… oggi nei giornali quel che conta è fare in fretta, risparmiare tempo e quindi denaro, lavorare al desk, che poi significa stare col sedere incollato alla sedia dell’ufficio, scrivere quattro acche, accontentandosi delle veline che ti passano i vari uffici stampa ormai anche polizia e carabinieri hanno i loro ‘portavoce’ mortiferi per la nostra professione, – non fare troppe domande che altrimenti si rischia di prendere querele o comunque dar fastidio a qualcuno, dedicarsi al lavoro che fino a pochi anni fa era svolto dai tipografi: così gli editori risparmiano montagne di soldi perché, con un solo giornalista, ottengono il lavoro di più giornalisti e di una decina di tipografi assieme, confezionano un’informazione addomesticata, tranquilla, senza unghie né denti, di contorno alla pubblicità . E addio alla libera informazione, ma addio pure all’interesse dei lettori che ormai, quando prendono in mano un giornale, rischiano di slogarsi una mascella dagli sbadigli che fanno.
Elisio Trevisan
Quanto è ancora corretta e coerente questa visione dell’interno di una redazione oggi? Quanto corrisponde e quanto è cambiata l’attività e il lavoro dei giornalisti? Domande retoriche, ovviamente – e di questo siamo molto dispiaciuti – soprattutto alla luce dei diciassette anni di distanza da quell’articolo. Del resto non è forse vero che solo poche settimane fa, esattamente il 10 maggio scorso, uno dei più prestigiosi gruppi editoriali italiani – Gedi, per non far nomi - ha cambiato la propria impostazione “produttiva”, passando da una logica: “paper first” ad una “digital first” ? Come spiegato dettagliatamente nell’ordine di servizio inviato dal direttore di Repubblica Molinari ai propri redattori, che – in uno specifico punto che andiamo ad isolare - dice testualmente: “Per dirla sul piano dei principi organizzativi, è necessario ripensare e rimodulare la nostra giornata tipo facendola girare non più attorno alle due piattaforme – carta/digitale – di pubblicazione ma alle notizie, ai contenuti che quelle piattaforme alimentano indistintamente, indipendentemente dunque dalla loro destinazione”.
Fa effetto, non pensate anche Voi? Chiariamo inoltre che ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è voluto e ribadito da una nostra precisa scelta “editoriale” . Segue estratto da digit2014:
Anche perché oltre alle problematiche produttive, l’industria del giornalismo di informazione, deve fare molta attenzione ad altri delicati “frangenti”, come ci segnalava – in epoca remota e non sospetta – il professor Fabrizio Tonello in un libro del 2005 intitolato “il giornalismo americano”:
“Del resto la stessa categoria ‘giornalismo’ non è più adeguata a descrivere la frammentazione dei formati e dei messaggi. La moltiplicazione di canali televisivi, la crescita di Internet, il successo della radio parlata, la proliferazione di prodotti para-giornalistici ci dovrebbero indurre a discutere di ‘vari giornalismi’, molti dei quali hanno una parentela assai vaga con quell’industria di raccolta organizzata delle notizie di interesse generale che eravamo abituati a conoscere”. Secondo Tonello, infatti, “i recenti sviluppi dell’economia della comunicazione (la nascita di Internet, le concentrazioni in grandi gruppi multimediali e la ricerca di profitti sempre più alti) vanno tutti non in direzione di un giornalismo ‘obiettivo’, che ricerca la precisione e la contestualizzazione, bensì verso la crescita dell’infotainment’. Non, quindi, “verso un giornalismo preciso e autorevole, ma verso una pluralità di voci che sconfina nella Babele.”
Del resto, quando emergono problemi di questo tipo, non sempre si reagisce in modo congruo e adeguato. Non si pensa a quanto importante sia questo fenomeno e a quali pesanti riflessi culturali può e potrà avere sulla nostra società . Si reagisce così in modo scomposto rispetto alla problematica in corso, cercando mezzi e soluzioni, coercitive e punitive, invece di indagare con maggiore attenzione e profondità il tema in discussione. Invece di provare ad andare oltre la superficie degli eventi. Per reagire con dimostrazioni di forza bruta, – ad esempio nuove leggi – , oppure nuovi regolamenti, o nuove imposizioni d’ufficio:
“Una legislazione che assicuri formalmente le libertà di stampa e di espressione non è sufficiente se queste esigenze non sono state in qualche modo interiorizzate e fatte proprie dai giornalisti. Questa la principale chiave di lettura di un Rapporto sull’autoregolazione del mondo giornalistico di fronte alle improvvise trasformazioni sociali e politiche nei paesi dell’est europeo realizzato dall’associazione inglese Article XIX: “Freedom and Accountability Safeguarding free expression”
Pino Rea
In un articolo pubblicato su Foreign Affaire nell’aprile del 1945, ricorda Giavazzi, Luigi Einaudi scriveva: “Il
Direttore dovrebbe essere l’unico responsabile dell’indirizzo politico, economico, finanziario e generale del giornale. Una volta nominato non dovrebbe essere licenziato, né dovrebbe subire limitazioni senza il consenso di un comitato di fiduciari (Board of Trustees) composto da uomini di sicura stima”.
Il contributo pubblico ai giornali (legge 416 e poi 62 del 2001) – agevolazioni fiscali e contributi per l’acquisto della carta -, è “difficile da giustificare e sarebbe meglio cancellarlo”, secondo Giavazzi: “se infatti si accettasse il principio che le aziende che producono beni definibili ‘pubblici’ meritano un sussidio dello Stato, si formerebbe subito una lunga coda davanti alle porte del Parlamento. Ma fintanto che il contributo esiste – osserva – almeno potrebbe essere usato con intelligenza, riservandolo a quei quotidiani che introducano negli statuti delle società che li possiedono, regole simili a quelle suggerite da Einaudi.”
Quanto sono potenti, adeguate e moderne, le parole di Luigi Einaudi, oggi come allora. Quanto poco, serve, il contributo pubblico, allora come oggi, e ovunque nel mondo – non solo in Italia – alla luce dei fatti recenti e recentissimi, che raccontano di redazioni sempre meno popolate e di giornali che chiudono a raffica; e anche, e soprattutto, dopo la transizione digitale, subita anche dal settore dell’informazione professionale. Servono soluzioni diverse. Lo proviamo a dire da qualche tempo. Lo ha fatto – proprio rispetto al contributo pubblico per l’informazione – in epoca non sospetta, il nostro associato Marco Dal Pozzo nel suo libro: “1 news, 2 cents la qualità costa. Un modello sociale per l’editoria†. Lo ha ribadito – e lo abbiamo scritto anche qui – all’ultimo festival dell’economia di Trento la studiosa francese Julia Cagè. Nessun intervento a “pioggia”, inutili e deleteri le contribuzioni sparse, che vanno a finire, quasi sempre, solo e soltanto, nelle tasche dei “soliti noti”, o peggio nelle saccocce di organismi e testate che, talvolta, nemmeno hanno le caratteristiche necessarie per poterli ricevere. Servono persone e organismi più avveduti, più moderni, più adeguati alla realtà dei fatti. Servono persone, organismi e provvedimenti che siano in grado di affrontare le delicatissime problematiche in corso e che – purtroppo – non riguardano solo il funzionamento e la sopravvivenza del comparto industriale dell’informazione professionale. Fatti e questioni, forse un tantino più importanti, come la libertà e la democrazia, per non far nomi. E non possiamo fare a meno, ringraziandoVi dell’attenzione e augurandoVi una buona settimana, di riandare con la mente agli Stati generali dell’informazione convocati dal Governo giallo -verde nel 2019 – sembra un secolo fa - e al loro totale fallimento, sigh!