Allora se la questione fosse: come tutelare i diritti dei giornalisti che svolgono la loro professione; forse riusciremmo a venirne fuori, persino ora – dentro la rivoluzione digitale – nel bel mezzo di questo cambiamento epocale, e sommersi – come pensano in molti e a torto – dall’onda montante delle “bufale informatiche”. Ma se la questione che ci si pone è: come salvare l’Inpgi? Allora NON C’E’ SCAMPO. Non esiste alcun motivo di salvare alcunché. O meglio. Non esiste alcun problema con l’Inpgi. I giornalisti dipendenti dovranno di buon grado essere convogliati dentro l’Inps, mentre il resto – ovvero la gran massa dei giornalisti italiani – hanno tutti i diritti di conservare il proprio ente previdenziale. Non solo ne hanno il diritto, ma hanno anche i fondi, il denaro, le possibilità economiche, per farlo. Perché come ben sappiamo, ad essere in crisi totale e senza alcuna possibilità di risollevarsi, è l’Inpgi 1, ovvero la parte dell’istituto che si occupa di gestire le risorse previdenziali dei giornalisti dipendenti. Mentre l’Inpgi 2, la parte della cassa dedicata ai liberi professionisti, gode di ottima salute e prosperità economica.
Stante così le cose, perché dunque affannarsi alla ricerca di una salvezza per tutto l’Inpgi? Stacchiamo la parte malata, da quella sana, e procediamo.
Ma il problema, come abbiamo provato a dire qui sopra non è lo stato dell’Inpgi, bensì il senso della professione giornalistica, all’alba del terzo millennio e dentro alla rivoluzione digitale. Ripristinare la “funzione giornalistica”, come andiamo “cianciando” da tempo, per garantire, ove sia ancora possibile, alle persone, la capacità di informarsi in piena libertà e autonomia. Avendo accesso a tutte le “fonti” e non solo a quelle che l’algoritmo decide di farci vedere. La funzione giornalistica per poter essere esercitata necessità di professionalità e non di casualità . E la professionalità deve essere tutelata, salvaguardata e “soprattutto”, opportunamente remunerata.
Allora come fare? Certamente non come si è fatto - o meglio non si è fatto – sino ad ora. Cercando in tutti i modi di fingere di cambiare qualcosa per non smuovere nulla. Il cambiamento deve essere radicale e deve coinvolgere il “pubblico”, inteso come apparato di garanzia e tutela della funzione giornalistica. Se e fino a quando, l’Ordine dei giornalisti sarà un ente di diritto pubblico, ogni riforma della professione giornalistica, non potrà che essere una riforma scritta, concertata e realizzata di comune accordo con il “pubblico”. E non stiamo parlando – sigh - delle decine di proposte di riforma sottoposte al Parlamento negli
Con la rivoluzione digitale il modello industriale dell’editoria dell’informazione è tramontato. Servono nuovi modelli. Mentre gli industriali li cercano, – ammesso che li stiano davvero cercando – ; se si pensa che il giornalismo serva al Paese e al Mondo, bisogna preoccuparsi di ripristinare la funzione d’uso del medesimo. Restituendo dignità e attualità alla professione. Per farlo servono nuovi occupati e dipendenti, oppure, servono nuove regole e tutele legali per tutti. O meglio, servono tutte e due le cose.
I giornalisti dipendenti non bastano a salvare i conti dell’Inpgi? Bene, convinciamo gli editori ad assumere, non a licenziare o pre-pensionare i giornalisti. Come si fa? Intanto rendendosi conto che mentre l’editoria mainstream precipita a fondo, è nata e prospera un’altra editoria - quella online – nazionale, regionale, locale e iperlocale che ha un bisogno disperato di regole certe per poter assumere e mettere in regola centinaia di addetti. “Personale qualificato” che da anni – decenni - opera senza regole, senza contratto, senza ammortizzatori sociali, senza un sindacato che li rappresenti e tuteli. Considerando nella giusta prospettiva tutte le realtà regionali, locali e iperlocali che operano nell’editoria – minore – di ogni ordine e grado: carta stampata, radio, televisioni. Quello che sta succedendo nella stampa online in fondo era già successo con l’avvento delle radio e delle tv locali. Con l’avvento delle “private” arrivarono decine di migliaia di posti di lavoro anche nel giornalismo in Italia, ma è bastata una ventata un pochino più forte – non una tempesta e nemmeno una rivoluzione badate bene – ma la leggera brezza – mal interpretata e soprattutto mal gestita - del digitale terrestre a falcidiare redazioni e desk vari, e a ridurre quasi a zero i giornalisti operanti nelle radio e tv regionali, locali e iperlocali.
Ignorare il senso profondo della trasformazione digitale – per dirla con il grande Piero Dominici: “la complessità del cambiamento in atto” – arroccandosi sulla difesa a oltranza di posizioni obsolete, non solo non fa progredire nessuno, ma porta sempre di più alla perdita di diritti e regole, raggiunti con difficili e talvolta sanguinosi anni di lotte. Quello che vale per il comparto giornalistico vale per la maggior parte dei settori della produzione. Se il modello produttivo che va per la maggiore è quello delle grandi techno-corporation: Google, Amazon o Facebook; allora quei modelli dovrebbero – prima di tutto – essere nati e prosperare in un alveo di garanzie e diritti preesistenti e preordinati, non certo nel selvaggio west dove tutto è lecito e dove le regole non esistono, oppure sono stabilite esclusivamente dalla proprietà , magari con l’ausilio dei famigerati algoritmi.
Non servono crociate, non servono favori, non serve certamente inserire forzosamente nel bacino produttivo del comparto dell’informazione figure professionali che con questo mestiere nulla hanno a che fare. Non servono proclami, ne suppliche. Ragionare seriamente sulla riforma del settore, quello sì, quello servirebbe, soprattutto per evitare di credere che l’informazione sia in grado di autotutelarsi. Anche perché se così fosse, – e non è – ci troveremmo difronte ad un problema ancora più grave: chi sorveglia i sorveglianti?