federazione assografici
Questo comparto fattura venticinque miliardi di euro l’anno pari all’uno virgola quattro per cento del PIL del Paese. Diciotto mila imprese e centosettantamila addetti.
Crediamo che la lettura sia un bene pubblico al pari della salute e dell’istruzione e quindi vada sostenuto dallo Stato.
I giornali hanno una crisi di funzione d’uso, non riescono più a trasmettere il loro beneficio al lettore. Una evidenza che perdura da anni. I nostri giornali sono rimasti uguali a se stessi. Se uno prova a confrontare un quotidiano di oggi con lo stesso di quindici anni fa vedrà che il cosiddetto marketing mix è rimasto inalterato. Prodotto, prezzo, costruzione dello spoglio, approccio di lettura, comunicazione: tutto è rimasto uguale. Al Corriere come a Repubblica come anche al Nytimes.
Claudio Silvestri redattore del quotidiano Roma
Ho sentito parlare, ho sentito dire, la parola mercato più volte. In realtà il fondo si rivolge a chi nel mercato non ci può stare. E’ un fondo che serve per dare voce alle differenze, alle minoranze, voce ai territori, voce a chi non ne avrebbe, altrimenti. E’ uno strumento per la democrazia ed è stimolato dalla nostra Costituzione, dall’articolo 21 della nostra Costituzione.
Andrea Boni presidente Associazione nazionale editoria di settore
Le tecnologie non sono il futuro sono abilitanti per accedere al futuro della comunicazione e dell’informazione.
Noi siamo per: quando si riuscirà a capire e conseguentemente ad affrontare la crisi del settore – ma soprattutto l’adattamento della nostra società ai postumi della rivoluzione digitale – partendo dalla cultura, e non spiegando, o peggio, assoggettandoci pedissequamente alle tecnologie, avremo finalmente in mano l’asso piglia tutto che ci permetterà di risolvere i nostri problemi.
Giornali e nuove sfide dell’informazione
Alberto Marinelli, presidente del corso di laurea in comunicazione pubblica e d’impresa dell’Università la Sapienza di Roma
Le piattaforme non riflettono il sociale ma producono le strutture sociali in cui viviamo. Non è un problema che riguarda solo le news o il modo di vedere i film, riguarda la nostra vita. E’ un problema di modalità con cui è organizzata la nostra esistenza.
Le news quelle prodotte ufficialmente, certificate, gestite da una comunità professionale e giustamente retribuita per il lavoro che fa, vanno insieme in un contesto e in un ecosistema comunicativo in cui esistono altri flussi di informazione totalmente disintermediati che si sovrappongono.
La maggior parte del flusso di notizie arriva alle persone (e dalle persone aggiungo) in maniera totalmente disintermediata e vincolata da meccanismi di amicizia. E’ l’amico che ti suggerisce, ti posta qualcosa che ti raggiunge.
Il filtraggio. E’ evidente, lo fa l’algoritmo da solo. se non riesci a vedere alcune cose dei tuoi amici su Facebook, metti alcuni like o alcuni cuoricini sulle persone, e poi aspetta che l’algoritmo faccia il resto. Bisogna allevare l’algoritmo. Le echo chambers. L’algoritmo creano una condizione per cui tu ti trovi magicamente ad essere in sintonia con le persone che la pensano come te. Il problema è che questo meccanismo è generalizzato e produce un processo di costruzione della realtà drammaticamente importante: la teoria della coltivazione.
(una lunga esposizione alla televisione condiziona la percezione della realtà da parte dei telespettatori Secondo George Gerbner e i ricercatori che insieme a lui hanno elaborato questa teoria, la televisione rappresenta la forza dominante nel modellare la società odierna. Ciò grazie alla sua capacità di diventare in ogni casa la fonte che fornisce la maggior parte dei ‘racconti’.)( Gerbner cita spesso le parole del patriota scozzese Andrew Fletcher: “Se a un solo uomo fosse permesso di comporre tutte le ballate, costui non avrebbe più bisogno di preoccuparsi di chi fa le leggi di una nazione”)
E’ necessario che gli editori organizzino la propria presenza sulle piattaforme. Non stiamo parlando di utilizzare Facebook per portare traffico sul sito del giornale, dell’agenzia, dell’editore. Qui si tratta di presenza editoriale specifica sulle piattaforme. Presenziare con i propri contenuti tutte le piattaforme. Prodotti, contenuti informativi auto conclusivi, non sono link al sito, sono oggetti destinati alla piattaforma in modo specifico e molto spesso anche differenti nel confezionamento per ciascuna di esse.
La funzione di intermediazione delle piattaforme non è eliminabile. Vincono loro, non perché sono potenti, ricche, e famose, ma perché ci sono indispensabili nella vita.
La regolamentazione delle piattaforme può avvenire solo a livello sovranazionale.  Le piattaforme sono entità sovranazionali.
Nel caso delle news è evidente che esiste la possibilità di creare un ecosistema nazionale, ma bisogna accettare alcune regole. Dovremmo arrivare ad un modello in cui con un abbonamento da 10 euro si possano leggere tutti i quotidiani.
Io, da lettore, sono stanco di dovermi assoggettare alla gerarchia delle notizie che decide il direttore, sono oramai abituato a costruirmi in proprio la mia dieta informativa. Le persone si approcciano alle news dall’unità di contenuto, non a partire dalla testata.
Se l’informazione è un bene comune, ed è un lubrificante necessario dei sistemi democratici, allora è anche giusto che come comunità ci facciamo carico di questo costo, operando se necessario delle scelte.
Qualcuno mi deve spiegare per quale motivo si dà un intero canone alla Rai – lo dico da sempre – e non si dà parte di quel contributo a chi fa informazione locale. Questo l’ho sempre trovato assurdo, da cittadino. Il presidio del territorio è una di quelle cose che andrebbero tutelate dal punto di vista strutturale.
Salvatore Cannavò vice direttore de Il Fatto Quotidiano
Nel nostro lavoro Il cittadino va riportato al centro del nostro operato. Premiamo chi si compra un giornale in qualche forma, in una qualunque forma. Perché non possiamo aiutare anche chi acquista un giornale invece di aiutare solo chi guarda la tv?
Francesco Ognibene vicedirettore di Avvenire
Io non voglio diventare in futuro un istruttore di algoritmi
Il giornale è lo strumento attraverso il quale viene attivata una cittadinanza consapevole, un vero pluralismo, il fatto di sentirsi partecipi di una comunità , il fatto di sentirsi attivi spinti a partecipare, informati a leggere e rileggere, a tornare sull’argomento a tenersi da parte l’articolo, a criticare, a cambiare giornale il giorno dopo.
Pietro Caricato caporedattore del Corriere di Romagna
I giornalisti non sono e non devono essere dei soldatini al servizio di chi comanda.
E se il futuro che vogliamo sarà quello di città nelle quali l’informazione venga fatta dal singolo redattore del sito online: il futuro sarà un terreno di devastazione dove quasi non esisterà più la figura del giornalista. Sarà un futuro nel quale le notizie che circoleranno saranno prodotte da chi ha i mezzi per raccontare la sua verità , senza nessuno che potrà controllare se quello che dice sia vero. Partiti politici, grandi industrie, società multinazionali.
Vincenzo Ferrari direttore di Buonasera Taranto
I giornali restano un filtro, a mio modo di vedere, fondamentale tra opinione pubblica e istituzioni, altrimenti lasciamo il campo ad una pirateria informativa che si sviluppa attraverso siti gratuiti del copia incolla, e lo spontaneismo del cittadino che senza essere adeguatamente formato e preparato spara notizie che poi magari si rivelano del tutto inattendibili.
Informazione nativa digitale
Francesco Saverio Vetere  Segretario generale dell’Uspi
Nel 2001 la legge 62 che ridefiniva il prodotto editoriale. Per il legislatore del 2001 il prodotto editoriale non era nativo digitale, era semplicemente la versione pdf del giornale cartaceo
Per arrivare a riconoscere ai giornali digitali la stessa dignità , e quindi parità di trattamento totale, rispetto ai giornali cartacei, ci è voluto, in pratica, il 2016.  La legge 198 del 2016 (2 errori: in prima istanza parlava solo di quotidiano e quindi ancora una volta introduceva un concetto di periodicità dentro ad una definizione, di un mezzo, di un giornale, che non c’entra nulla con la periodicità ).
Sono giornali che sono letti da milioni di persone ma che non hanno dei ricavi soddisfacenti, perché non viene retribuito il loro lavoro nella misura dell’importanza che hanno, e dell’impatto sociale che hanno.
Matteo Rainisio Vicepresidente di Anso
Un giornale come Varesenews fa quasi 50.000 pagine viste al giorno solo con i necrologi.
Pier Luca Santoro esperto di editoria e marketing
Queste sono le corrette strategie per provare a rilanciare il settore:
- Solo per me (sentiment di esclusività ),
- Personalizzazione (un buon set/sistema di raccomandazioni e personalizzazione),
- Distribuzione (piattaforme di accesso e distribuzione efficienti, semplicità e omogeneità su tutte le piattaforme),
- Conversione (aperta, rilevante,inclusiva, trasparente),
- Reputazione (socializzazione digitale e materiale, aumento della reputazione del cliente),
- Accesso (facilità di pagamento e di accesso),
- Immediatezza (accesso ai contenuti asap),
- Abbondanza (modello all you can eat), Relazione (buona valutazione e relazione affettiva con i clienti),
- Contenuti (unici e di qualità ).
Roberto Miscioscia editore LatinaQuotidiano Latina Corriere
Il termine quotidiano online è improprio perché noi siamo online in tempo reale, siamo giornali in tempo reale, perché in tempo reale noi pubblichiamo le notizie, h24.
Vittorio Pasteris Quotidiano Piemontese
Le fake news, bene o male ci sono sempre state, ora sono più evidenti per tante ragioni, il problema a monte è un altro, ed è che in questo Paese, ma anche in altri, abbiamo un problema gravissimo di media literacy cioè di competenza nella capacità di leggere i media che è parimenti legato a un problema di privacy literacy cioè di capacità di gestire la nostra privacy per evitare grossi danni.
Oltre la crisi le proposte dei giornalisti
Vito Crimi ex sottosegretario all’editoria
La crisi del settore non può essere affrontata con una visione corporativistica.
Questo è un sistema che va visto nella sua interezza. Se c’è una crisi lo Stato deve fare la sua parte. Però nessuno deve pensare che lo Stato debba sostituirsi integralmente al mercato.
Ferruccio Sepe capo dipartimento per l’informazione e l’editoria
Anche in Europa continuano a cercare strumenti per garantire il pluralismo. il mercato non basterà , ma non sarà lo Stato a poterlo sostituire
Daniele Nalbone – Giornalista, scrittore e Responsabile web di “Paese Seraâ€
E’ venuta meno la fiducia nei giornalisti e nei giornali da parte delle persone.
L’informazione è diventata una commodity. Quello che noi leggiamo tutti i giorni sui siti d’informazione è la stessa identica cosa su ogni giornale allo stesso momento. Oggi i siti di informazione sono discariche di link.
Ci troviamo davanti un flusso continuo di notizie che non hanno né capo né coda. Tutti corriamo nello stesso identico momento per la stessa identica notizia.
I piani editoriali, i modelli di business, sono tutti incentrati sull’indicizzazione che ci dà comunque Google. Se Google chiude i rubinetti, chiudono i giornali.
Il risultato è quello di aver riempito le redazioni non più dei giornalisti ma di web content editor, cioè di persone che si trovano a fare dieci, quindici, venti articoli ogni giorno, copiati da una parte e dall’altra, per farli piovere sui motori di ricerca, sui social network. E la cosa ancora più grave è che queste persone sono pagate, quando va bene, mille euro al mese.
E’ tutto normale che dal nulla nascano siti che fanno cinquecentomila visite, facendo cento-centocinquanta articoli. E poi chi li produce, non vediamo nessun articolo firmato, nell’80% dei casi sono siglati redazione. Che cos’è quella roba lì ?
Il ruolo del giornalista oggi di fronte al declino culturale, non solo di questo Paese, ma proprio dell’intera Società , è assolutamente importante, ancora più importante.
I contributi pubblici dovrebbero essere spesi anche su progetti di ricerca e sperimentazione nel giornalismo
Alberto Puliafito – Giornalista, scrittore e Direttore “Slow Newsâ€
Molti analisti chiamano il contesto in cui viviamo: content-shock. Cosa vuol dire content-shock? Significa che in un minuto viene prodotto e pubblicato talmente tanto contenuto online che non ci basterebbe una giornata intera per consumarlo,
Se ci preoccupiamo di inseguire Facebook sul suo terreno. Un terreno fatto di quantità , di velocità e di personalizzazione, possiamo essere abbastanza certi che quella battaglia la perderemo
Mi sono trovato a quaranta anni a capire che da giornalista dovevo studiare anche come si fa una start-up, dovevo studiare marketing e strategie di comunicazione, dovevo studiare gestione aziendale, e tutta una serie di altre cose che mai avrei pensato.
Portare più traffico sul sito vuol dire molto spesso fare i titoli accattivanti, forzare la notizia, cercare di dare delle interpretazioni che poi puoi giocarti sui social, così le persone cliccano, e vuol dire soprattutto dimenticarsi completamente che là fuori ci sono degli esseri umani, delle persone
Si scoprono cose interessanti ascoltando i lettori
Marco Gambaro –Professore di Economia e industria dei media Università Statale di Milano
Quando l’informazione è disponibile così facilmente diventa una commodity e se è disponibile dappertutto il prezzo scende a zero. E comunque l’interesse decade. Non è una questione di abitudine a pagare. Semplicemente se è disponibile, le persone, quello che è disponibile lo prendono
Non esiste un business model valido per tutti e non esisterà mai,
Oggi, le organizzazioni parlano direttamente con il loro target, si direbbe nel marketing. Con i loro clienti potenziali, con i clienti lettori. E non solo le organizzazioni commerciali ma i politici, le istituzioni, le aziende, tutti.
La disintermediazione estromette gli intermediari. Che erano intermediari non solo perché selezionavano bene le notizie, perché erano esperti, ma anche perché avevano il controllo esclusivo delle tecnologie per farlo.
Pierluigi Franz presidente sindacato cronisti romani
L’Inpgi è un unicum nel parco del panorama previdenziale italiano. Lo ha detto la Cassazione in sezioni unite con sentenza 19497 del 2008 è l’unico ente previdenziale italiano privatizzato sostitutivo dell’INPS che si accolla in gran parte il costo degli ammortizzatori sociali lo Stato non rimborsa questi costi che hanno avuto per i giornalisti un peso enorme.
La legge del ministro del lavoro Rubinacci la numero 1564 del 20 dicembre 1951 tuttora in vigore prevede che gli editori siano tenuti a pagare la stessa percentuale di contributi che avrebbero pagato tutte le aziende all’INPS. Questa percentuale è stata sempre, fino a tre quattro anni fa, inferiore di sette otto punti, e questo ha portato un miliardo di euro in meno nelle casse dell’Inpgi in 65 anni
Un altro aspetto importante da un punto di vista economico per la categoria riguarda l’articolo 31 dello Statuto dei lavoratori Noi abbiamo, come categoria, moltissimi rappresentanti alla Camera, al Senato, al Parlamento europeo. Tutte queste contribuzioni figurative dei parlamentari si aggiungono al vitalizio e le paga l’Inpgi
L’applicazione della legge 416 è costata un’enormità allo Stato e all’ Inpgi, non si è aiutato il giornalismo e i giornalisti, è stata una sovvenzione sul costo del lavoro ai grandi editori.
Servono leggi. Il primo intervento normativo dovrebbe essere l’abolizione dei contratti co.co.co nel giornalismo. L’abolizione dello sfruttamento. Aiutare le parti sociali per combattere il precariato.
Enrico Campagnoli presidente della federazione italiana giornalisti pubblicisti:
Marconi pochi mesi prima di morire disse al Chicago tribune una cosa che vista oggi sembra una profezia: “sino adesso poche persone via radio trasmettono a tutti verrà un giorno in cui ogni persona trasmetterà a tutti gli altri e viceversaâ€. Il giorno, quei giorni sono arrivati.
Antonello Giuseppe Bianchi pubblicista tecnico informatico
Mi sono reso conto e penso che sia ormai una nozione abbastanza diffusa, che la popolazione, le persone, i non tecnici, non erano e non sono ancora pronti per internet. La tecnologia ci sopravanza mediamente e quei pochi tecnici che sanno usarla alla fine condizionano l’uso di internet.
Google e Facebook sono i principali artefici dello svuotamento della nostra professione.
Non c’è più bisogno di comprare i giornali. Basta che vai sul motore di ricerca.
Alcuni signori, quattro cinque, sei soggetti, si sono arricchiti come credo poche volte o mai nella storia dell’Umanità .
Credo che la strada sia quella di un intervento pubblico statale regolatore: cari signori pagate le tasse. E poi bisognerà trovare un modo per ridistribuire le risorse.
Luca Streri movimento mezzopieno
Ricominciamo dai ragazzi, dai bambini, educhiamoli a capire cosa stanno leggendo, in tutte le varie forme: social, giornali, radio, tv, quello che è più vicino a loro.
Piergiorgio Severini sindacato giornalisti delle Marche
Non permettere, che con i contributi, gli editori raddoppino il proprio fatturato e di conseguenza i loro utili di bilancio, che finiscono nelle tasche dei padroni delle aziende. E’ assolutamente inutile regalare soldi agli editori.
Simona Fossati consigliere di amministrazione fondo complementare dei giornalisti
Noi chiediamo l’eliminazione per legge dei co.co.co.. Non esiste che ci siano migliaia di co.co.co. mono committenti, cioè che collaborano con un unico editore, con un unico giornale e con la richiesta dell’esclusiva, senza avere nessun tipo di tutela.
Se io sono un editore e posso usufruire di un esercito di schiavi ma perché dovrei tenere dei giornalisti assunti? Non avrebbe senso.
Io sono una giornalista con partita IVA, lavoro in RAI e anche al Corriere della Sera. Come partita Iva non mi viene applicato il contratto giornalistico. Nel servizio pubblico ci sono duecentocinquanta, quasi 300 persone nella mia stessa condizione, che significa emettere una fattura di mille euro al mese, che viene pagata a novanta giorni. Però si deve lavorare tutti i giorni, fare più di otto ore al giorno, e non avere comunque la disoccupazione e tutti gli altri diritti: ferie, malattie, maternità . Non abbiamo un contratto giornalistico e chiediamo stabilità .
Noi siamo per: Che altro dire? La maggior parte delle dichiarazioni dei giornalisti presenti in sala nel giorno della conferenza stanno lì a dimostrare senza ombra di dubbio quanto sia consistente la crisi in atto. Quanto sia profondo lo scollamento fra un ipotetico periodo dorato – mai esistito di fatto – del giornalismo del passato, ed un presente non compreso, e che potrebbe davvero essere l’epoca d’oro della nostra professione. Ma purtroppo pare esserci in tutti, poca, pochissima voglia, di metterci impegno e comprendere le ragioni ultime del cambiamento in atto, facendosi così trovare realmente “parati alla bisognaâ€. Se poi ancora qualcuno avesse dei dubbi, si legga e rilegga fino allo sfinimento, l’intervento della collega Simona Cangelosi, che pone, a nostro avviso, tutti gli accenti nei posti giusti di ogni vicenda passata, presente e futura di qualunque professione pensiamo sia stata, debba o dovrà essere il giornalismo. Nel nostro Paese, con o senza il Pubblico, con o senza dignità , con o senza rispetto, rischiando la vita o semplicemente provando a sopravvivere.