Con l’invenzione del computer gli algoritmi sono stati trasformati in programmi da usare non soltanto per calcolare operazioni aritmetiche, ma per risolvere molti problemi quotidiani e per automatizzare tanti processi che prima erano manuali. Questo ha portato molti benefici alla nostra vita. Tuttavia con la diffusione pervasiva delle macchine elettroniche il tempo e lo spazio in cui l’uomo vive rischiano di essere ri-programmati e ri-organizzati dagli algoritmi. Le modalità con cui interagiamo, collaboriamo, lavoriamo e persino pensiamo, sono ormai condizionate dal funzionamento degli oggetti digitali (cellulari, computer, sensori, robot, ecc.) che usiamo quotidianamente. Il rischio che corre la nostra società è di vivere una sorta di alienazione tecnologica che ci porta a cedere agli algoritmi e alle macchine che li eseguono il controllo di tanti aspetti della vita dei singoli e del vivere collettivo. Non bisogna demonizzare le nuove tecnologie, è necessario conoscerle e usarle per migliorare la nostra vita senza divenirne vittime.
Un mondo più facile, più accessibile, e alla portata di ciascuno di noi, ma anche, un luogo in cui le discipline del controllo e della sorveglianza, stanno diffondendosi sempre con maggior insistenza e pervasività , costringendo le persone a difendersi, o peggio ancora, a divenire soggetti “sorvegliati e controllati”, invece di poter essere protagonisti di una nuova era di crescita e prosperità .
Attorno al 2010, la matematica era diventata una componente preponderante nelle questioni umane come mai prima di allora, e l’opinione pubblica ne era in massima parte felice.
Ma sentivo che i guai erano dietro l’angolo. Le applicazioni matematiche che facevano girare l’economia dei dati si basavano su scelte di esseri umani fallibili i quali senza dubbio, in molti casi, erano animati dalle migliori intenzioni. Ciò nonostante, molti di questi modelli avevano codificato il pregiudizio umano, l’incomprensione e l’errore sistematico nei software che controllano ogni giorno di più le nostre vite. Come fossero divinità , questi modelli matematici erano misteriosi e i loro meccanismi invisibili a tutti, tranne che ai sommi sacerdoti della materia: matematici e informatici. I loro giudizi – anche se sbagliati o pericolosi – erano incontestabili e senza appello. E se da una parte penalizzavano i poveri e gli oppressi della nostra società , dall’altra aiutavano i ricchi ad arricchirsi sempre di più.
Ho trovato un nome per questo genere di modelli negativi: li chiamo “armi di distruzione matematicaâ€, o ADM.
(Armi di distruzione matematica Cathy O’Neil)
Eppure i presupposti per rendere e poi realizzare il nostro mondo un luogo “digitale e digitalizzabile”, c’erano tutti, e ci
Il computer non può fare discorsi vaghi, o ragionare ad intuito: il computer, per sua natura, computa. Ovvero, prende una ricetta, inserisce in entrata degli ingredienti e dà in uscita un piatto pronto, cioè un risultato.
Per rendere computabile un problema, è necessario modellizzarlo in modo numerico: decidere quali ingredienti usare, associare dei numeri agli oggetti in gioco (gli ingredienti), e usare un algoritmo (ricetta) per tirare fuori una risposta numerica (piatto). Questa associazione eventi-numeri può essere fatta in modo estremamente versatile, tanto che possiamo utilizzare il computer per prevedere che tempo farà nei prossimi giorni, capire se un testo scritto e attribuito a una data persona è autentico oppure falso o partecipare a un gioco a premi come Jeopardy!, che presume una capacità di comprendere il linguaggio nelle sue sfumature più sottili, anche a livello umoristico e metaforico.
Però è sempre necessario rendersi conto che il computer, quando lavora, computa: ovvero, esegue un ordine. Risponde a una domanda che noi gli abbiamo posto con un modello che noi gli abbiamo programmato. Quando il computer risponde, ci sta dicendo come si comporta il nostro modello, non la realtà . Sembra una affermazione piuttosto banale, ma non sono pochi i casi in cui l’utente dimentica questa fondamentale differenza.
Quando è successo che dal modello previsionale studiato per supportare al meglio le azioni e le decisioni umane, siamo passati alla modellazione della realtà partendo dal calcolo? Come è stato che invece di partire dall’osservazione del reale per realizzare i modelli computazionali ci siamo ritrovati alla tessitura diretta del nostro mondo fisico, partendo – viceversa – dal digitale, dal computerizzato? Quand’è che abbiamo smesso di preoccuparci di studiare, osservare e sperimentare gli innumerevoli, perlopiù complessi e sovente anche errati, passaggi, necessari alla realizzazione di modelli computazionali attraverso l’uso delle macchine di calcolo in modo da fornire reale supporto e ausilio all’Umanità nel disbrigo di questioni pubbliche e private delle persone, la “vita”, insomma? Come ha ben spiegato, la matematica Cathy O’Neil nel suo saggio “Armi di distruzione matematica” il passaggio è stato repentino e quasi automatico. Del resto le persone – noi tutti – scegliamo ovviamente sempre la strada più facile, più breve, quella con meno ostacoli e che prevede - soprattutto - meno impegni e “rotture”. Peccato che compiendo ripetutamente scelte di questo tipo, ci si stia letteralmente dimenticando dell’essenza dei nostri compiti. Della natura stessa delle nostre azioni. Si stia perdendo la nostra capacità di ragionare sul funzionamento dei nostri comportamenti, e si rischi di non essere più in grado di riprendere il controllo dei processi automatizzati di cui è sempre più densamente popolata la nostra realtà quotidiana.
Il problema principale, con i computer, è che molto spesso danno risposte, ovvero numeri, che vengono poi tradotti in significato. Ma per dare il significato corretto ai numeri che il simpatico agglomerato di circuiti ci sputa fuori, è necessario sapere esattamente che cosa gli abbiamo chiesto di fare. Il che potrebbe non coincidere con quello che gli volevamo chiedere.
A livello cognitivo, noi esseri umani cadiamo spesso nell’errore di sostituire una domanda di cui non conosciamo la risposta con una domanda più semplice;
Se fornite al vostro computer una vostra cartella clinica, completa di esami del sangue, e poi gli chiedete: “Visti e analizzati i miei valori clinici, che probabilità ho di morire?â€, lui vi risponderà : “Il 100%â€.
Invece di spaventarvi e di cominciare a scrivere una lunga lettera ai vostri cari, provate a riflettere. Provate a chiedergli: “Perché mi hai risposto così?â€, e lui vi dirà , semplicemente, “Perché sei un essere umano. Prima o poi, morite tuttiâ€.
Ecco l’inghippo, allora: gli abbiamo fatto una domanda troppo generica, confidando che il computer avrebbe messo in relazione corretta le due cose. Gli abbiamo fornito una cartella clinica e gli abbiamo chiesto che probabilità avevamo di morire – dato che la domanda e l’insieme di informazioni stanno nella stessa frase, abbiamo dato per scontato che il computer avrebbe capito le nostre intenzioni.
In realtà , il computer ha risposto così perché nella nostra domanda manca un elemento. Non gli abbiamo detto entro quando vogliamo che ci predica la nostra sorte. Noi volevamo sapere che probabilità abbiamo di dipartire prematuramente, ma il computer questo non lo sa – nessuno gliel’ha detto.
(Capra e calcoli Marco Malvaldi e Dino Leporini)
Purtroppo, proprio nel momento in cui il pianeta ha sempre più bisogno della nostra capacità di capire i problemi fondamentali e globali, nel momento in cui noi abbiamo bisogno di comprendere la loro complessità , i sistemi di insegnamento tradizionali adottati in tutti i Paesi continuano a separare, a disgiungere le conoscenze che dovrebbero invece essere interconnesse, e continuano a formare menti unidimensionali ed esperti riduzionisti che privilegiano una sola dimensione dei problemi umani, occultando tutte le altre. La scienza economica, ormai tanto sofisticata da essere diventata regina e guida delle nostre politiche, non riesce a concepire e a comprendere tutto ciò che non è calcolabile, qualificabile: passioni, emozioni, gioia, infelicità , credenza e speranza, che sono poi la carne dell’esperienza umana. Così la nostra formazione scolastica, universitaria, professionale, ha fatto di noi degli uomini incapaci di farsi carico della condizione di cittadini dalla Terra, oggi divenuta necessaria.
Ecco dunque l’urgenza, vitale, di “educare all’era planetariaâ€. Questo compito rende necessaria una riforma del nostro modo di conoscere, una riforma del nostro modo di pensare, una riforma dell’insegnamento: tre riforme interdipendenti. In questa prospettiva e per questa ragione mi pare necessario ripensare i problemi di metodo. Metodo inteso non come programma, ma come aiuto per affrontare la sfida onnipresente della complessità . Inoltre, è necessario dare un senso alla nozione di complessità , una parola molto utilizzata ma spesso solo per esprimere un’incapacità di descrizione o di spiegazione, ed è necessario anche proporre alcuni princìpi per affrontare le diverse complessità che incontriamo, al fine di concepire l’era planetaria nella sua dimensione storica, e quindi multidimensionale, e di indicare che nella crisi generalizzata di questo secolo appena iniziato si sta formando l’infrastruttura di una società -mondo che è ancora in gestazione, ma che noi dobbiamo aiutare a nascere.
In questa occasione mi pare dunque necessario promuovere un “umanesimo planetarioâ€.
E che nuovo Umanesimo sia, dunque, e speriamo di arrivarci preparati ;)
Grazie per l’attenzione e a presto.