E noi, da cronisti quali siamo, dopo aver visto, ascoltato e studiato l’intervento del nostro associato, vorremmo provare a proporVi alcuni estratti da questo webinar, in forma scritta e video. Passaggi, a nostro avviso importanti, che ci piacerebbe isolare e sottolineare, per ribadire alcuni concetti sulla complessità che il prof. Dominici ha saputo, a nostro avviso, esprimere in maniera davvero eccellente. La prossima settimana al termine della seconda parte del nostro articolo, troverete il video originale e integrale del webinar del 28 aprile.
Buona lettura e alla prossima ;)
Piero Dominici, è un sociologo e un filosofo e insegna Sociologia della Complessità , Comunicazione pubblica, Intelligence. Reti e Sistemi Complessi e  Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università degli studi di Perugia. Fellow della World Academy of Art and Science. Scrive per riviste scientifiche e di cultura ed è autore di libri e di numerose pubblicazioni scientifiche. Da alcuni anni è entrato a far parte della nostra associazione Libertà di Stampa e Diritto all’Informazione.
…la ricchezza dell’approccio alla complessità sta in tutta una serie di consapevolezze, non ultima appunto quella che vede la nostra vita, il nostro vissuto, le nostre emozioni: essere elementi costitutivi di questa che definiamo complessità .
Una complessità che non può essere gestita, misurata, controllata, né indirizzata o perlomeno non può mai esserlo fino in fondo. Una consapevolezza che un po’ tutti noi dovremmo avere della incompletezza costituzionale, che appartiene al nostro essere. Una incompletezza che di fatto ci mette nella giusta condizione per evocare un celebre concetto di Herbert Simon autore che si è occupato anche di complessità premio nobel per l’economia:  siamo in una condizione di razionalità limitata.
Le caratteristiche che noi abbiamo dal punto di vista proprio delle capacità di analisi, di elaborare, di dare sistematicità , di individuare le correlazioni tra i fenomeni: evidentemente sono sempre limitate. Ma è chiaro che questo fatto comporta una rilettura, un cambiamento radicale dell’educazione. Nella formazione dei processi educativi e formativi oltre che delle culture organizzative.
Una condizione di razionalità limitata, questo concetto elaborato da Simon, che è una questione fondamentale,  particolarmente significativa e per certi versi anche dirompente, prepotente, ai nostri giorni. Proprio questa tempo di straordinaria disponibilità di dati e di informazioni;  ci mette in una condizione a mio avviso illusoria di poter prendere fino in fondo delle decisioni, di operare delle scelte, di definire delle strategie; che sono appunto fino in fondo razionali, cioè basate sul presupposto che si possano operare scelte sulla base della disponibilità delle informazioni. Una valutazione del rapporto costi benefici più o meno attenta più o meno rigorosa.
Vi è l’urgenza del ripensare un modello di sviluppo. Finché continueremo a vedere la società come un sottosistema dell’economia, continueremo ad avere quell’approccio molto legato ad un soluzionismo tecnologico, a quel determinismo tecnologico, e anche a quella lettura, che poi si traduce in scelte e comportamenti di tipo tecnocratico, che sempre di più segnano le nostre democrazie. L’approccio alla complessità si fonda anche sulla visione, sull’idea, che l’assunto della onniscienza sia un assunto assolutamente fuorviante e ingannevole.
Serve usare una visione sistemica. Nell’analisi dei fenomeni che andremo a condurre, bisogna dare una traduzione operativa a questi concetti che oggi vedono tutti concordi nell’affermare la complessità dei fenomeni che tentiamo di abitare. Mentre invece le nostre istituzioni educative e formative, anche le nostre culture organizzative nel senso più allargato del termine, continuano a essere incardinate e strutturate, su logiche di separazione di potere e di controllo.
Alla base di uno degli errori più comuni troviamo: la confusione tra complicato e complesso e in modo particolare la confusione tra sistemi complicati e sistemi complessi.
a)sistemi complicati che evidentemente sono gestibili prevedibili misurabili e governati da azioni lineari
b)sistemi complessi che evidentemente sfuggono a tutta una serie di gabbie non soltanto concettuali e alla possibilità di una loro piena gestione e controllo
Esiste, intanto, una dimensione del lessico, terminologica, dei linguaggi, dei codici che noi utilizziamo. Va trovato l’accordo sui linguaggi nella consapevolezza che codici e linguaggi, sono sempre e comunque frutto di processi sociali di negoziazione, e quindi sono pertanto: convenzionali, arbitrari. L’arbitrarietà la convenzionalità del linguaggio, dei termini che noi utilizziamo, è un elemento che gioca un ruolo decisivo. Un esempio: il termine innovazione usato al posto di cambiamento, mutamento. Non si tratta solo di sinonimi o di concetti che hanno accezione e definizioni piuttosto simili. Abbiamo bisogno di pensare a questa profonda, radicale, trasformazione antropologica, che viene erroneamente associata ad una riflessione spesso deterministica e riduzionistica sulle tecnologie. Una trasformazione antropologica che si sostanzia nel processo di progressivo ribaltamento di quella interazione complessa, ancora una volta non lineare, tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Oggi gli esseri umani si trovano di fronte alla possibilità , non solo di operare un irreversibile salto di qualità , ma si stanno progressivamente impossessando, in virtù delle straordinarie scoperte scientifiche e delle altrettanto straordinarie innovazioni tecnologiche; dei meccanismi dell’evoluzione biologica.
Le grandi scoperte scientifiche, le grandi innovazioni tecnologiche, sono opportunità straordinarie che stanno andando sempre più nella direzione di metterci in condizione, non soltanto di controllare e gestire l’inizio e la fine della vita e delle forme di vita , ma anche di indirizzare e in qualche modo predeterminare i vari esiti dell’esistenza. Cambia evidentemente il nostro modo di concepire ciò che è vita è ciò che non è vita. Cambiano i confini tra natura e cultura, tra naturale e artificiale. Quei confini non solo si sono assottigliati, ma sono sempre più sfumati. Di più. Sono a mio avviso completamente saltati.
Prepararsi all’imprevedibilità significa, fra le altre cose: avere consapevolezza che l’errore, l’imprevedibilità , l’incertezza, sono ormai, non soltanto condizioni del ricercatore , dello studioso, del manager, ma di noi tutti, come persone. Sono condizioni a tutti gli effetti esistenziali, che segnano le nostre vite, nel senso più ampio del termine, e che ci dovrebbero restituire una serie di consapevolezze che, invece, non riusciamo a maturare.
La semplificazione non è un valore assoluto anzi non tutto è semplificabile.
Questo paradigma della civiltà iper tecnologica che si basa sulla progressiva marginalizzazione dell’umano. Perchè l’umano porta con sé l’errore, l’umano porta con sé l’imprevedibilità , l’umano porta con sé l’urgenza dell’assunzione della responsabilità . Ci porta a riflettere sull’opera e le tesi di Hannah Arendt su quel, lo dico tra virgolette, “modello organizzativo apparentemente scientifico” della tragica esperienza nazista, che si basava sull’isolamento e la deresponsabilizzazione delle persone. Alla fine il problema è quello di educare e formare, quelli che io chiamo meri esecutori di funzioni e di regole, che non sanno neanche interrogarsi sul perché eseguono quelle funzioni e quelle regole. Pensate invece a come l’errore, l’imprevedibilità nell’assunzione di responsabilità , di fatto ci caratterizzino. Non soltanto rispetto nel nostro essere umani, ma anche e soprattutto nel nostro essere umani liberi.
L’errore degli errori sta nella confusione, talvolta voluta e portata,  tra sistemi complicati e sistemi complessi. Una distinzione destinata ad essere spazzata via dall’arrivo dell’intelligenza artificiale. Questa distinzione che definisce sistemi complicati quei sistemi che riguardano, che attengono, al mondo degli oggetti, delle cose: i sistemi meccanici, artificiali, governati da relazioni lineari. In cui le relazioni lineari, spiegabili, rappresentabili, modellabili e visualizzabili di fatto rendono questi sistemi ugualmente osservabili, misurabili e quindi prevedibili, gestibili e controllabili fino in fondo.
Al contrario di quelli che poi anche in fisica vengono definiti sistemi dinamici non lineari – sia quelli caotici, sia quelli complessi – che sono, non soltanto sensibili alle perturbazioni degli ambienti e degli ecosistemi, ma che, di fronte a una piccola variazione delle condizioni delle variabili di partenza, si determinano, si auto determinano. Addirittura si possono anche auto organizzare, auto generare, secondo derive ed evoluzioni non lineari e del tutto imprevedibili.
Questo è il punto nodale della questione: la complessità non si può gestire. Dovremmo dunque ripensare l’educazione e la formazione anche dei manager, dei tecnici. Non nella direzione di un’educazione al controllo, e nemmeno nella convinzione che tutto possa essere osservato, misurato e gestito. Dovremmo educare e formare all’imprevedibilità .
Questo paradigma della civiltà iper tecnologica si fonda appunto su un grande equivoco: la tecnologia viene presentata, osservata, riconosciuta, come un qualcosa di esterno e di neutrale. In questi anni abbiamo sentito spesso ripetere l’affermazione che la tecnologia andasse a una certa velocità , e la cultura non riuscisse a starle dietro. E’ profondamente sbagliato, invece, continuare ad alimentare logiche di separazione tra formazione scientifica e formazione umanistica. Veniamo da decenni, in cui sono state importanti solo le competenze, solo le competenze digitali, contavano solo le lauree Stem. (Scienze, Tecnologia, Scienze e Matematica). Il grande equivoco di questa civiltà e della tecnologia è l’idea che a questa civiltà iper tecnologica, servano soltanto tecnici, servano solamente figure iperspecializzate. La specializzazione dei saperi e delle competenze e la loro interdisciplinarità , multidisciplinarità , transdisciplinarità o complessità , o visione sistemica, sono, a tutti gli effetti, tra le più sanguinose e significative: false dicotomie. Non si tratta di fare un discorso contro la specializzazione. Specializzarsi è un fatto inevitabile, perfino fisiologico. Il problema è che abbiamo creato le condizioni perché tra i saperi e le competenze, non ci fosse il benché minimo dialogo. E abbiamo visto quanto questa separazione, questa falsa dicotomia, fosse davvero devastante e sanguinosa, proprio in questa fase di pandemia – che io amo definire di ecosistema di emergenza - perché abbiamo potuto renderci conto, di come proprio in questa situazione, sia stato fuorviante e ingannevole continuare a tenere separato qualcosa che è, invece, profondamente e intimamente collegato e correlato. La separazione tra i saperi e le competenze, a mio avviso, è il vero nervo scoperto dell’epoca in cui viviamo.